Spazio libero

 

Uno sguardo oltre l’odio

 

Ragazzi israeliani e palestinesi si sono incontrati grazie al progetto “Tu, noi”, sostenuto dall’assessorato alle Politiche giovanili del Comune di Venezia. E hanno dimostrato che magari possono non capirsi e non condividere le idee dell’altro, però possono vivere assieme, parlarsi, ascoltarsi

 

di Nicola Sansonna

 

A volte le belle notizie non ottengono quell’eco sui mezzi di informazione che al contrario ottengono le cattive. Quasi come se fossimo talmente assuefatti alle brutture, alle stragi a colazione, agli scannamenti che quotidianamente invadono le case dal piccolo schermo e dalle pagine di giornali e riviste, da non poterne fare più a meno. Ma non è affatto così, e questa volta voglio proprio raccontare una buona notizia. Ho saputo casualmente di un progetto nell’isola di Sant’Erasmo nella laguna di Venezia, grazie al quale sono stati ospitati ragazzi israeliani e palestinesi. Per avere più informazioni ho inviato  un’intervista ad Emanuele Maspoli, gestore e fondatore del centro culturale di vacanza il Lato azzurro, che mi ha molto cortesemente risposto. Da lui sono stato invitato alla prudenza per l’equilibrio precario della situazione israelo-palestinese, “perché ogni parola di troppo potrebbe nuocere al progetto ed ai ragazzi/e palestinesi e israeliani. Essi vivono in un clima di guerra continua. Sono sempre a rischio. E il progetto stesso è sempre in forse per lo stesso motivo”. Emanuele mi ha anche indirizzato verso gli organizzatori dell’evento, Alberta Basaglia, Fabio Bozzato, Paolo Cacciari. Quella che segue è parte dell’intervista a Paolo Cacciari, assessore alle Politiche giovanili del Comune di Venezia, e ad Emanuele Maspoli, fondatore e gestore del Lato azzurro. Le interviste integrali saranno pubblicate nel nostro sito www.ristretti.it.

 

Sant’Erasmo, il luogo scelto per ospitare i ragazzi palestinesi e israeliani, raccontato da Emanuele Maspoli: A Venezia, Isola di Sant’Erasmo, ho fondato e gestisco il Centro culturale di vacanza Il Lato azzurro. Il Lato azzurro s’è negli anni consolidato come albergo alternativo e nello stesso tempo luogo di incontri e manifestazioni culturali al centro non di Venezia, ma della sua laguna, sull’isola orto della città d’acqua, Sant’Erasmo. Valorizzazione del territorio lagunare e insieme promozione dell’apertura e dialogo con le altre culture: questa la caratterizzazione del centro. Dall’impegno pacifista del Lato azzurro è nata l’importante collaborazione col Comune di Venezia, che quest’anno ci ha portati ad ospitare il gruppo di giovanissimi palestinesi, israeliani e spagnoli che partecipavano al Progetto “Tu, noi” di scambio culturale e valorizzazione delle culture altre.

 

La vostra iniziativa non è che una piccolissima goccia nel mare del difficile cammino della pace: quale senso dal punto di vista umano le attribuite?

Paolo Cacciari, assessore alle Politiche giovanili del Comune di Venezia: Se non fosse una frase fatta, direi che mi ha arricchito. Ma è proprio così: ho conosciuto persone meravigliose che non si arrendono alla situazione cui la guerra le costringe; non rinunciano ad essere loro stessi; non si fanno “arruolare” all’odio; rifiutano di essere uno strumento di violenza contro altri… e lo fanno – da ragazzi e ragazze quali sono – in modo del tutto naturale, spontaneo, in forza e in ragione della loro inalienabile umanità. Attenzione: ciò non vuol dire affatto inconsapevolezza (la “beata incoscienza” che gli adulti di solito attribuiscono ai giovani). Il loro tormento per la situazione che patiscono le loro famiglie e le loro comunità per i continui lutti e violenze inaudite, è costante, penoso, difficile da sostenere.

