Parliamone

 

Bisogna avere la capacità di ascoltare con l’anima le ragioni dell’altro

Olga D’Antona ha incontrato, nel carcere di Padova, la redazione di Ristretti Orizzonti

 

a cura della Redazione

 

Il 20 maggio 1999 un commando delle nuove Brigate Rosse uccideva il professor Massimo D’Antona, esperto di diritto del lavoro. È cominciato proprio rievocando questa storia così drammatica un incontro emozionante, che si è svolto nel carcere di Padova fra la moglie di Massimo D’Antona, Olga, oggi parlamentare, e i detenuti della redazione di Ristretti Orizzonti. Emozionante perché ha toccato temi forti, come il dolore e la frustrazione delle vittime, il loro bisogno di una attenzione vera da parte della collettività.

 

Marino Occhipinti (Ristretti Orizzonti): Innanzitutto grazie per essere qui. Immaginiamo che per lei non debba sicuramente essere semplice, ma anche per noi non è affatto facile. Prendo spunto dal libro Così raro, così perduto, che lei ha scritto nel 2003 con Sergio Zavoli, nel punto in cui si lamenta di una informazione a volte poco rispettosa, che tende al sensazionalismo, e del fatto che da alcuni giornalisti si è dovuta difendere, per chiederle cosa ne pensa dell’informazione che viene fatta in Italia, soprattutto sulle questioni che riguardano la cronaca nera e la giustizia. Penso al recente fatto di Erba, e cioè all’immediata e sbrigativa “condanna” del tunisino da parte degli organi di stampa, ma volevo anche sapere qualcosa in più sulla sua esperienza personale.

Olga D’Antona: Spesso i giornalisti, non tutti per la verità, nel tempo si impara a distinguere, privilegiano un tipo di giornalismo che asseconda quella che è la morbosità della gente, il sensazionalismo appunto, o asseconda certe paure che le persone hanno. Queste battaglie per difendersi da un certo tipo di informazione sono spesso un peso in più per chi subisce un reato grave, un dramma come quello che è toccato a me. Questo accanimento, questo voler attribuire per forza alla vittima un atteggiamento vendicativo anche se non le appartiene, tutto ciò è un di più, ma devo dire che ho trovato anche persone molto sensibili, che dovevano fare il loro mestiere ma che lo hanno fatto con il tatto e con la misura che si addiceva a questo tipo di circostanze.

 

Marino Occhipinti: A me sono rimaste impresse altre cose, del suo libro, che sono poi quelle che ci appassionano e che ci interessano di più. In un punto dice: “Ricordo che, nei primi mesi, dopo la morte di Massimo, sentivo in me il desiderio di capire. Se ne avessi avuto la forza, sarei andata nelle carceri per conoscere i brigatisti reclusi, parlare con loro nell’illusione di un possibile dialogo, di un possibile ravvedimento da parte loro. Nel tempo, conoscendo un po’ meglio questo mondo, ho perso interesse, ho avuto paura di trovarmi di fronte alla banalità, di fronte a persone non all’altezza della tragedia che avevano compiuto”.

Dalle sue parole si percepisce forse un desiderio di riconciliazione. Mi viene da pensare che lei non si accontenti delle condanne delle persone che hanno ucciso suo marito, ma che sia tanta la voglia di capire, forse addirittura di incontrarle. Come si pone di fronte alla mediazione penale, alla giustizia riparativa, temi certamente difficili da affrontare ma molto importanti?

Olga D’Antona: In effetti è un argomento molto complicato. Tenete conto che la mia era una famiglia come tante altre, mio marito quella mattina prende il caffè, mi saluta sulla porta, scende per andare a lavorare e incontra due persone che gli sparano sei colpi di pistola nel cuore. Io non capivo cosa mi stava succedendo, perché, di cosa si trattasse, da che parte fosse venuta questa aggressione. Una famiglia come la nostra, noi ritenevamo di non avere nemici, e quindi la mia prima esigenza era quella di capire cosa mi stava succedendo e perché, e l’altra cosa che immediatamente dentro di me ho sentito è stata: “Ma le persone che hanno commesso questo delitto, anche se dovessero pentirsi veramente, comunque non potrebbero mai sanare ciò che è accaduto”. La cosa che mi colpiva era l’irreversibilità di quell’atto: anche se queste persone dovessero ravvedersi, non potrebbero fare niente per sanare questo dramma.

E nello stesso tempo c’era appunto il bisogno di vedere in faccia queste persone, di avere un dialogo, di raccontare chi ero io, chi era mio marito, di capire io e far capire a loro, insomma, perché ogni atto deve avere una ragione, una finalità, e questa era la mia esigenza primaria. All’epoca avevo dei fantasmi, non sapevo da che parte girarmi: erano le Brigate Rosse, erano altro, che ne potevo sapere? Le cose si sono svelate via via, negli anni, e man mano che la verità si svelava e venivo a contatto con questo mondo, rimanevo sempre più esterrefatta da questi movimenti. Mi viene in mente che una volta, incontrando Carol Beebe Tarantelli* – che aveva oramai avuto occasione di conoscere la verità, la sua storia, era venuta a contatto con queste persone – le chiesi: “Ma che impressione hai ricevuto quando hai incontrato queste persone?”. Mi colpì quello che per me, in quel momento, fu un gesto incomprensibile. Lei alzò le spalle e non disse nulla, come a dire “Niente, non ho emozioni da raccontare, non ho niente da dire”. Ho capito questa sua reazione nel tempo, quando è toccato a me vedere in faccia queste persone, cogliere le loro reazioni.

Ero lì, nell’aula bunker del carcere di Rebibbia, durante il processo, e una cosa che notai fu la diversità. Ad esempio c’era una ragazza giovane, una bella ragazza, e pensai al perché una ragazza avesse distrutto la sua vita, a cosa gliene era venuto di buono. Poteva trovarsi il suo lavoro, costruirsi la sua famiglia, e adesso invece era chiusa lì, insomma mi sembrava veramente una vita sprecata; poi nell’altra gabbia vedevo invece questi che ridacchiavano, che non si rendevano neanche conto di quello che stava avvenendo lì dentro, che ero io presente, che la mia vita era stata devastata dal loro gesto.

Poi, via via che leggevo i loro documenti, mi chiedevo che senso ha oggi tutto ciò, in questo contesto storico, perché voglio dire, noi lo sappiamo che il terrorismo negli anni Settanta e Ottanta è stato ben altra cosa, nel nostro paese; ha avuto aree di consenso, se vogliamo c’era una comprensibile esaltazione collettiva di questi ragazzi, che erano poi prevalentemente molto giovani, e anche solo lo stare insieme, il frequentare certe persone, un certo clima, un certo ambiente, se volete anche in un momento sociale particolare, con le lotte operaie di quegli anni, in qualche modo rendono non giustificabile ma comprensibile la follia di quel momento. Ma oggi veramente mi sembravano delle persone devastate da un’ossessione, senza contatto con la realtà sociale, politica, storica di questo paese, e quindi ho pensato che forse non valeva la pena di confrontarmi con loro.

Invece ho incontrato altre persone che avevano vissuto gli anni del terrorismo in epoche passate, e che hanno anche scontato le loro pene, che hanno fatto un percorso di reinserimento nella società, che oggi svolgono attività nel volontariato, e credo che incontrarsi con queste persone sia stato importante per me e per loro.

 

Marino Occhipinti: Quindi lei desidererebbe un gesto da parte delle persone che hanno ucciso suo marito, quantomeno una richiesta di scuse?

Olga D’Antona: Certo che sì, e qui ho qualcosa da raccontare che per me è stato molto doloroso. Innanzitutto io parlo per me, non vorrei che si pensasse che le mie parole rappresentino tutti quelli che hanno subito violenze di questo genere, infatti io racconto un’esperienza che è molto personale e molto particolare, perché credo che ognuno viva il dolore a suo modo, ognuno ha poi un suo percorso pregresso, una sua formazione culturale, un suo vissuto che lo porta a vivere le situazioni in un modo piuttosto che in un altro, e ci tengo a chiarirlo che la mia è una testimonianza personale.

Certo che è la cosa che ho sempre sperato, un ravvedimento di queste persone, vero, reale, concreto, ma per il momento non sembra praticabile, questo terreno, perché invece sembrano persone fortemente ossessionate, soprattutto la Lioce, da questa idea di lotta armata, per raggiungere non si sa bene cosa, quali obiettivi, in questo contesto. Diverso è stato, ve lo dico con grande sincerità, con l’unica collaboratrice di giustizia, che è stata Cinzia Banelli. Il suo comportamento mi ha veramente ferito, perché questa è una persona che ad un certo punto, non so se si è resa conto di aver sbagliato oppure no, ma si è fatta i suoi conti e ha deciso che non voleva vivere il resto della sua vita in prigione, che voleva avere un figlio, che voleva rientrare nella normalità: questo è auspicabile, ma non tutti i mezzi sono giustificati per un certo fine. Io ho trovato veramente spregiudicato il suo modo di comportarsi, quello di utilizzare qualsiasi strumento pur di uscirne fuori, da questa storia, nel migliore dei modi per se stessa. Ciò che mi ha veramente ferita è stata la lettera che lei scrisse a me e alla signora Biagi.

Vi devo dire che avrei tanto voluto crederci, e questa forse è la cosa che oggi mi ferisce di più, perché quando ho visto questa lettera sono rimasta fortemente turbata, la mia reazione è stata quella di fare un gesto di generosità e di renderla pubblica, questa lettera – eravamo a pochi giorni dal processo –, poi qualcuno mi ha fatto riflettere e quindi ho deciso di tenere la lettera nel cassetto, col proposito di rileggerla dopo il processo, per vedere se è possibile un dialogo con questa persona oppure no, però non volevo influenzare in alcun modo il corso del processo. Volevo che la giustizia facesse la sua parte, perché noi vittime veniamo totalmente espropriate dalla giustizia, anzi ho percepito che la vittima nel processo è un ospite indesiderato, quasi di disturbo; addirittura quando si decide col rito abbreviato, anche nei casi di terrorismo come in tutti gli altri casi gravi, lo si fa senza nessun coinvolgimento della parte lesa, e se volete questo dovrebbe farci riflettere.

Due giorni prima del processo però questa lettera fu data in pasto a tutti i principali organi di informazione: La Repubblica, Il Corriere della Sera, La Stampa, e allora ditemi voi, chi può averla divulgata? Il suo avvocato, i suoi parenti? E quale finalità secondo voi può aver avuto la lettera, stampata sui giornali due giorni prima del processo, quando io, in tutti i modi, avevo pregato di lasciarla nel privato, che ne avremmo riparlato dopo il processo?

Cinzia Banelli ne è uscita con 12 anni ai domiciliari, mentre io passo il Natale sola in casa, e vi lascio immaginare cosa può essere per me il Natale, e sono sette anni e mezzo che mio marito è morto, mentre appunto Cinzia Banelli è a casa con i suoi genitori, con il suo bambino, con suo marito, con i suoi affetti.

 

Marino Occhipinti: Però, comunque, dividerei il discorso del pentimento per convenienza da quello che può invece essere un ravvedimento profondo, una questione di coscienza, perché sono due cose completamente diverse. Lei è stata ferita da una lettera a due giorni dal processo, che aveva probabilmente il chiaro intento di arrivare a uno sconto di pena, alle attenuanti, alla collaborazione. È ovvio che lei ne rimane ferita, ma se invece una lettera fosse stata scritta in un altro momento, è chiaro che forse a lei avrebbe fatto piacere.

A volte il timore nostro è anche questo, e ne parlavamo recentemente a proposito della mediazione penale: se e come rientrare nella vita delle persone alle quali abbiamo devastato l’esistenza, alle quali abbiamo tolto qualcuno. È meglio che si presenti un mediatore penale, cioè una persona preparata, attenta, che non faccia altri danni, che non ti arriva come invece può arrivarti una lettera in casa, all’improvviso? Anche noi siamo perplessi di fronte alle varie modalità di mediazione che si potrebbero adottare, e sono molto crudo ma vorrei chiederle cosa preferirebbe lei, come vittima.

Olga D’Antona: Non è facile rispondere, perché non tutti reagiscono allo stesso modo e il dolore, le ferite, sono sempre aperte. Per quel che mi riguarda, non ve ne so spiegare nemmeno la ragione, ma per mia fortuna, e dico per mia fortuna, non ho mai sentito in me sentimenti di vendetta, non sono stata vittima dell’odio, che credo sia la cosa più devastante, un veleno, un qualcosa che ti fa stare ancora più male. Forse perché il mio dolore, il senso di perdita era talmente grande che non c’era più spazio per altro tipo di sentimenti.

Io non ho una famiglia, e neppure mio marito aveva una famiglia: eravamo due persone sole che si erano incontrate e che rappresentavamo tutto per noi, la mia famiglia era tutta lì, quindi quando mi è stato tolto questo, sono stata lasciata nel deserto affettivo, perciò ero così presa da questo senso di privazione da non lasciare spazio ad altro. O forse all’inizio non sapevo nemmeno nei confronti di chi provare questa ostilità, perché c’erano dei fantasmi, non c’erano delle persone in carne ed ossa, sono passati parecchi anni prima che si vedessero delle figure. Una cosa, però, vi posso dire, che per me è stata importante nel processo, e che in un certo senso un po’ mi ha placato, è proprio non avere più dei fantasmi davanti ma delle persone in carne ed ossa.

