Parliamone

 

“Lavorare con le persone detenute e non per le persone detenute”

 

E soprattutto lavorare insieme, per progetti coordinati e condivisi. Ma a frenare questo percorso c’è spesso una difficoltà ad uscire dal sé per ragionare e agire nell’ottica del noi, una inerzia che è talmente radicata da rappresentare, di fatto, uno dei maggiori ostacoli all’affermarsi del “lavoro di rete”

Il concetto di empowerment (letteralmente: “favorire l’acquisizione di potere”, ovvero “accrescere le possibilità dei singoli e dei gruppi di controllare attivamente la propria vita”) si è sviluppato in psicologia di comunità per indicare “i processi attraverso i quali i cittadini svantaggiati possono acquisire maggiore potere tramite la partecipazione in associazioni”. Nello specifico penitenziario, spiega la psicologa e criminologa Sonia Ambroset nel suo libro Pagine sul metodo, pagine sul carcere, l’empowerment va sostanzialmente inteso come “un modo di produrre cambiamento nella forma di un aumentato accesso alle risorse per le persone detenute”, che vengono aiutate a “raggiungere abilità in termini di saper fare, di sapere e di saper essere”. Si innesca così un processo di umanizzazione del carcere, in cui il detenuto viene indotto a superare la sua condizione di rassegnata passività per assumere l’unico ma comunque importante “potere” che la sua condizione gli concede: quello cioè di “sostenere in modo competente i propri diritti pur in un regime di privazione di libertà”. Ma lavorare in carcere nell’ottica dell’empowerment, chiarisce nel suo libro la psicologa milanese, significa anzitutto “attuare un primo, fondamentale cambiamento nella cultura operativa di tutti” (operatori, volontari, detenuti), che consiste essenzialmente nell’imparare a “lavorare con le persone detenute e non per le persone detenute”. Per l’interesse dell’argomento, ma anche per l’evidente sintonia esistente fra l’esperienza concreta di Ristretti Orizzonti (rivista nata con i detenuti e via via cresciuta con i detenuti) e le idee propugnate da Sonia Ambroset, dopo aver affrontato con lei in redazione la questione del ruolo del “tutor” (Ristretti Orizzonti numero 5/2004), questa volta abbiamo parlato dei molti, stimolanti spunti di riflessione offerti dal suo libro.

 

Di corsi di formazione che non conducono a niente ce ne sono già troppi, è inutile inventarne altri

 

Ornella Favero (Ristretti): Vorremmo iniziare cercando di approfondire il discorso sull’empowerment, e sul lavorare con i detenuti, in particolare in relazione alla formazione. Che cos’è, secondo lei, che spesso non funziona nella formazione in carcere, visto che, allo stato attuale, il concetto di “lavorare con i detenuti” non è granché condiviso, e tanto meno praticato?

Sonia Ambroset:  Prima di parlare di cosa non va nella formazione in carcere, forse sarebbe opportuno chiarirsi le idee su come dovrebbe funzionare per assolvere efficacemente al suo scopo. Mettiamo il caso che io, cooperativa del terzo settore, abbia a disposizione un certo numero di detenuti di questo istituto penitenziario e intenda organizzare con loro dei corsi di formazione… Beh, come primo passo, piuttosto di mettermi a immaginare in separata sede il mio corso di formazione, penso che dovrei venire qui, in mezzo ai detenuti, per cercare di capire quali sono le loro vere aspettative e per valutare in concreto le loro attitudini. In secondo luogo dovrei aiutarli a capire quale collegamento effettivo può esistere fra i loro interessi e quanto offre il mercato del lavoro esterno, perché su una cosa non ho dubbi: il mio corso di formazione dovrà porsi l’obiettivo di aiutare i detenuti a trovare davvero un lavoro fuori dal carcere. Diciamocelo chiaro: di corsi di formazione professionale che non conducono a nessun lavoro ce ne sono già troppi, nelle carceri italiane, inutile mettersi a inventarne degli altri. Ma se vogliamo parlare dell’empowerment nell’ottica della formazione, dobbiamo anzitutto imparare a ragionare in termini di co-progettazione. E quindi pensare a un modo di lavorare per progetti, in cui l’analisi della richiesta, la produzione di idee, la fase iniziale del lavoro e i suoi successivi sviluppi si svolgano fin dall’inizio con i detenuti. Ma non solo con i detenuti, scusatemi… In un gruppo di lavoro di questo tipo io credo che debba essere coinvolto qualche operatore del ministero, ma anche qualche agente,  perché – inutile nasconderselo - se gli agenti sono coinvolti nell’elaborazione di un progetto ne renderanno poi più agevole l’attuazione. L’obiettivo, comunque, deve essere di dar vita a percorsi di formazione professionale che siano davvero spendibili sul mercato del lavoro. Credo che il criterio della co-progettazione, se applicato con metodo e concretezza, ci salvaguarderebbe dal rischio di investire ulteriori energie e risorse in strade senza sbocco.

 

La preparazione teorica posso farla anche qui, ma l’esperienza concreta devo farmela fuori

 

Paolo Moresco (Ristretti): Co-progettazione, se ho ben capito, anche come precondizione per proiettare il percorso formativo oltre le mura del carcere. Nel suo libro, infatti, lei spiega che scopo della sua proposta è quello di contribuire al passaggio “dalla formazione come strumento di contenimento e di rieducazione, e quindi come uno strumento del tutto interno al carcere, a una concezione della formazione come vero e proprio strumento finalizzato al reinserimento sociale”.

