Editoriale

 

Ripensare la pena

di Ornella Favero

 

Stare in carcere e non capire il senso della pena, e ritenere di stare subendo una ingiustizia è quanto di meno rieducativo ci sia nella vita di una persona detenuta. Eppure, nelle carceri pre-indulto era la norma, ora si sarebbero create però le condizioni per voltare pagina. “Si sarebbero”, diciamo, perché chi vive in galera non ha ancora percepito grandi (e spesso neppure piccoli) cambiamenti.

Questo numero di Ristretti abbiamo voluto dedicarlo allora alla pena, al senso e ai tanti nonsensi della pena. E ne abbiamo prima di tutto parlato con Olga D’Antona, che ci sembrava la persona più adatta a stimolare, in chi sta facendosi la galera, una giusta riflessione sul dolore delle vittime, ma anche a costringere a riflettere tanta gente che sta fuori, e in questi mesi ha peggiorato di molto la sua opinione sulla Giustizia, sulle pene, sulle carceri, sui detenuti. Olga D’Antona ha detto di avere la fortuna di non provare odio: una bella lezione per chi, come tanti mezzi di informazione, l’odio se lo inventa e lo sollecita, e i fatti di Erba e la caccia all’immigrato uscito con l’indulto sono stati in tal senso un caso esemplare di orrore mediatico.

Ma se, come sostiene la D’Antona, la società deve saper riaccogliere chi ha sbagliato, e detto da lei, che ha avuto il marito ammazzato dai terroristi, questo concetto assume un valore ancora più nobile, è vero allora che le persone che stanno in carcere, al di là del reato che hanno commesso, devono comunque avere una possibilità: e invece, e a questo è dedicato parte di questo numero, ci sono le leggi emergenziali, che hanno chiuso quasi ogni opportunità a tanti uomini e donne, reclusi spesso in sezioni ancora più rigide e poco umane delle sezioni comuni (ci sono oggi circa 8.000 persone in sezioni di Alta Sicurezza, Elevato Indice di Vigilanza e 41 bis), e c’è l’ergastolo, il fine pena mai che stride pesantemente con quella nostra Costituzione, che parla chiaro sul nostro dovere di punire pensando però a rieducare.

Allora, torniamo a dire, “se non ora, quando?”. Se non si riparla ora, con i numeri tornati nella normalità e gli spazi che permettono di respirare, di rieducazione, o meglio di reinserimento, e di tempo del carcere dedicato a progettare una opportunità per ogni persona rinchiusa, se non lo si fa adesso non ci saranno più alibi. E non raccontateci che mancano le risorse, perché tutti noi, che viviamo o “frequentiamo” le galere, vediamo con i nostri occhi questo “doppio binario” della realtà carceraria: da un lato, povertà e “ristrettezze” economiche reali, dall’altro, sprechi e investimenti di discutibile utilità.

Non sarebbe forse il caso di affrontare senza paraocchi alcuni nodi del problema del senso della pena? L’uso del tempo, per esempio: una pena scontata dove si può fare buon uso del tempo è radicalmente diversa da una pena fatta di tempo morto; l’uso delle risorse, provando davvero a fare un monitoraggio delle spese e un ragionamento sugli sprechi, alla luce del sole e degli sguardi e dei controlli attenti dei cittadini liberi; il passaggio dal “dentro” al “fuori”, l’anello più debole di una pena, che per tendere al reinserimento non può certo restare tutta “dentro”. E allora non sarebbe ora di avviare una riflessione comune con la Magistratura di Sorveglianza? Perché, e concludiamo con una domanda di quelle un po’ brutali, l’istituzione carcere, che deve elaborare per ogni detenuto un progetto individualizzato di percorso verso la libertà, non si misura più spesso pubblicamente con quella Magistratura di Sorveglianza, che di città in città applica in modo così diverso la legge? E non basta dire che ogni persona è una storia a sé, lo sappiamo bene, ma sappiamo anche che è difficile pensare che per esempio a Padova vivano detenuti più maturi, responsabili e degni di avere un’altra possibilità, e a … (e qui ci starebbero i nomi di tante altre città) invece siano tutti pericolosi.

 

 

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