Guardate, la verità è fondamentale: una volta sentii la testimonianza di Giovanni Moro, il figlio di Aldo Moro, che disse: “Ma noi non chiediamo più neanche giustizia, vogliamo almeno verità”, e mi sono resa conto che la verità è l’unica cosa che aiuta; potersene fare una ragione, sapere da che parte ti è venuta quell’aggressione, sapere con cosa hai avuto a che fare, capirne le ragioni, perché altrimenti veramente non c’è pace, e questo senso di maggiore tranquillità si ottiene quando si riesce ad avere un po’ di verità. Ecco perché in Parlamento stiamo cercando di far procedere la proposta di legge per limitare il segreto di Stato, perché questo è l’unico paese dove il segreto di Stato è eterno, per capire tutte le stragi – di piazza Fontana, di piazza della Loggia, del treno Italicus – dove non si riesce ad avere un briciolo di verità. La verità è più importante della giustizia! A me non interessa se gli assassini di mio marito sono in prigione o sono fuori, non è la loro punizione che allevia la mia sofferenza, non cambia niente nella mia vita. Quello che invece mi ha un po’ aiutato è quel briciolo di verità che è venuta fuori.

 

Elton Kalica (Ristretti Orizzonti): Per prima cosa grazie perché raccontandoci la sua esperienza ci ha fatto capire meglio quella che è la condizione di chi subisce sulla propria pelle il reato. Quello che invece le volevo chiedere è un consiglio: noi siamo tutti condannati, e con l’attività della redazione ci siamo posti lo scopo di fare dell’informazione verso l’esterno per sensibilizzare un po’ l’opinione pubblica, e anche i politici, sulle condizioni delle carceri e quindi della nostra vita. Facendo questo tipo di lavoro, ci troviamo spesso a confrontarci con istanze diametralmente opposte, nel senso che mentre noi cerchiamo di migliorare la nostra condizione, i magistrati, gli educatori ci ricordano sempre che non dobbiamo parlare soltanto di noi, ma anche del male che abbiamo fatto e quindi delle vittime. Proprio perché è un tema difficile, a maggior ragione per noi che siamo stati parte direttamente in causa, volevo chiederle qual è, secondo lei, il modo migliore per affrontare questa questione,  perché non vengano davvero dimenticate le vittime.

Olga D’Antona: Essendo il mio nome conosciuto, e svolgendo attività politica, sono stata una persona che ha avuto voce, ma il dramma di molti – parlo delle vittime del terrorismo perché quelle conosco in modo particolare – è stato l’essere ignorati, e guardate bene che anche se sono state fatte delle leggi con delle forme di tutela nei confronti delle vittime, in realtà poi queste persone si scontrano con una burocrazia ostile, che ha a volte un atteggiamento di fastidio nei confronti delle vittime, che vengono spesso considerate lamentose, rivendicative.

È capitato a quella persona lì, che era su quel treno, in quella stazione, in quella banca, in quella piazza, poteva capitare a chiunque altro di noi, e quindi mi piace pensare che c’è una collettività, rappresentata dallo Stato, che si fa carico di un gesto di solidarietà nei confronti della persona colpita.

Purtroppo molto spesso queste persone non hanno sentito questa vicinanza, e quindi più forte diventa l’ostilità quando vedono magari gli autori del reato che salgono alla ribalta, che rilasciano interviste televisive, che fanno conferenze, che scrivono libri, che ricoprono cariche istituzionali. Mi sembra di percepire che in questi ultimi tempi si comincia a capire questo dramma, e vi consiglio di leggere il libro che ha scritto un giornalista, Giovanni Fasanella, che è I silenzi degli innocenti, dove c’è una raccolta di queste voci. L’opinione pubblica è sempre più attratta dalla figura del brigatista, che apparentemente è una figura eroica, l’aggressore è sempre più interessante della vittima, e questo fa sì che poi la vittima, nella sua frustrazione, non riesce a perdonare, non riesce ad accettare quello che invece, secondo me, dovrebbe essere via via accettato, che cioè quando una persona ha scontato i suoi anni di carcere, quando ha dato dimostrazione di essere utile alla società attraverso associazioni di volontariato, attraverso un’attività positiva, dovrebbe essere riaccolta.

Perché mi preme, questo? Perché quando mi è capitata la tragedia, immediatamente ho percepito il senso di responsabilità, che non era un dramma soltanto mio, personale ed individuale, ma era un dramma sociale, collettivo, da condividere con gli altri. E quindi l’attenzione della stampa faceva sì che io mi sentissi ancora più responsabile, dovevo stare attenta ai miei comportamenti, alle parole che dicevo – si dice che le parole diventano pietre, no? – e bene o male le mie parole avevano un peso superiore proprio per quello che simbolicamente io rappresentavo, al di là della mia persona. Quindi il mio primo intento era di dare un contributo perché il terrorismo non diventi di nuovo quella piaga sociale che ha devastato un’intera generazione o quasi, sia da parte delle vittime che dei terroristi, perché anche quelli che hanno compiuto questi atti hanno devastato le proprie vite.

Certo è che comunque dobbiamo auspicare il reinserimento nella società di persone che hanno sbagliato e che si sono rese conto di aver sbagliato; soprattutto in determinati casi ci troviamo davanti a ragazzi che all’epoca avevano venti anni, e che magari venti o trenta anni dopo ancora si trovano questo marchio addosso. Io mi sono ritrovata a difendere Sergio D’Elia, che ora è un mio collega parlamentare, perché vedendomelo davanti mi rendo conto che è una persona che ha scontato la pena, che ha fatto il suo percorso, che lavora da anni per i diritti civili e contro la pena di morte, insomma questi esempi dovrebbero in qualche modo servirci per dire, soprattutto ai giovanissimi che già si trovano ad avere problemi con la Giustizia: “Guardate che c’è una via d’uscita, la società vi sa riaccogliere…”, ma certo che quel parente di vittima che non ha avuto giustizia ha difficoltà ad accettare tutto questo, e allora vanno capiti entrambi.

Io dico anche che non può essere la società a sbarrare le strade a queste persone, a buttargli il marchio dell’infamia per sempre, però nello stesso tempo serve un po’ di ragionevolezza, capire, da parte di queste persone, quanto dolore c’è. Bisogna andare in punta di piedi, serve un po’ di senso di opportunità da parte loro, serve dire “questa è una società che mi ha saputo riaccogliere, ma io mi devo muovere in modo tale da non ferire certe sensibilità che sono state così fortemente colpite”.

 

Alì Abidi (Ristretti Orizzonti): Quella di prendere le parti di D’Elia è stata una scelta sua personale o una scelta dettata da motivi politici?

Olga D’Antona: La ragione è molto più complessa, e molto più generale, nel senso che, al di là della mia appartenenza politica, la mia preoccupazione era un’altra. Perché oggi sono qui? Perché a tutti, anche a voi che siete in carcere, certo, noi dobbiamo dare una speranza. Nessuno può vivere senza una speranza! Io contrasto quelli che tendono – per strumentalizzazioni politiche – ad assecondare un sentimento vendicativo di tante persone che nasce dalla paura: la paura dell’immigrato, la paura della violenza, la gente che si sente minacciate le proprie sicurezze.

Certo sarebbe auspicabile da parte di queste persone, che hanno avuto un ruolo da protagonisti nel terrorismo, una autoregolamentazione, una sensibilità, il buon senso, tenere conto del dolore che c’è, di cui invece non sempre tengono conto. Evidentemente c’è un portato di personalità che li ha resi protagonisti allora in senso sbagliato e li rende protagonisti oggi. È molto spiacevole, è molto doloroso, ma penso che non debba essere lo Stato a regolamentare per legge questa questione, che dovrebbe esserci un senso di buon gusto, di rispetto, insomma di riflettere sul fatto che comunque ci sono delle cose che sono irreversibili, che non potranno mai essere sanate.

Io però partecipo poco agli scontri tra fazioni politiche. Io ho un’altra missione, che è quella che mi porta ad essere qui con voi oggi, che è quella di impedire che la violenza prenda il sopravvento in questo paese, perché la violenza è l’annientamento delle intelligenze e delle coscienze, perché quando si fa ricorso alla violenza vuol dire che si è rinunciato a far lavorare la propria intelligenza, la propria capacità di comprensione, e quindi in qualche modo ci si disumanizza. Nel dolore che mi è toccato di vivere, questa missione, questo impegno, mi danno una ragione di vita e di speranza.

 

Franco Garaffoni (Ristretti Orizzonti): Da parte di molti terroristi c’è una forte presenza sui media con interviste, trasmissioni tv, libri, ed emerge a volte una immagine di persone che accettano di essere state sconfitte, ma non di avere sbagliato, e forse la mancanza arriva proprio dallo Stato: in Sudafrica, certo in una situazione molto diversa, ma c’è stato questo scambio verità-perdono, e anche in Italia si sarebbe dovuta chiudere questa questione, ed invece mi sembra che da parte dello Stato ci sia stata una incapacità di chiudere questo periodo storico.

Olga D’Antona: Questo è un discorso aperto, molto dibattuto. In realtà non si è ancora avuto il coraggio, in questo paese, di affrontare il tema del terrorismo, ed io invece penso che sia tempo, motivo per il quale diciamo “adesso basta con questo segreto di Stato”, perché non si è mai fatta verità. Io ho una personale opinione, che poi non è soltanto mia, che in realtà nella stagione del terrorismo le aree di contiguità fossero molto vaste, anche in ambienti borghesi, colti, e molti di quelli che si sono “salvati”, oggi occupano posti importanti, sono classe dirigente di questo paese.

Possiamo fare tutte le leggi che vogliamo, ma dobbiamo affrontare questa questione aprendo un dibattito che coinvolga tutti, mentre la vicenda del Sudafrica ha uno scenario unico, perché quelle persone dovevano continuare a vivere nel loro paese, e quindi se non si voleva arrivare ad un bagno di sangue è stata trovata una strada di saggezza, che è questo discorso sulla verità, ma è stato fatto nei villaggi, casa per casa, penetrando proprio nelle viscere e nel dolore della gente.

È stato un lavoro straordinario, ma mi torna in mente la frase: “Dimmi la verità. Perché io ti possa perdonare devo sapere che cosa ti perdono”. Guardate, neanche questo è facile. Io non sono cattolica, non sono portata a rivolgermi ad un essere superiore nei momenti di difficoltà – cerco di far leva sulle mie energie, sul mio senso di giustizia, sul mio modo di relazionarmi con gli altri – ma allo stesso tempo non dico che non sono credente perché invece lo sono fortemente, nel senso per esempio che credo nel dialogo, che le persone possano guardarsi negli occhi e cercare insieme una ragione comune, cercare di capirsi, e quindi il concetto di perdono, e se volete anche il concetto di odio, mi appartengono poco. Certo è faticoso, è doloroso e bisogna anche affrontare il confronto con una grande umiltà, spogliandosi di tutte le proprie tradizioni, dei propri radicamenti, se vogliamo, di pensiero, avendo la capacità di ascoltare con l’anima le ragioni dell’altro.

 

Elton Kalica: Lei prima diceva che le vittime si sentono ignorate dallo Stato, e da quel che conosco io la legge credo che per certi versi sia vero, perché la Giustizia si occupa di condannare gli autori del reato e basta, mentre ci sono altri aspetti della vita delle vittime nei cui confronti lo Stato è spesso inadempiente. D’altro canto ci sono gli autori dei reati, ai quali viene spesso ripetuto di pensare alle vittime, sia in fase processuale sia in fase di espiazione della pena.

Nel mio paese, l’Albania, nel regime prima del 1991, alle famiglie delle vittime delle forze dell’ordine o agli operai morti per incidenti di lavoro, lo Stato concedeva delle agevolazioni, le teneva altamente in considerazione: avevano una pensione in più rispetto agli altri, avevano il posto a teatro prenotato, avevano le ferie a spese dello Stato, insomma c’era una normativa che teneva conto delle vittime e che cercava in tutti i modi di far sentire lo Stato vicino a loro.

Ora è comprensibile che un detenuto, che è già in galera, è lontano dalla famiglia, non ha una lira, ha una famiglia rovinata anche lui, alle vittime può e deve pensarci in coscienza, ma materialmente è difficile che possa occuparsene. Non sarebbe importante allora una solidarietà di questa organizzazione collettiva che è lo Stato?

Olga D’Antona: Ci sono delle norme, dei provvedimenti a favore delle vittime, delle leggi in questo senso, in particolare la 206 che in questa finanziaria è stata rivista, ma quello che noi rileviamo – ad esempio quando ci sono persone invalide in famiglia, che mettono in crisi tutto il nucleo nel suo complesso – è che queste leggi sono strappate sempre con grande fatica nonostante le associazioni si battano molto, e spesso la stampa mostra veramente scarso interesse. I familiari delle vittime sono voci che disturbano, che sono noiose, che la gente non legge volentieri, perché producono sensi di colpa di cui la collettività non vuole sapere.

Quello che tu dici quindi è giusto, però c’è una scarsa sensibilità proprio da parte degli organi dello Stato, perché dal punto legislativo il Parlamento fa le leggi, ma spesso queste leggi o non vengono applicate o sono applicate con grandi ritardi o con grandi resistenze. Bene o male sono fondi che devono essere tirati fuori dalle casse dello Stato, e che si preferirebbe utilizzare in modo diverso, questa purtroppo è la verità.