Emanuele Maspoli: Dal mio punto di vista, credo che in situazioni tanto gravi come il conflitto israeliano – palestinese sia importantissima qualunque anche piccolissima iniziativa che costruisca ponti, orizzonti, climi, ipotesi di realtà differenti. L’aver fatto stare insieme per alcuni giorni, seppur nel ritmo serrato della settimana di attività culturali e visite di Venezia, giovani di paesi tra loro in guerra, averli messi l’uno di fronte all’altro, per confrontarsi con altri ragazzi, uguali a sé, questo è stato un segnale inequivocabile di umanità possibile, di possibili spiragli nel dolore della guerra. Una goccia di questo tipo nel mare di sofferenza e odio che si è creato in Medio Oriente è preziosa. Lo è anche per noi, che assistiamo impotenti al declino della ragione e alla prevalenza delle logiche di sterminio e violenza, e viviamo quotidianamente bombardati da false informazioni, martellanti campagne di incitamento all’odio e all’ignoranza dell’altro da sé, in nome di una paura che è diventata motore ideologico delle società in cui viviamo. Dalla paura e dall’ignoranza nasce la violenza, la violazione dell’altro. Dalla conoscenza, dall’incontro, dallo scambio culturale nasce la possibile convivenza, e una migliore qualità della nostra vita.

 

Si sono incontrate difficoltà a far superare le reciproche diffidenze ai familiari dei ragazzi?

Paolo Cacciari: Sì. Alberta Baisaglia e Fabio Bozzato, coloro con cui collaboro e senza dei quali nulla si sarebbe potuto fare, e Mara Rumiz, presidente del Consiglio Comunale, sono dovuti andare più di una volta in Palestina e in Israele per organizzare il viaggio. Senza l’aiuto delle due amministrazioni comunali di Nablus e di Rishon Le-Zion, non si sarebbe – ovviamente – potuto fare nulla.

Emanuele Maspoli: Quello che ho vissuto è il bello dell’incontro, tra persone che avevano ovvi pregiudizi le une rispetto alle altre. Ma che alla fine hanno vissuto la normalità della vacanza-scambio culturale e si sono scoperti ragazzi e ragazze uguali, per desideri, vitalità, emozioni… E alla fine piangevano perché dispiaceva loro interrompere quest’oasi di convivenza felice e diventava un incubo maggiore il ritorno ad una realtà di guerra e chiusura. Alcune ragazzine palestinesi sono praticamente fuggite l’ultima sera, accompagnate da una connazionale che vive qui in Italia e fa parte della troupe cinematografica che racconterà in un documentario l’esperienza. Volevano godersi l’ultima serata di libertà, di svago, di distrazione, prima di ritornare a Nablus. Sì, il gruppo palestinese proveniva proprio dalla città che tutti sappiamo colpita in maniera pesantissima dalla guerra.

 

Da che paesi vengono ed a che ambienti appartengono i ragazzi coinvolti?

Paolo Cacciari: Due città della Palestina ed una di Israele. I ragazzi sono stati scelti con sistemi diversi: gli israeliani sono attivi nel locale “parlamento dei giovani”, mentre i palestinesi sono stati selezionati dopo un annuncio pubblico sul giornale locale. Tutti diciassettenni, studenti e studentesse, con storie e percorsi personali e familiari molto diversi.

Emanuele Maspoli: Le classi sociali erano le più svariate, soprattutto per i palestinesi. Se gli altri ragazzi e ragazze dimostravano un atteggiamento riconducibile alla classe media e medio alta, tra i palestinesi c’era anche qualcuno che proveniva da famiglie molto povere e in situazioni limite. E poi era evidente nel solo osservare tutti questi giovani: i palestinesi con la testa perennemente fra le nuvole, disorientati nello stupore di una prima volta all’estero; mentre tutti gli altri erano avvezzi al viaggio. Qualcuno era già stato più volte in Italia.

 

Come è stato organizzato il viaggio, i ragazzi si sono incontrati in Israele?