 

Marino Occhipinti: Lo Stato può intervenire per quanto riguarda la solidarietà, i risarcimenti, ma non può che essere l’autore del reato a chiedere scusa o perdono, e qui vorrei fare una differenza. Lei ha citato più volte il perdono, ma noi quando affrontiamo il tema della mediazione non parliamo quasi mai di perdono; io sono condannato per omicidio, e nonostante il desiderio di incontrare le persone che per causa mia hanno perso qualcuno, credo che non riuscirei mai a chiedere loro perdono. Non riuscirei a chiedere perdono perché è una cosa grande, una richiesta che presuppone una risposta, mentre delle scuse non comportano nulla in cambio.

Olga D’Antona: Certo. Io la mediazione la vedo più come un incontro tra due o più persone che cercano delle ragioni da condividere, e allora non sarebbe sufficiente dire: “Io ho riflettuto su quello che è accaduto, e mi rendo conto che è stato un errore, e oggi come oggi, dato il percorso e le riflessioni che ho fatto, non ripeterei la stessa azione”? Non sarebbe meglio dire questo? Allo stesso tempo, è rispettosa da parte tua la consapevolezza ed il riconoscimento che, per chi deve perdonare, è una richiesta forte, e perciò capisco perfettamente quello che tu mi vuoi dire, anche perché ho conosciuto persone alle quali costerebbe molto perdonare, che proprio non ce la fanno.

 

Ornella Favero: C’è poi questo nodo sul quale non c’è grande chiarezza, che è appunto la cosiddetta “revisione critica”, il chiedere ad una persona detenuta di dare prova di avere rivisto il proprio passato. Ad esempio nei confronti della brigatista Barbara Balzerani, la Procura generale, nel fare ricorso contro la recente concessione della liberazione condizionale, ha motivato che “non ci sono segni tangibili di ravvedimento”. Ma quali sono i segni tangibili? Io ad esempio diffiderei molto di uno che mi venisse ad ostentare il suo ravvedimento.

Olga D’Antona: Infatti anch’io ho dovuto non solo diffidare, ma proprio rendermi conto che Cinzia Banelli non era in buona fede con la sua lettera. Però a volte ho anche pensato che se a chi deve scontare la sua pena si chiedesse di scrivere ogni giorno una lettera alla persona che ha “ferito”, come un diario, senza pretendere che la persona ferita debba poi leggere quelle lettere, no?, ecco, io credo che anche se inizialmente le cose scritte non fossero tutte vere, comunque alla lunga questo percorso diventerebbe una riflessione.

Non sto dicendo questa cosa come una proposta, ma ve la riporto come una mia farneticazione notturna di una persona che ha vissuto ciò che ho vissuto io. Non lo dico con l’intento della riconciliazione, perché non si può neanche imporre alla persona che ha subito di accettare questo tipo di dialogo, che invece deve essere spontaneo e deve far bene a tutti. Insomma i casi sono molto individuali e molto personali, però io credo che un percorso di riflessione sia comunque importante, altrimenti che senso ha chiudere una persona in una gabbia, a chi giova? A volte me lo chiedo: ma io mi sento meglio, se Nadia Lioce soffre o sta bene? Non mi dà sollievo pensare che quella persona subisce delle sofferenze, perché la mia condizione, purtroppo, resta quella che è.

 

Marino Occhipinti: Lei affronterebbe un percorso di mediazione penale, incontrerebbe chi ha ucciso suo marito?

Olga D’Antona: Per il senso sociale che ho, anche se mi costerebbe molta fatica, non credo che mi tirerei indietro, mentre altre persone rifiutano totalmente perché prese dal risentimento, dall’odio, ognuno vive il dolore in modo diverso.

 

Adnene El Barrak (TG2 Palazzi): Io vengo dalla Tunisia, e 12 anni fa ho partecipato ad una rissa dove è morto un ragazzo. Io non ho mai avuto contatti con la famiglia della vittima, ma la sua presenza oggi mi ha molto emozionato, mi ha fatto riflettere, non ho mai avuto uno stato d’animo così, perché lei mi ha fatto pensare alla madre o alla sorella del ragazzo che morì in quella rissa, e nonostante tutto lei ci ha detto che la società ci deve riaccogliere…

Alì Abidi: Ma quali sono le vere ragioni che possono portare una persona a dare il suo perdono a chi gli ha fatto del male? Cosa rimane dentro, dopo un incontro del genere?

Olga D’Antona: Per me, ripeto, non c’entra il concetto di perdono, non mi appartiene, non l’ho vissuta così. Nel momento in cui mi sono trovata ad incontrare persone che in anni precedenti avevano compiuto questi atti, e che appunto avevano fatto il loro percorso di ravvedimento, è stato importante anche per me, ho avuto modo di capire meglio. La cosa che fa più male sono i fantasmi, immaginare quello che non è, perché la propria fantasia può produrre mostri quando poi, in realtà, ci si trova di fronte a persone in carne ed ossa e con la loro umanità.

Ogni volta vedo davanti a me una persona con una storia, con un modo di sentire, con una cultura ed un’educazione che è tutta sua, con le sue sofferenze, gli errori pagati, e quindi cerco di capire chi mi trovo di fronte, e non mi riesce di immaginare i terroristi o gli assassini o i delinquenti come categoria univoca. E anche nel caso di persone che ho incontrato, che appunto avevano compiuto atti di terrorismo, mi sono trovata davanti persone molto diverse l’una dall’altra. Di qualcuno ho apprezzato il percorso ed il modo di avvicinarsi alla mia persona, e di altri meno, e mi sono resa conto che per alcuni di loro era importante avvicinarmi perché in me identificavano non la mia persona per quello che sono, ma una persona colpita da un atto che era molto simile a quello che loro avevano compiuto. Proiettavano sulla mia persona le loro vittime, che non avevano potuto incontrare, e quindi raccontare a me le loro storie in qualche modo li aiutava a farsi capire, a capire se stessi, a farsi una ragione. In qualcuna di queste persone vedevo invece la protervia di quelli che hanno sbagliato perché hanno perso, perché se avessero vinto sarebbero stati nel giusto, e quindi una non consapevolezza.

Come ho detto prima, c’era un’esaltazione collettiva, e a vent’anni si segue il gruppo, il branco, e se c’è quell’ideologia, a vent’anni se volete c’è una generosità nello spendere se stessi e la propria vita per una causa che si ritiene in quel momento giusta. Poi ci si rende conto di aver sbagliato, poi ci si rende conto dell’insensatezza e dell’irreparabilità di certi gesti, del dolore che si è creato e che è irreversibile, per cui quando c’è il ravvedimento perché non incontrarsi, perché non farsene una ragione? Affrontiamola la storia, questo pezzo di storia così oscuro per questo paese, togliamo i veli, parliamone insieme, usciamo da questo tunnel di odio. È questo quello che io nel mio piccolo cerco di fare.

 

Ornella Favero: A me sembra importante anche una mediazione, che ad esempio avvenga ad anni di distanza, che non abbia niente a che fare con il processo. E penso che anche se uno lo fa strumentalmente o per un beneficio, e può essere, l’incontro comunque colpisca le persone ed aiuti. Anche per la vittima, dare un volto all’autore del reato e riconoscerlo come persona forse può farla stare meglio.

Olga D’Antona: Sì, l’importante è fare tutto con le giuste cautele, camminando in punta di piedi per non rischiare di aggiungere dolore al dolore.

 

Marino Occhipinti: Ho notato che – oltre al bisogno di verità di cui abbiamo già parlato – è ricorrente il timore delle vittime che ciò che è accaduto, che il loro dolore, possa essere dimenticato…

Olga D’Antona: Questo è un paese che tende alla rimozione, consumiamo tutto in fretta, consumiamo notizie, consumiamo eventi, e invece bisogna anche fermarsi a riflettere, perché se non sappiamo da dove veniamo, e purtroppo questa è una società che rischia molto di dimenticare da dove viene, facciamo poi fatica ad andare avanti. Non è soltanto la memoria del proprio dolore individuale, è una memoria collettiva che deve essere condivisa, invece ognuno vede certi accadimenti da un punto di vista diverso, e molto spesso determinati fatti vengono strumentalizzati anche dalle diverse fazioni politiche, e questo noi non lo possiamo accettare. Dobbiamo cercare di trovare unità almeno contro la violenza, di dare una lettura unitaria di quello che è accaduto in questo paese. Credo che aprire un dibattito su questi temi, e fare verità, serva anche a questo, a trovare finalmente una condivisione dei fatti accaduti, a leggerli tutti nello stesso modo. Ci riusciremo mai?

 

Ornella Favero: Ci piacerebbe, per finire, una sua riflessione sul senso della pena

Olga D’Antona: È una domanda alla quale è molto complicato rispondere, perché forse io mi distinguo anche da altri modi di sentire, ma a me non dà sollievo pensare che una persona viene chiusa in una gabbia. Vorrei che esistessero forme di rieducazione e di riabilitazione che non so neanche immaginare, però di tipo diverso. Purtroppo la società in qualche modo si deve difendere da persone che possono rappresentare un pericolo, ma certo non mi piace l’accanimento: laddove le persone mostrano di non rappresentare più un pericolo sociale, io non sono di quelli che si accaniscono. Mi piacerebbe molto che questa società sapesse trovare forme preventive, che si trovasse il modo – e in alcuni casi non dovrebbe essere così complicato – di prevenire certi reati piuttosto che mettere in campo soltanto attività di tipo repressivo, che forse alla fine sono le più facili quando il delitto è già avvenuto.

 

* Moglie di Ezio Tarantelli, l’economista ucciso nel 1985 dalle Brigate Rosse

La storia di Elton: quando la costituzione è trattata come carta straccia

Quella politica tutta italiana di trasformare i problemi in emergenze perenni si è tradotta, nel ‘91, nell’introduzione di questo stramaledetto articolo 4 bis dell’Ordinamento penitenziario, nel quale c’è il primo comma per cui si può rieducare chiunque, in questo paese, anche un serial killer, ma non uno che ha fatto un sequestro

 

di Ornella Favero

 

Oggi voglio scrivere di un detenuto della redazione, della sua storia giudiziaria e della sua carcerazione, cioè di tutto quello di cui ho sempre detto che non avrei mai parlato. E so che probabilmente è meglio non entrare nel merito delle vicende personali dei detenuti, almeno di quelle che riguardano il loro rapporto con la Giustizia, ma in questo caso credo che sia giusto farlo.

Ieri stavo parlando con altri volontari di questa storia, la storia di Elton, e una di loro ha detto: “La nostra parola non conta molto, noi siamo quelli meno considerati perché rappresentiamo la categoria dei buonisti”. La prima reazione è stata quella di giustificarmi, di dire che io non mi sento molto buona, però poi ci ho pensato su e mi sono detta che viviamo in uno strano mondo, un mondo nel quale ci si vergogna di essere buoni. Allora ho deciso che rivendico il fatto di essere anche buona, e che nessuna persona buona può sopportare una ingiustizia pesante e odiosa come quella che caratterizza, oggi, la storia di Elton.

Vent’anni, albanese, una famiglia “benestante” per le condizioni di vita di quegli anni a Tirana, la maturità classica e poi l’avventura del viaggio in Italia: inizia così il disastro di Elton. Io non lo so immaginare criminale, perché fatico a pensare che uno che ama la bella letteratura, ha talento narrativo e sensibilità per ogni più piccola sfumatura della vita possa essere stato anche un delinquente, ma succede, e su questo non sarò troppo buona. Elton ha sequestrato, insieme ad altri due complici, una ragazza per ricattare un suo connazionale, che si arricchiva gestendo un giro di prostituzione. Volendo avere la presunzione di fare l’avvocato difensore, e conoscendo, per averci vissuto (in Russia, non in Albania) i paesi dell’Est di quegli anni, direi che l’attenuante di Elton, pur nell’odiosità del reato di sequestro, è stata che nessuno, che abbia vissuto in quei paesi, è abituato a dare al sequestro il peso che diamo noi, nessuno.  La cosa, comunque, si è conclusa con la polizia che ha liberato la ragazza, nessuno spargimento di sangue, ma un processo in cui il caratteraccio di Elton, perché in questo sono d’accordo con mio padre, che sosteneva sempre che chi ha carattere ha cattivo carattere, ha prevalso, portandolo a una condotta processuale suicida: l’orgoglio albanese, il rifiuto di collaborare, il mostrarsi “tutto d’un pezzo”, gli sono costati una condanna a diciassette anni di galera.

Io l’ho conosciuto quando era ancora nella sezione di Alta Sicurezza, perché un reato commesso da un gruppo, anche il più scalcinato, ti classifica spesso fra i più feroci criminali e ti marchia a fuoco: articolo 4 bis, comma 1, niente benefici, niente di niente se non hai collaborato. A meno che sia ormai impossibile qualsiasi collaborazione.

In Alta Sicurezza a Padova Elton comunque, dopo anni di autentica ribellione alla galera, e di incapacità di accettare di ingabbiare la sua vitalità, ha rinunciato a farsi del male e ha imboccato la strada di vivere anche il carcere con quella intensità di vita che lo contraddistingue. In Alta Sicurezza ha fatto due volte la terza media, perché in quella sezione non c’era altro modo di masticare un po’ di cultura, e poi il biennio di ragioneria, per la stessa ragione. E ha incominciato a “irrobustire” il suo italiano, divorando tutto quello che c’era da leggere nella biblioteca del carcere.

 

La pena deve tendere alla rieducazione ma Elton non è rieducabile

 

La pena deve tendere alla rieducazione, Balle! mi viene da dire se guardo alla storia di Elton. Quella politica tutta italiana di trasformare i problemi in emergenze perenni si è tradotta, nel ‘91, nell’introduzione di questo stramaledetto articolo 4 bis, nel quale c’è il primo comma per cui si può rieducare chiunque, in questo paese, anche un serial killer, ma Elton non lo puoi rieducare, lui può fare l’Università con voti brillanti, essere un giornalista di Ristretti Orizzonti, di quelli che potrebbero invidiarmi anche le redazioni di giornali “veri”, vincere concorsi con i suoi racconti, ma la rieducazione no, quella per lui non deve funzionare.

A un recente convegno indetto dai Magistrati di Sorveglianza, ho sentito Giovanni Maria Flick, Giudice della Corte Costituzionale, dire che non esiste la “polifunzionalità” della pena perché la pena, nel nostro paese, ha una sola, vera funzione, ed è la rieducazione. Allora però qualcuno mi deve spiegare perché si continua, serenamente e indisturbatamente, a violare la Costituzione, e si fa a finta di credere che la rieducazione può avvenire per tutti, per l’ergastolano, per il pluriomicida, per il recidivo abituale, ma non per uno che ha fatto un sequestro e non ha ammazzato nessuno. Potete quanto volete sforzarvi di dimostrarmi che il sequestro è un reato odioso, che così si riduce in schiavitù una persona, ma anche qui voglio ricordarvi che state usando una categoria, i “sequestratori”, una tipologia di reato. E invece, lo diciamo in tanti ma ce ne dimentichiamo spesso, non esistono reati che camminano ma persone che hanno commesso reati. E così come un omicidio non è uguale a un altro, non esiste nemmeno un unico tipo di sequestro, e il caso di sequestro per cui è stato condannato Elton è comunque ben lontano da quelli a cui si pensa quando si qualifica come “odioso” quel reato.

 

Se dieci anni vi sembrano pochi

 

È stato alla fine del 2001 che Elton Kalica ci ha scritto il primo articolo, una lettera che è arrivata in redazione dalla sezione di Alta Sicurezza e che ho pubblicato subito perché, anche se il suo italiano era ancora faticoso, la scrittura, le idee, le immagini facevano capire che dietro c’era una persona con una grande originalità e profondità di pensiero. “A stare in cella 20 ore al giorno ed avere il corpo fermo così a lungo, tutta l’esistenza o meglio l’attività si sposta all’interno della testa, nel cervello”, scriveva Elton, e in queste parole si può leggere la fotografia della sua carcerazione, a partire da quando ha deciso che doveva riprendersi in mano la sua vita e che, se il suo corpo era costretto e ingabbiato, la sua testa poteva dare il meglio di sé. E l’impressione è che la sua sia una storia particolare, dove una incontenibile energia fisica, compressa dalla galera, sia stata faticosamente trasformata in energia e forza del pensiero,  forza della parola, della scrittura. E questo gli ha permesso di sopravvivere e di preservare la sua integrità e la sua salute mentale, nonostante la sua pena sia stata e sia davvero e solo afflittiva.

Ed è proprio questa testa integra che continua a meravigliarmi, perché ho visto Elton, in questi anni, perdere progressivamente ogni speranza, aggrapparsi con le unghie e con i denti a ogni più insignificante appiglio e poi vedersi negare tutto tutto tutto. Veder uscire in permesso, perché grazie a Dio il nostro sistema è abbastanza umano da consentirlo, persone che hanno commesso reati come l’omicidio, e doversene restare ingabbiato fino all’ultimo minuto, a trent’anni, quando la vita preme da tutte le parti e il tempo ti scappa via senza nulla di ciò che, di solito, succede a quella età, niente amore, niente sesso, niente notti a ballare e pomeriggi d’estate al mare.

Certo, ci sarà sempre qualcuno, o tanti, che diranno che se l’è voluto, che i ragazzi “normali” non passano il tempo a fare sequestri. Tutto vero, tutto assolutamente vero, ma allora spiegatemi perché un ergastolano, dopo dieci anni di galera, può cominciare a sperare in un permesso premio, spiegatemi perché siamo convinti che il nostro sia un paese dal volto umano, che punta a reinserire il reo nella società, convincetemi che devo considerare Elton, o altri in situazioni analoghe alla sua, meno “recuperabile” di serial killer, pedofili, violentatori. Convincetemi che la società, faticosamente ma inesorabilmente, accetta che ex terroristi possano essere così “recuperati” da accedere anche a importanti cariche pubbliche, ma non sa che farsene di uno come Elton, e che intelligenza e talento si  possono sprecare, buttare senza problemi.

 

Vedi continuamente gente uscire e ogni volta sento come un tornio che gira la leva per stringermi il cuore

 

Questo è quanto mi ha scritto Elton di recente, lo trascrivo pari pari perché non credo ci siano parole migliori per esprimere una sofferenza che, secondo tutti noi della redazione e non solo, è anche frutto di un’ingiustizia, di un’assurda logica emergenziale che non finisce mai e, quando è finita l’emergenza, continua a operare le sue discriminazioni in nome di un’emergenza che non esiste più:

“Sinceramente questa situazione di vedere continuamente gente uscire sta diventando insopportabile e sono sicuro che non durerò a lungo perché un bel giorno deciderò di passare i prossimi sei anni di pena lontano dalla redazione. Sto lavorando sedici ore al giorno per Ristretti, e questo non mi pesa affatto, ma faccio sempre più fatica a stare lì in mezzo a persone che continuano a raccontarmi tutti i giorni l’attesa del permesso, e poi descrivermi per altrettanti giorni l’esperienza appena vissuta. Io parlo, sorrido, sono anche contento per loro, lavoro e faccio a finta di niente, ma ho un tornio che gira la leva per stringermi il cuore ogni giorno di più. Puoi sostenere quanto vuoi che l’omicidio non sia il reato più grave, ma non credo sia meno grave del mio, eppure io vedo che tutti prima o poi cominciano a uscire in permesso, e io li guardo continuando ad immaginare e sognare il mio giorno, che pare non verrà mai fino al fine pena”.

C’è speranza per storie come quella di Elton?

Il parere di Alessandro Margara

 

Abbiamo chiesto un parere ad Alessandro Margara, magistrato, uno dei padri della riforma penitenziaria, che oggi è impegnato a promuovere la “Riforma della riforma”, cioè un importante percorso di rinnovamento di questa legge. Ecco quanto ci ha scritto:

Si potrebbe, a mio avviso, impostare una richiesta in base al riferimento a uno specifico beneficio, che potrebbe essere o un permesso premio o la semilibertà (questa richiederebbe l’avvenuta espiazione di due terzi della pena). Cosa dovrebbe contenere l’istanza? Dovrebbe contenere, oltre quanto necessario per lo specifico beneficio richiesto, l’indicazione che, nonostante il titolo di reato, si deve ritenere l’ammissibilità al beneficio per quanto previsto dal terzo periodo del primo comma dell’art. 4 bis, che dispone: “I benefici suddetti possono essere concessi ai detenuti o internati per uno dei delitti di cui al primo periodo del presente comma purché siano stati acquisiti elementi tali da escludere la attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, altresì nei casi in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso, accertata nella sentenza di condanna, ovvero l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità operato con sentenza irrevocabile, rendono comunque impossibile un’utile collaborazione con la giustizia…”.

 

Questa nuova disposizione dell’art. 4 bis risulta dalla Legge 23.12.2002, n. 279, che ha trasformato in norma di legge le indicazioni di due sentenze costituzionali, una delle quali, che è quella che interessa e che ho sottolineato, è quella n. 68/95. È importante sottolineare che quelle indicazioni costituzionali sono legge, per cui non credo sia possibile operare le limitazioni alle sentenze costituzionali che alcuni tribunali di sorveglianza applicavano in passato.

Allora: occorre che la sentenza di condanna irrevocabile abbia chiarito tutti gli aspetti dei fatti e delle responsabilità, così che nulla possa essere aggiunto e che sia così diventata “impossibile un’utile collaborazione con la giustizia”. Quindi dovrebbe essere riconosciuto che ricorre “l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità operato con sentenza irrevocabile” e che è ormai “impossibile un’utile collaborazione con la giustizia”.

C’è poi l’altra condizione: quella della assenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva. Al riguardo, l’accertamento presso il CPOSP (comitato provinciale ordine e sicurezza pubblica: vedi comma 2 dell’art. 4 bis) sarà necessario. È anche noto che la prova da fornire deve essere quella negativa rispetto al fatto che i collegamenti attuali non ci sono (l’accertamento riguarda la attualità dei collegamenti ad oggi). Generalmente anche le indicazioni penitenziarie (sulla positiva evoluzione della osservazione e della esecuzione) possono contribuire a confermare l’assenza di questi collegamenti.

È importante anche vedere che tipo di organizzazione criminale sta dietro al reato. Molto spesso non si tratta di criminalità organizzata e può capitare che anche il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione sia una iniziativa che fa esclusivamente capo agli autori del reato e non ad una organizzazione criminale in senso proprio. In questo caso, la prova del venir meno dei legami associativi diventa facile, perché l’aggregazione criminale dura soltanto per il tempo in cui il reato viene commesso e viene meno con l’arresto, anche perché manca, come nelle organizzazioni criminali effettive, un permanere delle stesse e dei vincoli associativi al di là della commissione di singoli reati.

Quando la pena è solo galera

Ma perché i provvedimenti emergenziali restano in vigore anche

oggi che l’emergenza sequestri è finita da un pezzo?

 

di Elton Kalica

 

Una ricerca mi ha aiutato a inquadrare la mia storia, in una prospettiva analitica nuova: che è quella dei grandi interessi, dei grandi progetti e delle grandi ingiustizie, in cui le singole storie spariscono e le singole persone diventano insignificanti. Dieci anni fa, quando fui processato, a quelli che mi chiedevano come mai avessi preso una condanna così esemplare, rispondevo rassegnato allargando le braccia: “Eh! il mio reato è un sequestro di persona”. Oggi, quando uno mi chiede come mai non riesco nemmeno ad avere un permesso per preparare la mia tesi di laurea, riallargo le braccia e continuo a rispondere: “Eh! il mio reato è un sequestro di persona”. Sono andato anche dal giudice di Sorveglianza e gli ho fatto presente che da anni vedo uscire in permesso persone con reati che hanno causato danni più gravi del mio, mentre io credo di aver fatto piuttosto una azione sciagurata, che era giusto punire ma che, comunque, non ha provocato danni permanenti a nessuno, tranne che a me. “Come mai dopo dieci anni di galera mi è negato anche uno straccio di permesso per motivi di studio?”, gli ho chiesto. E anche lui, allargando le braccia, mi ha risposto: “Eh! il tuo reato è un sequestro di persona”.

Sono iscritto al terzo anno dell’università e, studiando, mi sono trovato diverse volte a dover fare delle ricerche. La cosa mi appassiona perché quando ci si documenta leggendo libri, studi e articoli si fanno spesso scoperte sorprendenti, che ti spalancano porte dietro le quali si nascondono tesori di cui ignoravi persino l’esistenza. Per questa consapevolezza mi ha pervaso una appassionata curiosità quando, poche settimane fa, un docente mi ha invitato a fare una tesina sul rapporto tra i diritti umani e la guerra al terrore intrapresa dagli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001. Mi sono rimboccato le maniche con entusiasmo, senza alcuna esitazione. Non sapevo però che, dietro la porta che stavo per aprire, avrei trovato una parte della mia stessa vita.

In questi lunghi anni di carcerazione mi sono spesso domandato perché la legge italiana prevede delle condanne tanto pesanti per il reato di sequestro di persona. Per capire questo mio stupore, occorre sapere che quando fui arrestato avevo poco più di vent’anni e che il crimine per cui fui giudicato consisteva, in sostanza, nell’aver tentato di estorcere del denaro a un mio connazionale tenendo come ostaggio la sua ragazza nel mio appartamento. Andò a finire però che il mio connazionale, anziché portarmi il denaro richiesto e “liberare” così la ragazza (alla quale, comunque, non torsi un capello) se ne andò dritto dai carabinieri, a denunciarmi. Arrestato e messo alla sbarra, fui condannato a venticinque anni di reclusione, ridotti poi dal tribunale di un terzo (condanna finale: sedici anni e otto mesi) in ragione della mia giovane età.

L’entità della pena inflittami mi parve comunque spropositata, in rapporto alla portata del reato che avevo effettivamente commesso (basti dire che la stessa ragazza che avevo preso in ostaggio al processo depose sostanzialmente in mio favore, ammettendo che mi ero limitato a tenerla chiusa nel mio appartamento, senza usarle alcun tipo di violenza), ma alla fine dovetti rassegnarmi all’implacabilità della legge italiana, che – diversamente da quanto avviene negli altri paesi europei, dove in cima alla scala dei reati figura sempre l’omicidio – bolla il sequestro di persona a scopo di estorsione come il più esecrabile di tutti i delitti. Per l’omicidio infatti la condanna può variare dall’ergastolo a un minimo di 21 anni (che possono essere però notevolmente ridotti con l’applicazione delle varie attenuanti), mentre per il sequestro di persona la forbice si chiude ulteriormente, comprimendo le pene nella strettissima fascia che intercorre fra l’ergastolo (pena massima) e i 25 anni di pena minima. Non solo: il “trattamento speciale” riservato dalla legge italiana ai sequestratori è ribadito anche dall’Ordinamento penitenziario, che esclude solo in casi eccezionali dai benefici (permessi premio, semilibertà, ecc.) gli autori di omicidio mentre ne esclude i sequestratori, indipendentemente dalle loro effettive responsabilità.