Paolo Cacciari: Sì. I referenti del progetto nelle città hanno concordato strettamente i dettagli e Alberta Basaglia ha seguito sul posto tutte le fasi della partenza dei ragazzi. Un autobus messo a disposizione dal Centro Pace Peres è andato a prendere i ragazzi palestinesi. Superato il check-point hanno raggiunto i loro coetanei a Rishion Le-Zion, dove il comune ha organizzato una festa di benvenuto.  Poi, tutti assieme sono partiti per l’aeroporto di Tel Aviv, da dove si sono imbarcati: non è stato facile organizzare il tutto, se solo si pensa che da quell’aeroporto i palestinesi solitamente non transitano, ma sono costretti ad andare ad Amman, in Giordania. Già questo è un successo per l’intero progetto. Ma tutto questo è stato possibile grazie alla collaborazione e alla credibilità che il nostro assessorato si è guadagnato coi due partners.

Emanuele Maspoli: Si sono incontrati prima di tutto via internet e gli organizzatori raccontano che i primi scambi di immagini ed esperienze sono stati truci. Si può ben immaginare che tipo di esperienza d’incontro abbiano gli uni e gli altri, in Palestina o Israele… È stato certamente difficile superare la barriera di odio e l’immagine necessariamente negativa che avevano come popoli in conflitto. Ma, raccontano sempre gli organizzatori, il lavoro di confronto e scambio di esperienze di vissuti tra loro ha funzionato, ben presto si sono resi tutti molto disponibili all’ascolto e alla conoscenza, mettendo da parte diffidenze e rancori.

 

L’essersi trovati insieme in Italia ha facilitato il loro incontro, la loro conoscenza?

Paolo Cacciari: Mi pare di sì. È andato tutto bene anche grazie alla splendida ospitalità garantita da Emanuele Maspoli, il “locandiere”, sia perché ha già avuto esperienze internazionali di cooperazione, sia perché il Lato azzurro non è solo una casa per vacanze, ma anche un centro culturale e l’atmosfera accogliente e multiculturale è stata davvero decisiva per questa esperienza. Inoltre, questi ragazzi hanno lavorato assieme ai nostri studenti veneziani (impegnati da un anno in questo progetto), dei licei Marco Polo e Giordano Bruno: la presenza e il ruolo dei veneziani sono stati fondamentali, per capire la città, per parlarsi più liberamente, per conoscersi.

Emanuele Maspoli: Tutto era stato predisposto affinché i ragazzi e le ragazze si trovassero accolti e confortati da un programma interessante. Arte, cinema, cucina, sono stati i temi su cui si sono confrontati e ‘scambiati’ esperienze. Il Lato azzurro è loro piaciuto. Non certo per il comfort, che non è a “quattro stelle” (hanno anche condiviso stanze in quattro o cinque), ma per l’atmosfera famigliare, di quiete e serena convivenza che qui si può facilmente sperimentare. E per il verde tutt’intorno, gli spazi d’aria e acqua… Credo sia stato un luogo accogliente. Venezia vista da qui è più bella! Credo si siano affezionati un po’ a noi, come noi sicuramente ci siamo affezionati a loro e ci piacerebbe sapere come stanno, cosa fanno ora che è passato del tempo dall’esperienza e sono così lontani. Alla fine hanno anche giocato a calcio con i ragazzi di Sant’Erasmo… Arbitro della partita di calcio è stato proprio l’assessore alle Politiche giovanili Paolo Cacciari, che ha voluto essere dentro l’iniziativa, vivendone moltissimi momenti di attività o anche solo conviviali.

 

Quali erano le cose che li univano e quali quelle che li separavano?

Paolo Cacciari: I gusti musicali (non so se sia un bene o un male!) mi pare siano molto simili e molto “internazionalizzati” (saranno i media!). Il cibo, invece, è molto legato alle tradizioni e alle stesse religioni. Quindi è stato un piccolo problema (la pizza non piace né ai palestinesi, né agli israeliani!). Le attività sportive (voga, calcio, bici…) uniscono e piacciono. Piace soprattutto camminare per Venezia, andare in vaporetto, godere di un ambiente rilassato e festoso. Almeno così gli è apparsa la città.