 

Io venivo dall’Albania e non sapevo neppure che cosa fosse un sequestro in Italia

 

Ma torniamo alla mia tesina sul rapporto tra diritti umani e guerra al terrore. Avevo fin dall’inizio in testa un’idea ben precisa (che, cioè, il governo degli Stati Uniti avesse strumentalmente utilizzato il comprensibile panico suscitato nella popolazione dall’attentato alle Torri gemelle per scatenare, in nome dei diritti umani, una guerra volta – in realtà – a calpestare gli stessi diritti in altre aree del pianeta), e intendevo svilupparla con riferimenti storici precisi, che dessero sostanza al mio personale convincimento. Mi sono dato perciò un gran daffare, rischiando strada facendo d’ingolfarmi, come spesso accade quando si fa una ricerca, nella quantità stessa – e nella frastornante frammentarietà – del materiale documentario che avevo raccolto.

Più spulciavo nei libri, però, e più trovavo conferma alla mia tesi di partenza, secondo la quale un fenomeno come quello della guerra al terrore post 11 settembre non sarebbe stato pensabile se in America non vi fosse stata, fin dall’inizio, una potente élite molto determinata nel perseguire l’obiettivo di trarre il massimo profitto da una così devastante azione aggressiva. Nella messe di riferimenti storici che ho selezionato nel mio lavoro di ricerca, ho trovato anzi conferma che la strategia del panico viene scientemente e cinicamente utilizzata da sempre, e non solo in America, per creare artificiosamente sostegno popolare non solo alle guerre (eventi anti-popolari per eccellenza, visto che la carne da cannone non viene dai quartieri alti), ma anche per il varo o l’inasprimento di leggi volte perlopiù a proteggere piccole ma potenti minoranze.

Io sono venuto via dall’Albania all’inizio degli anni Novanta, e fino ad allora non sapevo neppure che cosa fosse un sequestro “all’italiana” (rapimento di una persona, imprigionamento, richiesta di riscatto ai familiari, trattative, rilascio a pagamento avvenuto); e tantomeno potevo immaginare che un giorno io stesso sarei stato condannato per avere organizzato e messo in atto un crimine di questo tipo. Allora, nel mio immaginario, i sequestri di persona erano tutt’altra cosa, e confesso di averne sempre avuto una visione molto infantile. Anche perché durante il comunismo nel mio paese non c’erano miliardari da sequestrare, e con la fantasia potevo al massimo figurarmi i sequestri come li avevo letti – descritti un po’ romanticamente – nei romanzi e nei testi di formazione politica popolare imposti dal regime.

Il termine sequestro, perciò, non mi provocava orrore ma accendeva semmai nella mia mente suggestioni di fierezza e rivalsa, perché lo associavo allo schiavo che minaccia con la spada il suo padrone, ai braccianti affamati che tirano giù dal cavallo il feudatario trafiggendolo poi con i forchettoni, oppure agli operai che legano l’industriale-sfruttatore con la testa in giù e gli sputano in faccia. No, non avevo proprio idea che qui – nell’Occidente ricco, separato ermeticamente da noi e dalla nostra vita – ci fossero gruppi armati che sequestravano imprenditori di successo o loro parenti chiedendo riscatti miliardari, e che li liberavano – e neppure sempre – a distanza anche di anni, solo dopo essere entrati effettivamente in possesso di quelle montagne di denaro. La drammatica realtà dei “sequestri all’italiana” io l’ho scoperta solo in galera, dopo esserci finito – paradossalmente – proprio per il reato di sequestro di persona.

Ma torniamo ancora una volta alla mia ricerca, imperniata sempre più convintamente sulla tesi della paura popolare come anticamera emotiva di scelte che, altrimenti, risulterebbero tanto antipopolari da non poter essere messe in atto. Più mi documentavo, e più mi rendevo conto infatti che a seguito dello shock dell’11 settembre 2001 l’avanzatissima società americana si è venuta a trovare in uno stato di disorientamento e di sprovvedutezza paragonabili a quelli della mia gioventù in Albania, e che è stato pertanto facile strumentalizzarla, volgendone l’angoscia in ottuso risentimento bellicista. E infatti non si ricordano grandi reazioni popolari allo scatenamento unilaterale di una guerra che ha comportato l’invasione di un paese sovrano e l’uccisione di migliaia di innocenti, né si ricordano (se non negli ultimi anni, a disastro ormai avvenuto e conclamato) madri e mogli piangenti che protestano per l’invio dei loro figli e mariti (180 mila!) su un fronte così lontano e rischioso. Gli stessi intransigenti difensori dei diritti umani, di cui l’America è una fabbrica solitamente generosa, se ne sono stati perlopiù “in sonno”, con il risultato di dover poi assistere, ammutoliti, all’affermarsi su vasta scala – in nome della civiltà americana – di pratiche inumane come gli arresti arbitrari, le detenzioni a tempo indeterminato in assenza di una circostanziata accusa e senza processo, la stessa tortura.

Lo psichiatra tedesco Kurt Lewin – una delle “scoperte” più interessanti che ho fatto nel corso della mia ricerca – aveva elaborato già negli anni Trenta una teoria che appare estremamente attuale, a rileggerla oggi: in un momento di caos, il controllo esercitato dai governi sui loro popoli può spingersi oltre limiti impensabili in situazioni di normalità. Ebbene, ho l’impressione che questa chiave di lettura, che calza a perfezione per spiegare la guerra americana al terrore (scatenata infatti, a mio avviso, da un’élite di potere ristretta ma molto determinata nello sfruttare a vantaggio delle sue mire geopolitiche il panico popolare innescato dall’11 settembre), possa aiutare a capire anche la mia personale vicenda, quanto meno per quel che riguarda l’implacabile pesantezza della condanna che mi è stata inflitta in quanto sequestratore.

 

In Italia se fai un sequestro devi marcire in galera fino all’ultimo giorno

 

Non intendo esporre qui in dettaglio i contenuti della mia ricerca, tuttavia non posso nascondere che essa mi ha aiutato a inquadrare la mia storia in una prospettiva analitica nuova: che è quella dei grandi interessi, dei grandi progetti e delle grandi ingiustizie, in cui le singole storie spariscono e le singole persone diventano insignificanti. Più ci penso e più mi convinco infatti che la logica che c’è dietro la guerra al terrore degli USA assomiglia a quella che c’è dietro la guerra ai sequestri di persona che fu ingaggiata in Italia una ventina d’anni fa, quando i sequestri erano all’ordine del giorno e la gente era sconvolta dal loro evolversi spesso in tragedia. Si è cioè costruita sulla comprensibile angoscia della popolazione una vera e propria “strategia del panico”, che ha consentito il ricorso a misure di sicurezza emergenziali e drastici giri di vite legislativi che, in tempi normali, sarebbero risultati improponibili in quanto intrinsecamente illegittimi. In America, così, si è finito per chiudere un occhio, anzi due, sul tragico tributo di sangue imposto con la guerra al popolo iracheno, mentre in Italia si è consentito che in nome dell’ “emergenza sequestri” si varassero disposizioni di legge implicitamente incostituzionali, in quanto finiscono per negare a un’intera categoria di detenuti, indiscriminatamente, il carattere individuale e rieducativo della pena sancito dall’articolo 27 della Costituzione.

Quanto al mio maledettissimo reato – e a tutto ciò che esso comporta di maledettamente duro in termini di espiazione – pongo ora a chi mi legge alcune soltanto delle mille domande che mi sono fatto in dieci anni abbondanti di galera:

1) Perché chi commette un sequestro di persona in Italia viene condannato, comunque, al di là degli effettivi danni che ha provocato, alle pene più severe previste dal Codice penale?

2) Perché deve farsi tutta la carcerazione, fino all’ultima ora, senza godere di un giorno di permesso o di una misura alternativa, a prescindere da come si comporta e dall’impegno che profonde nel migliorarsi, mentre per reati non meno gravi, che comportano danni fisici o traumi psicologici irreparabili (come l’omicidio, le lesioni gravi, la violenza carnale) non viene precluso – a livello di esecuzione pena – l’accesso ai benefici, e quindi la possibilità di un inserimento graduale nella società?

3) Perché, infine, una volta superata l’“emergenza sequestri” non si è provveduto a riesaminare a mente più fredda e serena l’intera materia, modulando le pene in una forbice più ampia di possibili condanne (in funzione dei diversi livelli di responsabilità, e dei danni effettivamente provocati) e rimuovendo l’ostacolo che allo stato attuale impedisce a tutti i sequestratori, indiscriminatamente, di accedere come tutti gli altri detenuti alle misure premiali previste dall’Ordinamento penitenziario? 

Che risposta dare, a queste domande? A rifletterci oggi, sono sempre più dell’idea che la “strategia del panico” c’entri, eccome. Perché la situazione in cui mi ritrovo (blindato in galera peggio di qualsiasi altro criminale) si può spiegare soltanto con il clima di sconcerto e di angoscia che era venuto a crearsi, in Italia, nella stagione dei sequestri, quando giornali e telegiornali erano pieni ogni giorno di notizie che facevano venire i brividi a chiunque: ai benestanti, che temevano di finire anche loro in una grotta dell’Aspromonte o della Barbagia, e di restarci imprigionati magari per anni, in attesa che i carcerieri ottenessero il riscatto miliardario; ma anche alla gente normale, che non poteva non sentirsi, comunque, fortemente turbata dalla barbarie predatoria di chi era disposto a tutto – anche a rapire e a tenere imprigionato in modo inumano un ragazzo, magari ad ucciderlo – pur di entrare in possesso di una montagna di soldi.

Che in quel clima angoscioso siano passati provvedimenti di legge duri e indiscriminati, come quelli che tutt’ora colpiscono i sequestratori, con la “strategia del panico” si spiega benissimo, non si spiega però, a mio avviso, che tali provvedimenti emergenziali restino in vigore anche oggi che l’“emergenza sequestri” è finita da un pezzo.

La paradossale – ma secondo me nient’affatto casuale – situazione odierna del sistema giudiziario italiano è che se rapini, violenti, o uccidi, ti mandano in galera ma puoi godere comunque – a patto che te li meriti, d’accordo, perché sono concessioni e non diritti – di quei piccoli e grandi benefici di legge che possono consentirti di dare un minimo di prospettiva alla tua espiazione, prefigurando un tuo graduale reinserimento in società; se invece fai un sequestro di persona, allora devi marcire in galera fino all’ultimo giorno senza avere diritto a mettere il naso fuori neppure per il funerale di un familiare o per discutere la tua tesi di laurea all’Università.

Mi domando semplicemente, e credo che la mia domanda sia legittima, se il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione sia punito più severamente di altri, non meno gravi in assoluto, perché nella quasi generalità dei casi (io, che ho sequestrato per poche ore una ragazza, costituisco almeno sotto questo aspetto un’eccezione) prende di mira non cittadini qualsiasi, ma i ricchi, ovvero cittadini appartenenti al blocco di potere economico-politico più forte e influente.

Ho già scontato quasi undici anni, e mi sono messo il cuore in pace: la galera dovrò farmela tutta, fino all’ultimo giorno. E so anche che risposta dare a chi, nei sei anni che ancora mi restano da scontare, mi chiederà come mai non riesco nemmeno ad avere un permesso per preparare la mia tesi di laurea. Allargherò le braccia e dirò: “Eh! ma il mio reato è un sequestro di persona”.

A Caino sì, a Elton no

Ma non siamo tutti persone che vogliono davvero riscattarsi?

Il diritto alla rieducazione è riconosciuto a tutti meno che ai sequestratori di persona

 

di Altin Demiri

 

Io ho ucciso un uomo. Sono stato condannato a ventiquattro anni di carcere, e oggi, dopo avere scontato quattordici anni di pena, usufruisco anch’io dei permessi premio. Infatti sono uscito più volte accompagnato dagli assistenti volontari per andare nelle scuole e parlare di carcere, sperando di richiamare l’attenzione di qualcuno in modo che non finisca per fare i miei stessi sbagli.

Non sono certo l’unica persona condannata per omicidio che può usufruire delle misure alternative; ad esempio a Padova sono in parecchi che durante il giorno escono fuori dal carcere per lavorare, e poi, alla sera, rientrano, tornandosene in cella, e fra questi c’è anche chi come me ha ucciso, perché evidentemente i magistrati credono in quel principio sancito dalla Costituzione che vuole una pena davvero rieducativa. In questi giorni abbiamo parlato in redazione del caso di Elton, che è in carcere per sequestro e non può accedere ai permessi e alle misure alternative, e, per un momento, io mi sono guardato intorno e mi sono domandato: “Se io che ho preso la vita di un uomo posso essere rieducato, perché non può Elton che di danni ne ha fatti meno di me?”.

Io sono albanese come Elton, e certi fenomeni strettamente italiani non li capisco molto bene, e quindi può darsi che mi si accusi di ingenuità. Ma voglio correre il rischio perché intendo fare un ragionamento semplice partendo da una affermazione, a mio avviso importante, che l’onorevole Olga D’Antona ha fatto durante un incontro con noi detenuti del carcere di Padova.

Ecco, lei ci ha parlato del dolore e della sofferenza da cui è oscurata la vita di una vittima come lei, e a un certo punto, quasi sussurrando e con le lacrime negli occhi, ci ha detto: “Sapete, le vittime dei reati di omicidio sono decisamente le più distrutte, perché quando si compie una cosa del genere non si può più ritornare indietro. Per gli altri reati in qualche modo si può superare il dolore, mentre con la morte del proprio caro non si può sperare in nulla. È finita. Rimane soltanto il dolore”.