Emanuele Maspoli: All’ora dei pasti a dire il vero tendevano un po’ a serrare le fila, a stare divisi per nazionalità. Forse mangiando si rilassavano e avevano bisogno di parlare nelle loro lingue. Tra l’altro il cibo unisce anche se non si vuole. Bastava sedersi a tavola per il menù israeliano per accorgersi di come siano vicini culturalmente i due popoli:  cuscus e falaffel! Musica, gioco, svago, ovviamente la vita notturna, le ore in cui i grandi andavano a letto (!), erano quelle in cui ci si permetteva più rilassamento e reale scambio. Non si poteva dormire tranquilli come di consueto a Sant’Erasmo… L’ultima sera sono arrivati i vicini a chiederci di abbassare il volume della musica da discoteca: la festa s’è spostata dalla veranda al salone, ma non poteva certo essere interrotta! Non c’è niente invece che separi i giovani, di qualunque nazione essi siano. Sarà globalizzazione, sarà che siamo tutti uguali, ognuno dia la risposta che desidera, ma i giovani del mondo sanno stare insieme. I problemi di convivenza non vengono certo da chi manca di interessi economici…

 

Cosa si sono portati dietro dell’ambiente in cui vivono quotidianamente e cosa hanno subito messo da parte?

Paolo Cacciari: Credo siano stati bravissimi a gestire il dramma, la rabbia, i sentimenti di rancore che ognuna delle parti ha dentro di sé e da cui non si può separare. A Venezia si sono portati ognuno la propria storia, i propri desideri, le proprie paure. Si sono parlati a lungo, hanno discusso – anche animatamente – hanno pianto per tutto quello che succede laggiù. Non dovevano fare la pace tra i due popoli. Non spettava e non spetta a loro. Hanno però dimostrato che possono vivere assieme, che possono parlarsi, ascoltarsi – magari non capirsi e non condividere le idee dell’altro. Si sono visti, forse per la prima volta, non come un nemico feroce e astratto, ma come persone, esseri umani. Insomma: sono coetanei che hanno scoperto, alla fine, di assomigliarsi un sacco.

 

L’iniziativa è riproponibile in futuro?

Paolo Cacciari: Noi vorremmo continuare questa esperienza. E gli stessi ragazzi ci scrivono e ci chiedono di riprovarci. Ora stiamo cercando di decidere tutti assieme come, anche perché la situazione in Medioriente è drammatica ed è molto difficile organizzare progetti di scambio.

 

Dopo aver conosciuto questi ragazzi, l’opinione che avevate sulla realtà da cui provengono, qualunque fosse, è mutata?

Paolo Cacciari: Non è tanto l’opinione che è mutata. È il fatto di aver conosciuto questi ragazzi, di aver sentito le loro storie, di averli visti in azione, che forse ci ha dato qualche speranza in più. La società civile di questi due popoli è davvero ricca, le nuove generazioni hanno davvero la possibilità di conoscersi, di voltare pagina.

Emanuele Maspoli: Pur non conoscendo molti israeliani e palestinesi, avevo comunque fiducia nei giovani e nelle persone che avevano deciso di partecipare al progetto. Non è stato facile per loro, non si tratta di un gioco.  In ogni caso una cosa è certa: dopo quest’esperienza mi sento meno ignorante. Chi ha occasioni come queste non può che beneficiarne.

 

Vi risulta che una volta tornati nel loro paese questi ragazzi abbiano ancora la possibilità di sentirsi e di incontrarsi?

Paolo Cacciari: È stata davvero un’esperienza forte per loro, e prima di andare via si sono promessi di tenersi in contatto. Hanno la possibilità di farlo in internet (gli abbiamo messo a disposizione un forum online). Fisicamente laggiù è ancora molto difficile che si possano incontrare. Per fortuna però le loro città sono molto impegnate nelle iniziative di dialogo e di pace.

Emanuele Maspoli: Non credo che si scambino visite reciproche. Si sentiranno nel forum via internet. E si ritroveranno tra un anno di nuovo a Venezia, spero!

 

Siamo in tanti a pensare che solo con la pace tra Israele e Palestina possa avviarsi un serio processo di pace in Medio Oriente.  È stato affrontato questo discorso?