Io penso alla vittima che ha fatto Elton, ha “sequestrato” in casa una ragazza per ottenere dei soldi da quello che la sfruttava. È finita con l’arresto dei responsabili, ma la ragazza non ha mai portato rancore a Elton. Dicono però che sia la sindrome di Stoccolma. E anche se così fosse, almeno non c’è nessuno che piange per lei, come piange la madre del ragazzo che ho ucciso io. Mentre nel caso di Elton, l’unica persona che piange è sua madre che aspetta di abbracciarlo da dieci anni.

Perché quindi noi tutti possiamo essere recuperati, rieducati e inseriti nella società e lui invece deve farsi la galera fino all’ultimo giorno? Continuo a ripetermi questa domanda poiché non capisco davvero quale è il metro di misura che usano i politici per fare le leggi e i giudici poi nell’applicarle. Io ad esempio so benissimo che nel mio paese la cosa che la legge considera più preziosa è la vita, di conseguenza la pena più alta è prevista per l’omicidio. Poi la legge in Albania non fa discriminazioni tra tipi di reato, ma prevede la libertà condizionale per tutti, una volta espiati i due terzi della pena. Mentre evidentemente in Italia la cosa più preziosa da difendere con la legge non è la vita ma la libertà e il denaro, visto che il reato che prevede la pena più alta è il sequestro di persona a scopo di estorsione.

Ma la cosa che mi stupisce maggiormente è il fatto che, nonostante in Italia vi sia forse la Costituzione migliore nel mondo, si continui a violarla trovando giustificazione nelle leggi emergenziali. Capisco che una volta in Italia c’erano i banditi che sequestravano i figli dei ricchi, e si poteva accettare di accantonare la Costituzione per un breve periodo, ma oggi che l’emergenza non c’è più, perché non togliere questa stramaledetta legge e ripristinare il diritto alla rieducazione anche per Elton? Che tra l’altro non c’entra niente né con l’Anonima sarda e tanto meno con la N’drangheta sequestri.

Io invece rimango convinto che una Giustizia se eccessiva diventa una giustizia ingiusta e controproducente. La Giustizia deve essere misurata sull’individuo per diventare efficace, integrare la persona nel momento giusto e proiettarla nella vita libera. Da qualche parte ho letto questa frase: “Bisogna pensare che Caino non è poi tanto diverso da Abele, è animato dalla stessa sensibilità e si riconosce negli stessi valori, nonostante un momentaneo e devastante offuscamento di quella sensibilità lo abbia portato, un giorno, a calpestare quei valori nel modo più atroce. Giusto che paghi; ma giusto, anche, riconoscergli comunque di essere un uomo che vuole riscattarsi.” Allora dico, se si riconosce questo a Caino, si deve fare altrettanto anche nei confronti di Elton.

Esistono pene più sensate di altre?

La vita del condannato cambia quando è lui che sceglie

ogni giorno di continuare a scontare la sua pena

 

di Graziano Scialpi

 

Quando ho sentito il tema di questo numero di Ristretti, “Il senso della pena”, la prima cosa che mi è venuta in mente è quel delizioso monumento all’assurdo rappresentato dal film “Il senso della vita” dei Monty Python. Non è facile, forse non è possibile dare una definizione sensata e univoca del senso della pena. C’è il senso teorico: cioè la rieducazione del condannato. C’è il senso retributivo: cioè il ripagare con la propria privazione della libertà e con le proprie sofferenze il danno che si è arrecato alle vittime e alla società. E direi che in generale, nella pratica, il secondo senso prevale nettamente sul primo, che fin troppo spesso resta solo teorico. Poi c’è il senso che ciascun detenuto riesce o cerca di dare alla pena che deve scontare e qui le possibilità sono numerose e quasi tutte sconfortanti, e non esclusivamente per colpa del detenuto.

Fatte queste banali precisazioni, ammetto la mia riluttanza ad addentrarmi in una disquisizione “alta” sul senso della pena. Il mio obiettivo è molto più “basso”. Quello che mi chiedo è se esistono pene più sensate di altre. Secondo me sì. E la mia convinzione è stata recentemente rafforzata dalla pubblicazione di una ricerca del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, secondo la quale mentre per i detenuti che scontano interamente la propria condanna in carcere la recidiva è attestata intorno al 70–80 per cento (dato peraltro noto da decenni), per i reclusi che invece riescono ad accedere ai benefici di legge e seguono un percorso di graduale reinserimento nella società la recidiva precipita al 20 per cento.

Sarebbe sufficiente fare due conti per rendersi conto che se, su dieci persone scarcerate, solo due invece di otto ritornano a commettere reati, la società ha tutto da guadagnarci. E considerando il fatto che la gran parte della popolazione carceraria è composta da recidivi, si può ipotizzare che nel volgere di qualche anno all’insegna di questa politica penitenziaria (ora assai poco seguita) i livelli di criminalità potrebbero scendere sensibilmente.

Finora le spiegazioni di questo successo della prassi del reinserimento si sono concentrate sul fatto che un reinserimento graduale e controllato, che comincia con la concessione dei permessi premio, poi continua con il lavoro esterno e la semilibertà e magari termina con l’affidamento ai servizi sociali, evita che il recluso si estranei in modo ancora più grave dalla società nella quale dovrebbe reinserirsi e gli consente di riabituarsi o abituarsi al lavoro, ai suoi ritmi e alle sue regole, a fare i conti con uno stipendio “normale”, e a costruirsi pian piano un’esistenza all’esterno che può continuare senza traumi una volta terminata la pena, invece di ritrovarsi scaraventato fuori senza soldi, senza un lavoro, spesso senza una casa e una famiglia che possa dare sostegno.

Tutte considerazioni verissime e che mi trovano pienamente d’accordo. Ma esiste anche un altro aspetto che finora è stato poco considerato e che, a mio parere, investe molto il senso della pena e, con ogni probabilità, riguarda in qualche modo anche il crollo della recidiva. Quando a un detenuto viene offerta la possibilità di accedere ai benefici di legge la qualità della sua pena cambia radicalmente. E non si tratta solo del miglioramento della qualità della vita dietro le sbarre. Si tratta della qualità del senso che il detenuto dà alla pena che sta scontando. Al primo permesso premio, infatti, più o meno consapevolmente, ogni recluso deve fare una scelta importante: scelgo di ritornare in carcere e terminare di scontare la pena o scappo? Non voglio addentrarmi nelle molteplici considerazioni che possono influire su tale scelta (mi conviene? dove scappo? ce la faccio? mi riprendono?) quello che mi sembra importante è che nella stragrande maggioranza dei casi i reclusi scelgono di rientrare. È come se lo Stato dicesse: “Fino ad ora ti ho tenuto chiuso dentro con la forza, adesso la porta è aperta, che fai?”. In quel momento il recluso decide lui di continuare a scontare la pena e questa acquista un senso completamente diverso, un senso che non può non avere influenza sui “numeri” della recidiva. Ed è una scelta che deve essere rinnovata di continuo, ad ogni permesso premio, ogni volta che ci si trova ad urtare contro la barriera (interiore) delle prescrizioni e dei divieti, ogni singola sera al momento di rientrare in carcere dopo aver lavorato all’esterno.

Non sono certo io a volermi fare illusioni, né voglio crearle in altri. Mi rendo perfettamente conto che i livelli di consapevolezza riguardo a questa “interiorizzazione della pena” sono molto variabili e perlopiù molto bassi, anche perché l’istituzione non è attualmente in grado di far leva su questi fattori e di svilupparli. Tuttavia sicuramente a qualche livello, più o meno conscio, si tratta di una scelta che viene operata e, a mio parere, rappresenta un importante punto di appoggio su cui far leva.

Ecco, una pena che preveda il graduale reinserimento in società grazie ai benefici di legge, invece di tenere la persona ad abbrutirsi rinchiusa in una cella per tutta la condanna, forse non soddisferà la sete di vendetta dell’opinione pubblica, ma mi sembra ragionevolmente più sensata, non solo perché con l’abbattimento della recidiva riduce i costi sociali, ma anche perché costringe in qualche modo il condannato ad accettare la propria pena, a scegliere di continuare a scontarla e a interiorizzarla.

Si continua a dire che il carcere serve e a darne sempre di più

Oggi ci si dimentica facilmente che molte delle fasce deboli di questa società sono poi quelle che alternano carcere, dormitori, reparti di psichiatria, comunità terapeutiche, con qualche periodo di libertà

 

di Stefano Bentivogli

 

In questi giorni mi tornano in mente le lunghe discussioni che, quando ancora mi trovavo alla Casa di reclusione Due Palazzi di Padova, facevamo nella redazione di Ristretti Orizzonti. Spesso ci trovavamo a dibattere sulle “provocazioni” di alcuni navigatori del nostro sito Internet, i quali ci ponevano il problema sull’opportunità a meno di dare la parola a chi si era macchiato di reati di sangue ed aveva oramai scontato la sua pena.

Oggi mi trovo in comunità, dopo essere passato di nuovo in carcere: il mio percorso di libertà è durato poco, sono addirittura riuscito ad aspettare che venisse approvato l’indulto, così ora non potrò beneficiare nemmeno di quello sconto di pena che mi avrebbe un po’ “salvato”, almeno riguardo all’entità della pena che mi verrà inflitta. Ma, purtroppo, quando si è schiavi della droga non si fanno tanti conti, e non era sicuramente con il mio stipendio che potevo permettermi di pagarmi lo stupefacente di cui ero di nuovo dipendente, e così mi sono ritrovato a commettere nuovi reati.

Ecco, mi chiedo cosa possa io scrivere ancora su questo argomento, anche perché sono sicuramente più interessanti i ragazzi di Muccioli, di San Patrignano, quelli che mettono sempre il loro percorso in positivo, che snocciolano a menadito i danni provocati da tutte le droghe, ma che dimenticano l’alcol, gli psicofarmaci, e soprattutto dimenticano che parlare dall’interno della comunità, e nel bel mezzo del programma terapeutico, è ben diverso ed anzi è tutta un’altra cosa. Poi, quello che succede dopo e fuori interessa poco ed è sempre poco verificabile: ricordo che era addirittura stata realizzata una ricerca che faceva apparire San Patrignano come la fabbrica della salvezza, salvo poi essere messa fortemente in discussione a livello scientifico proprio perché, più che a una ricerca, assomigliava a uno spot pubblicitario.

Ma torno al discorso iniziale, ossia se chi ha sbagliato ed ha scontato una pena abbia diritto o meno a parlare ancora in pubblico con qualche “autorevolezza”: in pratica se sia ancora un essere umano che ha diritto di dire la sua o se faccia oramai parte di una categoria dove, oltre alla privazione della libertà, subentra anche il divieto di avere un’opinione e quindi di esprimerla. Personalmente, il grosso delle difficoltà lo trovo in qualcosa di simile al senso del pudore, ma sotto sotto forse c’è anche il voler evitare di dire “ho sbagliato” e accettare pubblicamente le proprie responsabilità.

Fatto questo passo, messo anche in conto che qualcuno dica “Quello continua a fare reati ed ha ancora il coraggio di parlare!”, vorrei riproporre una questione che, tra le discussioni sull’indulto e sull’amnistia, la richiesta di leggi più severe ora per i mafiosi, ora per i minori, ora per i pedofili e per gli stupratori, o per i terroristi, si continua a glissare, dimenticando che rappresenta una delle questioni centrali per le politiche di sicurezza sociale.

Le questioni sono in realtà anche altre, ma quella sulla quale c’è una latitanza storica è la pena, sia dal punto di vista della certezza della pena (ma su questo occorre spiegarsi bene), sia sul senso della pena stessa. Se vogliamo partire dalla certezza della pena, in Italia esiste eccome, come del resto esiste l’obbligatorietà dell’azione penale. Tuttavia è vero che esiste anche una elite di imputati assistita da una elite di avvocati che, in diversi casi, ottengono la prescrizione del reato, ossia riescono a dilatare la durata dei processi che sono di per sé già lunghi a dismisura. Nonostante si tratti di migliaia di processi l’anno, il problema non è quindi sicuramente la certezza della pena, che per tutti gli altri che non fanno parte di quella elite è implacabile.

Ma la questione che veramente, se non fosse drammatica, sfiora il ridicolo, è il senso della pena. Partiamo ad esempio dal fatto dell’intento educativo, o rieducativo che dir si voglia: chi ha avuto esperienze di carcere non dimenticherà mai quanto contraddittorio sia il tentativo di trasmettere e mantenere la disciplina, il senso di responsabilità, l’autocontrollo, l’igiene e la cura di sé in galera. Risultato: la responsabilità è la prima cosa che viene allontanata dalle competenze della persona detenuta; l’autocontrollo risulta quasi impraticabile perché sui conflitti l’amministrazione penitenziaria interviene quasi sempre in termini di repressione; l’igiene (non dappertutto) è una lotta quotidiana spesso persa in partenza, e la cura di sé si limita al massimo allo sfoggio, a care spese di familiari e parenti, di qualcosa all’ultima moda, altrimenti sei un criminale fallito, quasi che quelli dentro siano la categoria dei vincenti.