Paolo Cacciari: Il conflitto è tremendo, perché in gioco c’è la vita quotidiana, e tutti hanno paura, tutti hanno ferite aperte, tutti hanno storie di morti e feriti. Tutto questo è uscito dai racconti dei ragazzi, dai lavori di gruppo creativi che hanno prodotto. Hanno scritto alcuni racconti, tutti convinti che un giorno ci sarà pace in quella terra. Altri hanno prodotto immagini e disegni: in uno si vede un frullatore con dentro loro stessi, da mescolare e da versare in un bicchiere con la scritta pace. È bellissimo, perché vuol dire che sono consapevoli e che non hanno perso le speranze.

Emanuele Maspoli: Non si è parlato di politica e di guerra. Sicuramente tra loro sarà accaduto che ci si confrontasse anche su questo, ed è certo che l’argomento sia stato sempre latente e presente… Quando durante la settimana i militari israeliani hanno di nuovo attaccato Nablus e ucciso giovani e bimbi… non è stata una serata piacevole. Ma lo scopo della settimana era quello forse ‘minimo’, ma per me sostanziale, della convivenza e dello scambio di esperienze di vissuti. Questo è stato, ed è riuscito.

Il Progetto è stato organizzato dal Comune di Venezia, con un po’ di denari faticosamente racimolati nel bilancio dell’Assessorato alle Politiche giovanili e Centro pace. Preziosa è stata poi la collaborazione con tutta la rete di associazioni, gruppi e aziende che sono stati coinvolti e che hanno messo a disposizione molti strumenti, mezzi, tempo, energie: dall’Actv ai trasporti Brusutti, da don Franco de Pieri ai Volontari Terzo Mondo-Magis di Mestre, dai giovani delle associazioni Sumo, Terre in valigia, Bussola, alla preziosa disponibilità de Il Lato azzurro.

Cronaca di un “primo ingresso” in carcere

 

È un carcere visto con gli occhi “stupiti” di una visitatrice che si meraviglia per tutte quelle piccole cose incomprensibili, e anche quella massa di piccoli divieti che per un detenuto sono purtroppo di “ordinaria amministrazione” 

 

La testimonianza che segue ce l’ha mandata Nadia, una donna che è stata “ospite” del carcere femminile della Giudecca per qualche ora, per assistere alla presentazione di un libro. Abbiamo deciso di pubblicarla perché, per noi che il carcere lo conosciamo bene, come detenuti e come volontari, è interessante vedere l’impatto che ha con questa realtà una persona totalmente “estranea” e ancora capace di meravigliarsi per certi piccoli assurdi, per certi divieti, per tutto quello che ogni giorno rende così difficile la vita “da galera”.

 

La Redazione

 

Ho scritto a chi di dovere chiedendo di poter assistere alla presentazione di un libro da poco uscito sulle carceri femminili nell’Italia dell’Ottocento. Si tratta del volume di Simona Trombetta dal titolo Punizione e carità. Da tempo sto conducendo una ricerca sulle carceri femminili tra gli anni Sessanta e Ottanta del Novecento, e anche per questa ragione mi interessava partecipare all’incontro. Ho dovuto comunicare con anticipo la mia presenza perché l’evento si svolge all’interno di un carcere, quello femminile della Giudecca a Venezia e qualche ufficio ministeriale deve fare i controlli di rito. Sono quasi le tre del pomeriggio e cammino sulla fondamenta dell’isola della Giudecca. Non so dov’è il carcere, non ci sono mai stata. Non sono mai entrata in nessun carcere finora. Prima di un ponte giro a sinistra e guardo, pensando che è inutile chiedere a qualche passante. Mi dico “Un carcere si vede!”, ma non è così. Fermo un tizio che mi suggerisce di seguirlo: “Devo andarci anch’io” dice. Il penitenziario è a una cinquantina di metri, me lo indica. È un normale palazzo che si distingue da quelli intorno solo per una bandiera italiana issata su un’asta obliqua. Entro. Alla mia destra c’è una piccola stanza dove i “visitatori”, che io immagino siano per lo più i parenti delle detenute, devono fare anticamera, previo controllo di documenti e permessi, in attesa di andare a colloquio. Nella stanza ci sono già altre persone e quando è il mio turno consegno la carta d’identità a un’agente donna che si trova dall’altra parte del muro. Il muro ha una finestra, blindata immagino, che sul lato inferiore ha un aggeggio scorrevole che permette di far passare quasi solo carte. Di fronte a questa apertura, sulla parete opposta, c’è una finestra vera dalla quale si vede il palazzo di fronte e un pezzo di cielo. È alta e ovviamente ha le inferriate. Sotto alla finestra, un vecchio tavolo quadrato forse di formica.  Nella stanza ci sono anche quattro sedie tutte di ferro e il colore scrostato fa affiorare in molti punti la ruggine. Sulla parete di fronte alla porta d’ingresso, è ritagliata un’altra porta attraverso la quale si accede a un bagno. Una volta entrata scopro che non c’è la chiave. Sulla parete col riquadro verde che incornicia il volto dell’agente di turno, c’è una bacheca e, appesi, alcuni avvisi tutti destinati ai parenti. Uno datato 28-12-’96 recita “Si ricorda ai Sig. Parenti che dal primo gennaio 1997 verranno accettate come documenti solo le carte d’identità (né passaporto, né patente)”. Mi lascia perplessa l’impossibilità di usare il passaporto, documento col quale – anche dopo il tristemente noto 11 settembre – si gira il mondo. Mi chiedo perché. Appesi alla bacheca ci sono poi altri due fogli, molto grandi. Si tratta di lunghe tabelle. La prima porta il titolo Tabella n. 1 Generi vittuari e di vestiario consentiti”. La seconda invece Tabella n. 2 Generi vittuari non consentiti”. Mi metto a leggere e la stranezza di quegli elenchi mi convince a prendere qualche appunto. Nei pacchi che i familiari possono far giungere alle loro congiunte recluse, la frutta secca e la frutta esotica sono tabù così come “tutta la frutta non inclusa nei generi consentiti”. Cerco allora nella tabella n. 1, quella appunto dei generi consentiti, e leggo che solo mele e pere vanno bene. Mi chiedo perché una banana, una pesca o una prugna, per esempio, non possono oltrepassare le mura del carcere. Fra i generi non consentiti poi ci sono “dolci, torte, panettoni farciti e no”. Che stranezza! Niente panettoni, anche quelli senza uvetta e canditi, ma sono concessi i pandori. Nemmeno il pane, i pomodori, la cipolla e l’aglio possono entrare così come il sale, le olive e le sardine salate. Nessuna bibita alcolica o analcolica. No ai succhi di frutta, ai biscotti, al caffè, allo zucchero. Mentre capisco la ragione per cui “cibi conservati in vasetti di vetro e/o di metallo” sono vietati, e dunque anche “marmellata, mostarda e nutella”, mi è più difficile comprendere perché il divieto sia esteso anche agli “alimenti integrali in genere”. Per completare l’elenco, sono vietate “creme, salse, minestre preparate”, “mais e cibi liofilizzati” (perché il mais?), “cibi in polvere o in buste sigillate”, “pasta cruda, riso cotto e non”, “tutti i tipi di formaggio molle comprese le sottilette”, e poi uova e funghi siano essi cotti o crudi. Mi è mancato il tempo per annotare i generi vittuari e di vestiario consentiti. Qualcosa però me lo ricordo: la carne cotta può entrare e così gli affettati. Dei vestiti ricordo solo che è consentito l’accappatoio però senza cintura, mentre le scarpe devono essere senza lacci e se invece ne sono dotate debbono però essere molto corti. Ci chiamano, è ora di entrare. Lascio la sala d’attesa, con i muri, che dovrebbero essere bianchi, e sono invece a metà fra il grigio e il giallo sporco, qua e là qualche frase incisa forse con una chiave. Siamo venti, venticinque a voler entrare per assistere alla presentazione del libro. Si apre il cancello blindato e facciamo ingresso in una stanza che fa fatica a contenerci tutti. Siamo costretti a sostare lì, tutti insieme, perché dobbiamo riporre le nostre cose (ad eccezione di libri, quaderni e penne) all’interno di alcuni armadietti. Mentre attendiamo di avviarci verso la sala predisposta all’incontro, sento una donna che, osservando il giardino interno all’istituto di pena attraverso una finestra, dice ad altre due “è emozionante entrare in questo carcere”. Mi mette a disagio l’uso della parola “emozionante”, come se ci si trovasse di fronte a un capolavoro pittorico o architettonico di qualche capitale europea: “Signori e signore iniziamo il nostro galera-tour”. Una agente ci fa strada. Si apre un altro cancello automatico oltrepassato il quale, dopo due o tre metri, saliamo una rampa di scale. Giungiamo a un corridoio e, attraversatolo in larghezza, di fronte a noi si apre una sala conferenze. È lunga, piena di sedie rosse da regista. Fuori dalla porta restano quattro o cinque agenti.