Ecco, dopo l’ennesimo rientro in carcere a causa della tossicodipendenza, in galera ho trovato un po’ di spazio calpestabile in più, ma per tutto il resto non è cambiato proprio nulla, compresi i problemi legati all’affettività e al lavoro sottopagato e quasi inesistente. Eppure, si continua a dire che il carcere serve, e a darne di più e a pensare che quanto più uno “se la fa tutta”, la galera, tanto più la società può stare tranquilla.

Con questo non voglio alleggerire le mie responsabilità, tutt’altro, ma voglio ricordare ai politici che attenuare il sovraffollamento, per poi fermarsi lì e non mettere mano al sistema delle pene, equivale a perdere un’opportunità irripetibile. Ci si dimentica infatti che molte delle fasce deboli di questa società sono poi quelle che alternano carcere, dormitori, reparti di psichiatria, comunità terapeutiche, con qualche periodo di libertà. Su queste fasce non si ha ancora il coraggio di intervenire per evitare che si inneschi continuamente il percorso che porta automaticamente alla marginalità ed irrimediabilmente alla repressione.

Ricordo che si tratta di vite umane, ed il mio invito è di dare la parola a questa umanità spesso impresentabile agli occhi foderati di perbenismo che il mercato ci impone di avere. Per quante volte possano aver sbagliato, pagato e sbagliato ancora, è nelle loro parole, quando li si mette in condizione di essere sincere, che possiamo percepire il sapore di alcune verità che in nessun testo di psicologia, di criminologia o altro riusciremo mai a trovare.

 

In carcere si incontra la vertiginosa miseria nella quale la forbice sempre più

 

Una di queste verità è che però a queste persone la parola nessuno la dà, e si preferisce così pensare che dal carcere con l’indulto sono usciti solo feroci criminali. C’è ancora una grossa discussione in corso che riguarda sia il numero dei beneficiati dall’indulto sia la percentuale di quelli che sono rientrati in carcere per aver commesso nuovi reati, e per ora pare evidente che la percentuale dei recidivi è molto più bassa di quella stimata nelle scarcerazioni ordinarie. Sarebbe da esserne più che soddisfatti, del fatto che in molti hanno risposto e reagito positivamente ad un atto di clemenza che, pur tra notevoli difficoltà, ha permesso di tentare reinserimenti sociali in un periodo in cui la precarietà è diventata un’epidemia sociale. Ancor di più si è avuto il riscontro, se mai ce ne fosse stato bisogno, che le carceri italiane erano piene di detenuti con pene o residui pena inferiori a tre anni: il che significa che una serena applicazione delle normative vigenti poteva tranquillamente far scontare in misura alternativa alla detenzione gran parte di queste condanne.

Credo che questi dati debbano essere tenuti in seria considerazione per il futuro, perché le carceri si stanno progressivamente riempiendo, non come risultato dei rientri dall’indulto ma per effetto delle leggi sulle droghe, sull’immigrazione e sulla recidiva, e però non si percepiscono ancora correzioni di indirizzo nel concedere le misure alternative alla detenzione. Se poi si pensa che il numero dei migranti in carcere per la sola violazione della legge Bossi-Fini sull’immigrazione (insomma, per il solo fatto di essere irregolari e di non aver lasciato l’Italia) è assai elevato, c’è poco da stare tranquilli. Tanto per fare un esempio, la Casa circondariale di Padova è oggi un carcere per stranieri, un carcere dove gli italiani sono un’invisibile minoranza all’interno della quale i padovani si contano sulle dita di una sola mano, rendendo così il rapporto con il territorio ancora più complicato.

In realtà è proprio con il tessuto sociale, con le associazioni di volontariato, con le istituzioni preposte che si potrebbe trasformare la scarcerazione da un salto nel buio ad un’opportunità di reinserimento. Anche se poi, ovviamente, la dimensione personale alla fine la fa da padrona: ad esempio io, pur con tanti aiuti ricevuti, pur non avendo per la testa manie di arricchimento facile né di bella vita, dopo un periodo di libertà sono nuovamente “ricaduto” nella tossicodipendenza che, direi inevitabilmente, mi ha poi portato a commettere nuovi reati.

Io non ho molta voglia di scontare altri anni chiuso come un animale, senza essermi arricchito, visto che sono nella miseria più nera e per di più con la salute a pezzi… Ma per il legislatore sono e rimango un pericoloso criminale, e come me, nella mia condizione, ci sono altre migliaia di persone, uomini con i quali ho diviso calzini e mutande perché, o io o loro, ne eravamo sprovvisti… Questa è la media dello spessore criminale dei “terribili e pericolosi” recidivi, gente che alla terza possibilità che si sono bruciati va eliminata.

Ma raccontare questa realtà è difficile, l’unico modo per farlo sarebbe quello di far assaggiare direttamente la vertiginosa miseria nella quale la forbice sempre più aperta della ricchezza fa vivere, soffrire e morire una fascia sociale praticamente predestinata. Mi prendo le mie responsabilità, ma sfido chiunque a sentirsi a posto, a non accorgersi di come più si è predicato il moralismo proibizionista e più si sono arricchite le narcomafie del pianeta.

Ad ogni modo, varato l’indulto, se da un lato si è alleggerito l’insostenibile e folle sovraffollamento, il resto è rimasto quasi uguale a prima, come se il sovraffollamento fosse un problema di per sé e non il coronamento di un sistema penale che non funziona più. La vera preoccupazione, quindi, è proprio che si fermi tutto lì, e che la sanità, la salute (anche quella mentale), il trattamento penitenziario, l’osservazione della personalità, il lavoro, le attività culturali rimangano quei fenomeni precari e occasionali che sono oggi in buona parte delle carceri italiane. Magari quest’anno con la scusa della finanziaria che non ha margini per trovare risorse per il carcere, e poi il prossimo anno sarà semplice trovarne un’altra, di scusa. Fino al prossimo sovraffollamento.

Ma chi sono gli ergastolani?

Anche le persone condannate alla pena perpetua possono essere recuperate? Ed è giusto che anche loro, naturalmente a determinate condizioni, possano fruire dei benefici penitenziari?

 

di Marino Occhipinti

 

Nei giorni scorsi, discutendo nella redazione di Ristretti Orizzonti sul senso della pena – che sarà l’argomento portante della Giornata di studi che organizziamo ogni anno in questo carcere – la nostra coordinatrice ci ha “girato” l’obiezione che frequentemente sollevano gli studenti che aderiscono al progetto carcere-scuola. In buona sostanza, i ragazzi ci chiedono, e si chiedono, se sia giusto che chi è stato condannato all’ergastolo, quindi chi ha commesso i cosiddetti reati “irreparabili”, e cioè gli omicidi, abbia diritto ad una seconda possibilità.

Abbiamo allora iniziato a discutere su quali risposte dare agli studenti in merito a questo delicato argomento, e quindi come spiegare loro, con un minimo di filo logico, che per quasi tutti i condannati, o meglio che per quasi tutti i tipi di pena, quindi compresa quella perpetua qual è l’ergastolo, sono previsti i cosiddetti benefici penitenziari.

Prendendo spunto dalle osservazioni degli studenti, alcuni di noi hanno però iniziato a tirare fuori i casi limite: gli assassini del piccolo Tommaso, quelli di Erba, il massacratore del Circeo Angelo Izzo, l’ergastolano in semilibertà che, dopo un trentennio di carcere, un paio di anni fa ha ucciso la figlia e la moglie di un suo compagno di detenzione.

Personalmente ritengo che non si debba fondare una discussione seria sulla base di simili premesse – e cioè analizzando e prendendo ad esempio tre fatti che hanno sconvolto tutti, anche noi che siamo in carcere – a fronte di un numero di condannati a vita che supera le 1250 persone. Non che gli altri ergastolani siano degli stinchi di santo o delle gran brave persone, non è certamente questo che voglio dire; è fuor di dubbio, infatti, che per essere stati condannati a tale pena il reato commesso sia proporzionalmente altrettanto grave, ma intendo comunque rivendicare con forza un concetto, che nella redazione di Ristretti Orizzonti è sempre stato il punto focale delle nostre attività: “Non siamo dei reati che camminano, ma ognuno di noi, pur con la sua drammatica vicenda, rimane una persona con la sua storia”.

E allora, anche sulla base di questa osservazione, credo che sia assolutamente sbagliato prendere come metro di valutazione una vicenda atroce oppure un’altra ancor più raccapricciante, anche perché, che io ricordi, di casi come quello di Angelo Izzo se ne è verificato soltanto uno. È fin troppo ovvio, comunque, e ci mancherebbe che fosse diversamente, che l’unicità del fatto non giustifica nulla, ma non bisognerebbe neppure dimenticare i molti condannati all’ergastolo che, quando hanno avuto una possibilità di ricostruirsi una parvenza di vita normale, l’hanno saputa utilizzare al meglio, rispettando così anche l’impegno di correttezza e di lealtà che hanno assunto nei confronti di chi, “nonostante tutto”, ha concesso loro ancora fiducia.

Anche in questo carcere ci sono ergastolani che fruiscono di benefici penitenziari. Soltanto nella mia sezione ce ne sono due, di questi uomini, che dopo aver scontato 11-12 anni, escono in permesso. Altri ancora escono ogni mattina a lavorare e rientrano la sera, e non mi risulta che siano attualmente un pericolo per la società, anche perché – come è assolutamente giusto che sia – prima di concedere un qualsiasi beneficio, gli operatori penitenziari e la magistratura di sorveglianza effettuano con scrupolo tutte le verifiche che ogni singolo caso richiede.

 

Investire sull’essere umano nonostante i suoi errori

 

Ma tornando alla discussione in redazione, quando qualcuno ha sostenuto che per essere condannati all’ergastolo bisogna aver commesso un omicidio volontario premeditato, oppure aver ucciso una persona ed averne distrutto il cadavere, oppure ancora aver commesso un omicidio di mafia – e siccome venivano continuamente tirati in ballo i tragici fatti di Erba-Tommy-Izzo, come se soltanto per quel genere di crimini si possa essere “espulsi” vita natural durante dal consorzio civile – ho cercato di prendere le distanze da una qualsiasi vicenda specifica, ed ho invece provato a portare il fulcro del discorso dal particolare al generale, incentrando la mia “linea di difesa”, per dirla con un termine giuridico, prima su un po’ di teoria e portando poi un paio di esempi concreti.

E allora, chi sono gli ergastolani, o meglio, per quali omicidi si può essere condannati a quella pena? Per maggior scrupolo mi sono riletto il Codice penale, dove, tra le altre varie aggravanti che prevedono l’ergastolo, ho trovato anche questa: “Articolo 576 – Si applica la pena dell’ergastolo se l’omicidio è commesso col concorso di taluna delle circostanze indicate nel numero 2 dell’articolo 61”. Al numero 2 dell’articolo 61 è scritto: “L’aver commesso il reato (l’omicidio) per eseguirne od occultarne un altro, ovvero per conseguire o assicurare a sé o ad altri il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero la impunità di un altro reato”.

In poche parole, si può essere condannati alla pena a vita anche per un omicidio commesso nell’ambito di un furto, di una rapina o di un’estorsione o di tantissimi altri reati. Non per ciò è “più banale” o meno grave, ma insomma, non è nemmeno necessario aver massacrato il piccolo Tommy a Parma, o aver fatto la carneficina di Erba o il massacro del Circeo per vedersi inflitta la massima pena. Poi, in concreto, non sempre è così, e la diversità del trattamento sanzionatorio dipende da una lunga serie di fattori, valutati di volta in volta dai giudici, che possono mitigare la pena: ad esempio la concessione delle attenuanti generiche o specifiche, la scelta del rito abbreviato, il risarcimento del danno eccetera.

Per farla ancora più semplice, a due persone che hanno commesso lo stesso identico reato, può essere inflitta una pena molto diversa. L’assassino che confessa l’omicidio (ma non è detto che tutti trovino la forza di farlo, a meno che si tratti di flagranza di reato), o che risarcisce il danno (non tutti hanno però le risorse economiche per provvedervi) o che magari sceglie il rito abbreviato, può “cavarsela” con una condanna a 20-25 anni; diversamente, è l’ergastolo.

E, nonostante appunto la medesima gravità del crimine, l’idea che si ha delle due singole persone sulla base della pena loro inflitta, è completamente diversa: da ergastolano, infatti, ho sperimentato personalmente quel che dico quando, nel presentarmi ad una persona esterna che è entrata occasionalmente in carcere, l’ho vista inorridire e ritrarre la mano che, fino ad un attimo prima, mi stava cordialmente porgendo.

Mentre per la teoria è tutto, per la parte pratica espongo invece un paio di esempi concreti di persone che in questi anni ho conosciuto bene:

R., un uomo con una vita di onesto lavoro alle spalle, scopre che la moglie lo tradisce. Un giorno la segue, la trova in atteggiamenti inequivocabili con il suo amante, perde la testa e la uccide. Ergastolo.

S., un altro uomo dall’esistenza fino ad allora normalissima, al lavoro litiga con una persona che, a seguito di una colluttazione, muore. Ergastolo.

Anch’io ho preso in esame i casi limite di due uomini che, e ci mancherebbe altro, non sono certamente da giustificare, ma ho soltanto tentato di sottolineare che non tutti gli ergastolani sono serial killer recidivi con decine di morti ammazzati sulle spalle, ed a questo punto, con un po’ di provocazione, sono io a girare il quesito iniziale: “Sarebbe forse giusto negare la speranza ad una persona – nonostante si sia macchiata del reato più grave che esista, l’omicidio – sempre se questa ha compreso i suoi errori ed ha deciso, con tutte le sue forze, di riscattarsi e di condurre una vita onesta, basata sul rispetto delle regole e della civile convivenza?”.