 

Quella distanza, quello scollamento così evidente tra chi in carcere è costretto a vivere e chi invece sceglie di entrarci per qualche ragione

Mi metto seduta ad una estremità della quinta o sesta fila che è completamente vuota. Dopo cinque minuti arrivano alcune detenute. Sono giovanissime, sui vent’anni. Una si infila vicino a me lasciando però fra noi una sedia vuota. Le sue compagne non ci stanno tutte e le dicono di scalare di un posto. Lei tergiversa per qualche secondo e ho la netta sensazione che avvicinarsi a me la imbarazzi. Poi lo fa, io le sorrido, lei ricambia ma abbassa lo sguardo. Adesso sono io a sentirmi in imbarazzo. Per tutto il tempo della presentazione del libro lei resta seduta di sbieco, rivolta verso le sue compagne e dandomi in parte la schiena. Tutte le ragazze che si sono sedute nella mia fila – e qualche altra detenuta seduta nei posti che mi stanno davanti – indossano delle tute da ginnastica. Altre invece, di quelle più vecchie (quaranta, cinquant’anni), sono tiratissime: gonne, camicette o maglie eleganti, così come le scarpe. La gran parte delle donne recluse io la vedo da dietro e rimango colpita dalle loro acconciature. Molte sembrano appena uscite dal parrucchiere. I colori dei capelli sono brillanti, è evidente che la gran parte si fa la tinta e a nessuna di loro si vede la crescita. I tagli sono ben fatti e le pettinature anche. Penso che forse in galera il tempo da dedicare a se stesse lo si trova e la cura della propria persona è fondamentale, un modo di “tenere” e di “tenersi” insieme, di resistere quindi. Le detenute parlano fra loro e io mi chiedo se è concesso a noi “visitatori” scambiare con loro parole. Ad un certo punto sento il pianto di un bimbo in sala, mi volto e vedo che qualche fila dietro di me è seduta una giovane zingara che tiene in braccio un bimbetto di un anno circa. Per tutta la durata della presentazione del libro resterà in sala rumoreggiando ogni tanto, e a me viene da ridere perché qualche volta le relatrici devono alzare il tono della voce per superare i vocalizzi di protesta del bebè. Il dibattito inizia. Introduce la direttrice e, a seguire, si succedono gli interventi del professor Paolo Macrì, della professoressa Lucetta Scaraffia, e della dottoressa Simonetta Matone, sostituto procuratore presso il Tribunale dei minorenni. Si parla del libro, del suo contenuto ma se ne elogia molto anche la scrittura. Il libro è da leggere perché restituisce, ricostruendo anche alcune situazioni particolari, le dinamiche attraverso le quali si sono formate in Italia le prime carceri femminili. Naturalmente le suore, unico personale femminile a cui lo stato italiano delegava la custodia delle detenute, occupano lo spazio centrale del racconto. Le relatrici si soffermano molto sul ruolo svolto da questo personale religioso. Ci sono tre suore sedute quasi alla fine della sala e spesso, quando si parla delle loro antiche consorelle, le relatrici rivolgono a loro lo sguardo. A dire il vero questo elogio, talvolta davvero sperticato, della loro funzione mi lascia perplessa. Personalmente ho raccolto testimonianze diverse nell’ambito delle mie ricerche. Suore dure, ligie ai regolamenti, figure di potere, e suore invece  “disubbidienti”, elastiche e solidali. L’autrice decide di intervenire solo alla fine lasciando che le persone del pubblico formulino qualche domanda. Interviene per prima una giornalista della redazione di “Ristretti Orizzonti”. Pure lei è poco convinta della sottolineatura solo in positivo della funzione delle suore e si chiede se non si debba riflettere anche sugli effetti più contraddittori di questa presenza. Interviene poi una donna detenuta. È italiana e parla della sua esperienza carceraria in Germania. Contesta che oggi il carcere, e in generale il sistema penale, nei confronti delle donne sia meno punitivo, come invece pare essere stato nel corso dell’Ottocento, quando l’idea che la donna fosse più debole dell’uomo paradossalmente aveva suggerito una sua minore imputabilità. Il dibattito finisce con applausi. Le detenute hanno ascoltato, battuto le mani, hanno riso a qualche battuta dei relatori e qualche volta hanno borbottato. Mi alzo dalla sedia e ripercorro la strada verso l’uscita. Sono un po’ stranita. Per un’ora e mezza forse più si è parlato di carceri ottocentesche, di suore, di congregazioni, di concezioni della pena consacrate da Lombroso, ma non è un caso che mormorii e battute di mano delle detenute  scattassero quando la discussione coglieva aspetti legati al presente. Ho avvertito anche fisicamente una sorta di scollamento dentro/fuori, fra chi in carcere è costretto a vivere e chi invece sceglie di entrarci per qualche ragione. Linguaggi diversi, abbigliamenti diversi, sguardi diversi. Ma era la mia prima volta e forse molte cose non le ho capite. Restituisco la chiave dell’armadietto dopo aver ritirato la mia borsa, mi viene riconsegnata la carta d’identità e aperto il blindato. Oltrepasso il portone. Sono libera.

 

Nadia Caldieri

Punizione e carità: Carceri femminili nell’Italia dell’Ottocento

 

L’Ottocento è il secolo in cui, anche in Italia, la prigione si avvia ad essere l’asse portante del sistema punitivo, tanto per gli uomini quanto per le donne, ma per il genere femminile la reclusione assume contorni diversi. Simona Trombetta, autrice di un libro da poco uscito presso la casa editrice “il Mulino”, dal titolo Punizione e carità. Carceri femminili nell’Italia dell’Ottocento (23 euro), racconta dove, come e quando nacquero in Italia i primi istituti di pena riservati alle donne e ne descrive i meccanismi di funzionamento. Mettendo in luce gli stereotipi e gli immaginari di cui si nutrì il dibattito intorno alla figura della “donna delinquente”, l’autrice ricostruisce anche come la particolare “natura” delle donne e dei loro delitti, così come venne intesa dalla cultura criminologica nel corso del secolo, influì sulle dinamiche del loro internamento. Le “criminali” non erano considerate intenzionali autrici di delitti ma peccatrici, donne che si lasciavano traviare. Non commettevano veri e propri reati, ma violavano la morale dominante allontanandosi dalla loro presunta vocazione materna, familiare. Scrive la Trombetta: “Se l’immoralità maschile era una minaccia, quella femminile era sentita ben più pericolosa, perché andava a indebolire alle radici il buon ordine complessivo della società. I delitti delle donne, in altre parole, erano percepiti più come una questione di morale che di diritto: mentre allora nel caso degli uomini ad esser punite erano le trasgressioni rilevanti dal punto di vista penale, nelle donne era la non accettazione del proprio ruolo ad essere stigmatizzata più del gesto criminale in sé”. Così con la reclusione ci si preoccupava non tanto di punirle, quanto di rieducarle, di allontanarle dalla corruzione morale, dalla trasgressione attraverso il lavoro, ma soprattutto attraverso l’educazione pia e la pratica religiosa. Come custodi ideali furono scelte le suore che governarono gli stabilimenti penali secondo regole in cui la punizione si mescolava alla carità, con l’effetto che le carceri femminili assomigliarono sempre di più a dei conventi. Anche di questo parla il libro, del ruolo di questo personale religioso riunito in Congregazioni dedite all’assistenza, che proprio durante l’Ottocento si organizzarono e si moltiplicarono.

 

 

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