O forse, solo per fare un altro esempio ancora, Giovanni Brusca – che non ricorda neppure quante persone ha ucciso – è recuperabile soltanto perché con la sua collaborazione, che ovviamente ha fornito soltanto dopo l’arresto e non prima…, se l’è cavata con una condanna a vent’anni ed è già libero, mentre R. e S. dovevano rimanere invece in carcere per tutta la vita?

Il discorso è sicuramente complicato e talmente intricato che, non per niente, ad un certo punto i “giudici della pena” lasciano il posto ai “giudici della persona”, e cioè i Magistrati di Sorveglianza, che, per quanto possibile ed a ragion veduta, investono sull’essere umano nonostante i suoi errori.

Ci sono dei giorni che mi sento un morto che respira

Vivere senza fare progetti. Con l’ergastolo puoi immaginare

di vivere, ma immaginare non è vivere

 

di Carmelo Musumeci

Carcere di Nuoro

 

Mi sono svegliato incazzato… anche oggi mi sono svegliato in prigione. Da un po’ di anni non sogno più il mondo di fuori come prima, probabilmente perché dopo 16 anni di carcere duro il mondo libero inizia ad essere lontano dai ricordi, e non poter sognare la libertà è ancora più doloroso che non averla. Invece questa notte ho sognato di trovarmi davanti a casa mia, ma non riuscivo ad entrarci perché avevo perso le chiavi. Poi ho sognato di passeggiare mano nella mano con mio nipotino. Chissà un domani, tutto è possibile, d’altronde niente esiste se prima non viene sognato. Credo che fino a quando teniamo in vita i nostri sogni, rimaniamo creatori del nostro destino.

Cazzate! Il tuo destino è segnato.

Sotto un certo aspetto siamo noi  i creatori del nostro mondo, se lo vogliamo cambiare in meglio bisogna sognarlo sul serio e poi costruirlo passo a passo.

Sì! All’aria a passeggiare avanti ed indietro per tutta la vita.

Quando riesco a sognare mi sento vivo, come dire, sogno quindi sono vivo.

Invece di sognare dentro perché non sognavi fuori?

Fuori ero troppo confuso per credere ai sogni. Oggi invece, quando intorno a me ci sono solo ostacoli e mi sento triste, per evadere guido la mia mente nello spazio dei sogni… uno spazio dove non esistono limiti, neppure quello di mangiare un gelato insieme ai miei figli.

Non ci sono limiti? Ma se ci sono sbarre, muri e non hai un fine pena, stai ancora sognando? Svegliati!

Che male c’è se uno sogna di stare meglio. Sento nostalgia della libertà, di casa, dei miei figli e della donna che amo, mi piace avere nostalgia, così sconfiggo la solitudine.

Sei irrecuperabile, dopo tanti anni di carcere non ti sei ancora abituato all’idea che non uscirai più.

La cosa più brutta del carcere è che per tirare avanti, ti obbliga a sognare di non esserci.

Ma tu ci sei, alzati che se vuoi dimagrire devi andare a correre al passeggio.

La cosa più brutta del carcere è la monotonia, e al mattino quando ti svegli ed hai gli stessi pensieri del mattino precedente. Un giorno non passa mai, un mese passa in fretta, un anno ancora di più ed intanto la vita di una persona se ne va… Faccio colazione, la solita mela ed un tozzo di pane e bevo il caffè della casanza. Poi mi guardo allo specchio e vedo che la mia barba sta diventando tutta bianca! Il tempo in carcere non ha tempo, per questo ti senti vecchio o giovane a seconda dei giorni. Una delle cose più difficili del carcere è che devi vivere alla giornata senza la possibilità di fare progetti, in questo modo, più dei muri, siamo prigionieri di noi stessi.

Vado all’aria, al passeggio siamo in quattro che corriamo, tutti ergastolani. Cielo nuvoloso con una leggera pioggia autunnale che ci bagna, sembriamo anime in pena o meglio degli zombi che corrono. Fra un giro di cortile e l’altro, parliamo della disumanità della nostra pena e del disegno di legge che ha presentato il gruppo del partito di Rifondazione Comunista alla Camera per l’abolizione dell’ergastolo.

L’ergastolo ti fa morire dentro a poco a poco.

Più ti avvicini al traguardo più questo si allontana.

Non siamo morti ma neppure vivi.

L’ergastolo trasforma la luce in ombra… la vita in morte.

La vita di un ergastolano è di una inutilità totale, non senso, aberrazione, sofferenza infinita.

La pena dell’ergastolo è un’invenzione di nonDio, di una malvagità che supera l’immaginazione.

L’ergastolo è una pena che rende i1 nostro futuro uguale al nostro passato.

Un passato che schiaccia il presente e toglie la speranza al futuro.

È una pena stupida perché non c’è persona che rimanga la stessa nel tempo. All’ergastolano rimane solo la vita ma la vita senza futuro è meno di niente.

Con la pena dell’ergastolo addosso è come se la vita fosse piatta ed eterna.

Non c’è bisogno di fare progetti per il giorno dopo e per il giorno dopo ancora poiché, in un certo senso, la pena dell’ergastolo è una vittoria sulla morte perché è più forte della morte stessa.

Con l’ergastolo puoi immaginare di vivere, ma immaginare non è vivere.

L’ergastolo è come una clessidra, quando la sabbia è scesa viene rigirata.

L’ergastolo è una morte bevuta a sorsi, perché non ci mettiamo d’accordo e smettiamo di bere tutti insieme?

È una buona idea, passiamo parola agli ergastolani delle altre carceri, decidiamo tutti insieme di lanciare una campagna di sensibilizzazione sul tema dell’abolizione della pena dell’ergastolo che sostenga l’iniziativa parlamentare. Dichiariamo che siamo stanchi di morire un pochino tutti i giorni e quindi decidiamo di morire per una volta sola chiedendo che la nostra pena dell’ergastolo sia tramutata in pena di morte.

Sentendo tutti questi discorsi tristi, invece di correre la solita ora dopo solo mezz’ora me ne torno in cella con una immensa tristezza in fondo all’anima.

C’e poco da essere triste, l’idea è buona, meglio morire da uomo che vivere da ergastolani.

Ormai si sono fatte le undici ed è l’ora del pranzo; mentre mangio qualcosa dal carrello, penso che in quasi tutta la mia vita, dal collegio alla prigione, ho sempre avuto una porta chiusa davanti a me ed una finestra con le sbarre dietro: forse è per questo che amo così tanto la libertà.

Arriva la posta. Un compagno mi elogia per il modo in cui affronto il carcere: “Ammiro la tua caparbietà, il tuo coraggio e la tua determinazione….”. Mi viene da sorridere, poiché non ci vedo nulla di eroico nel tentare di sopravvivere. Poi leggo la lettera di Alessandro con il messaggio che ha lasciato mia figlia nel sito… “Messaggio lasciato da Barby riguardo al testo ‘Notte da ergastolano’: Ogni volta che ti senti solo, chiudi gli occhi e vedrai che io sono lì con te. Possono toglierci tutto ma non possono impedirci di sognare e di amarci cosi tanto!!!”.

Come mi fa commuovere mia figlia non ci riesce nessuno. Per un attimo ricordo di quando era piccola e ci commuovevamo insieme guardando le scene tristi dei cartoni animati alla televisione. E mio figlio ci prendeva in giro dicendo che eravamo scemi a piangere per cose non vere. Lo sapevo che il racconto “Notte da ergastolano” l’avrebbe rattristata.

Ma no! È un racconto ironico… fa anche ridere.

Sì, solo che fa ridere da morire! C’e anche una sua lettera: “Caro papà… (…)  ho deciso di venirti a trovare, la prossima settimana: verrò nella tua cella tutte le sere, così ti sentirai meno solo! Ti spiego meglio: insieme a questa lettera ti mando sette bigliettini; ogni sera dovrai aprire solo quello del giorno indicato. In ognuno c’è il programma della serata, così faremo le stesse cose nello stesso momento e sarà come se fossimo insieme. Perché vedi papà, non possono toglierci i nostri sogni, non possono impedirmi di pensare che tu sia la persona migliore che conosco e faro tutto quello che è possibile e anche quello che non lo è per farti soffrire un po’ meno. Tu mi dai la forza di affrontare ogni difficoltà; sei il mio più grande esempio e spero tanto di assomigliarti il più possibile… Grazie di tutto papà! Non sai quanto ti amo”.

Mia figlia è una fata, la mia fata turchina.

Apro il bigliettino di sabato: “Caro papà, questa è la nostra prima serata insieme, quindi ci facciamo una bella cenetta! Vorrei tanto che tu mi facessi le reginette al pomodoro come quando ero piccola! Mi raccomando però, non bere troppo altrimenti poi ti addormenti… E cucina come se ci fossi anch’io, perché in realtà sono lì con te!!! Un bacio grande grande”.

Mi viene subito voglia di aprire gli altri bigliettini, ma mi sembrerebbe di tradirla…

Ma tanto, se non glielo dici tu non lo viene a sapere…

E se sente i miei pensieri e mi scopre subito?

Non fare lo scemo, come fa a leggerti nel pensiero da lontano… dai un’occhiata almeno al biglietto di domani sera.

Quasi quasi.

Ma che fai, ti guardi intorno? Sei solo! Non c’è mica nessuno in cella, dai forza che sono curioso.

Ho paura che mi veda… no! Rinuncio! Aspetto domani sera.

Al pomeriggio esco al passeggio, ha smesso di piovere. Siamo in tanti ma io mi sento solo, più solo che in qualsiasi altro posto, e preferisco passeggiare in solitudine. Mentre cammino penso a tutte le persone che per anni ed anni sono passate ed hanno vissuto il dolore di questi luoghi. Molti detenuti si sentono soli ed io, che invece non sono solo, sento dentro di me la loro solitudine. La vita in carcere è la più triste di tutte le vite, perché in carcere si vive di passato e di futuro, mentre il presente alla fine della giornata si preferisce cancellarlo. Ci sono dei giorni che non passano mai, non accade nulla e poi ancora nulla e tutto è come al solito… noia, tristezza e solitudine.

Rientro in cella e mi preparo per “uscire” a lavorare, faccio lo scrivano per cinquanta euro al mese, una miseria, più che per me lo faccio per i miei compagni, tanto le istanze gliele farei gratis. Appena mi aprono i cancelli passo da Franco, è appena rientrato da un altro carcere per processo… è stato condannato a vent’anni. Per consolarlo provo a dirgli che 20 anni sono molti, ma non troppi per non riuscire a vederne la fine, invece il mio ergastolo è per l’eternità… non credo proprio di averlo consolato. Passo in un’altra cella da un mio amico albanese. Dicono che sia un po’ matto. Mi dice: “Se in carcere ragioni razionalmente sei rovinato; fai come me, fai lo scemo ed anche se non sarai felice non vai nei guai”.

Ho sempre pensato che i matti ragionano più dei normali…. Arrivo davanti alla cella di Mustafà, che ha appena finito di pregare. Discuto con lui di religione. Mi è simpatico, è un integralista islamico, giovane intelligente ed istruito, da molti anni residente in Italia. Alla fine ognuno di noi, come al solito, rimane convinto della propria idea; io ateo e lui fervente credente. Concludo dicendo che se Allah esiste veramente, sarà così intelligente da capire il motivo per cui non sono riuscito a credere che esiste, e mi perdonerà.

Mario si sfoga: “Mi hanno chiuso dal lavoro; per fare un favore ad un compagno ho tentato di passare una lettera ad un detenuto dell’altra sezione e mi hanno preso in flagranza”. Mi dispiace, non ha nessuno che lo aiuta, non ha un soldo, ed essere poveri dentro è ancora più brutto che esserlo materialmente. II carcere è un mostro che nella maggioranza dei casi colpisce e distrugge la parte più debole della società. Mi chiama Ruffianulk (un detenuto che abbiamo tutti soprannominato così), e mentre mi chiede di compilare la richiesta di liberazione anticipata mi spara la solita cazzata giornaliera: “Per essere dei buoni detenuti e prendere facilmente gli sconti della buona condotta, non bisogna vedere, né parlare e nemmeno sentire…”. Gli rispondo che non si vive solo per sopravvivere, e finché diciamo ciò che pensiamo siamo un po’ più liberi. Molti detenuti hanno deciso di non pensare pur di non dispiacere ai loro controllori, io invece continuo a ragionarla a modo mio.

Ho finito l’ora di lavoro e mi rinchiudono in cella, leggo qualcosa, scrivo, mi lavo una maglietta e mi preparo da mangiare. Fra i “privilegi” di avere la cella singola c’è lo svantaggio che mangi da solo, ed a volte è triste perché non siamo cani. Spesso faccio finta di essere con qualcuno e parlo da solo, tanto che m’importa se qualche guardia mi prende per matto. In carcere non puoi vivere se non sei un po’ pazzo, devi per forza chiudere gli occhi e sognare, perché se ti guardi intorno non riesci a sopravvivere. Metto in ordine la cella, mi guardo un po’ di televisione, poi la spengo e provo a dormire. Ci sono dei giorni come questo appena passato, che mi sento un morto che respira, solo i sogni mi fanno sopravvivere, e allora, prima di addormentarmi, provo a guidare la mia mente nello spazio dei sogni: un universo dove non esistono limiti, e questa notte spero di sognare di non passare più una giornata da ergastolano.

 

 

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