Sonia Ambroset: Certo, tutto ciò si traduce anche nella possibilità di fare formazione fuori dalla galera. Che ci sia una proliferazione di corsi fatti all’interno del carcere da un lato mi sta bene, perché costituiscono delle indubbie opportunità di impegno per chi è dentro, ma credo che si debba anche ragionare in una prospettiva esterna, pensando che i detenuti prima o poi possano accedere a corsi di formazione e ad esperienze di tirocinio extracarcerarie. Insomma: la preparazione teorica posso farla anche qui, in un’aula del carcere, ma l’esperienza concreta di lavoro, perché abbia senso e davvero mi sia utile, devo necessariamente farmela fuori. Per questo ritengo che dovrebbero essere introdotti dei permessi finalizzati proprio alla presa di contatto con il mondo del lavoro esterno. Sotto il profilo normativo credo che ci sia già la possibilità di accedere a simili permessi di avviamento al lavoro, ma manca un contesto progettuale in cui inserirli e finalizzarli. Allo stato attuale, come ben sapete, il più delle volte chi promuove delle attività in carcere punta poi a creare una cooperativa finalizzata, che so, alla gestione del  verde all’interno dell’istituto. E va bene anche questo, per carità, perché contribuisce comunque ad allargare le opportunità di lavoro dei detenuti, ma perché non pensare di più ad attività che abbiano una reale proiezione esterna?

 

Il carcere fa male anche a quelli che vengono da fuori per lavoro, perché tende a inglobare verso il dentro

 

Marino Occhipinti (Ristretti): C’è una circolare sul trattamento, una delle ultime, che parla appunto di coordinare tutte le attività, perché altrimenti ciascuno finisce per limitarsi a curare il proprio orticello. E l’inflazione di attività scollegate l’una dall’altra si traduce molto spesso in un impiego di risorse disordinato e sproporzionato rispetto ai risultati concreti.

Sonia Ambroset: Questo appunto è il limite che io vedo nel lavoro per progetti, così come si va manifestando oggi. Va chiarito però che possiamo parlare di limiti perché finalmente c’è almeno un tentativo di lavorare per progetti. Ricordo che vent’anni fa eravamo ancora lì ad aspettare che qualcuno entrasse in carcere e proponesse qualcosa da fare, mentre ora le iniziative non mancano, e il problema è semmai quello di inquadrarle in una strategia più razionale ed efficace. Questo riconoscimento non ci deve però far velo, impedendoci di vedere quello che non funziona correttamente nell’applicazione pratica di criteri sicuramente validi. Non bisogna dimenticare che il carcere fa male a tutti, anche a quelli che vengono da fuori, perché tende a inglobare verso il dentro. È omnipervasiva, la galera: per i detenuti, ma anche per gli operatori. Questo bisogna sempre tenerlo presente, se non si vuol correre il rischio di teorizzare il nuovo e di ritrovarsi poi, sospinti dall’inerzia del sistema, a ripercorrere le strade di sempre.

 

Coordinare, nella dimensione penitenziaria, è difficilissimo

 

Nicola Sansonna (Ristretti): D’altra parte mettere in piedi un’attività fuori del carcere non è un’impresa da poco.  Prendere una stanzetta e mettere sette o otto detenuti a lavorare qui in carcere è un conto, impiantare un’attività all’esterno del carcere è enormemente più complesso, sia  in termini di costi che di organizzazione…

Sonia Ambroset: È vero, ma fino a un certo punto. Faccio presente infatti che il più delle volte è un’impresa anche riuscire a mettere insieme attorno a un tavolo, una volta ogni tre mesi, tutti quelli che lavorano all’interno del carcere. Coordinare, nella dimensione penitenziaria, è difficilissimo. E ne ho avuto un’ennesima prova qualche anno fa, a Milano, quando il carcere di Bollate ha cominciato a funzionare a buon regime e mi è stato chiesto di dare una mano a creare un “tavolo delle associazioni e delle cooperative” allo scopo, appunto, di coordinare le varie attività. E coordinare, in quel caso, significava anche e forse soprattutto stabilire un contatto fra i molti operatori e volontari impegnati nelle diverse attività, perché spesso lavoravano a poca distanza l’uno dall’altro senza neppure conoscersi, con il risultato che i progetti rischiavano di sovrapporsi e intralciarsi l’uno con l’altro, con evidente confusione e spreco di energie. Per un anno e mezzo mi sono assunta il compito di garantire il coordinamento fra le varie attività, e il lavorare insieme, in un’ottica comune e condivisa, ci ha permesso di arrivare a un minimo di programmazione e di organizzazione razionale dei progetti formativi. Poi purtroppo tale collaborazione non ha potuto continuare, e in pratica si è tornati al punto di partenza. E non perché io, Sonia Ambroset, in quel ruolo fossi insostituibile, ma perché quel ruolo di coordinamento, di terzietà sia rispetto all’istituzione carcere che rispetto alle associazioni che io ricoprivo, è indispensabile se si vuole dare una programmazione e un respiro strategico ad attività di questo tipo. Dopo tanti anni di esperienza mi sono infatti persuasa che le associazioni e tutti quelli che operano dentro il carcere tendono alla fin fine, comunque, a lavorare nel proprio orticello, anche perché ciascuno dentro di sé è convinto, in assoluta buona fede, di fare la cosa migliore. Ma questo è un atteggiamento che entra in rotta di collisione con la logica del lavorare insieme, perché lavorare insieme vuol dire anche mettersi personalmente in gioco ed assumere un atteggiamento critico nei confronti di quello che si è abituati a pensare e a fare. E non è un’operazione tanto semplice, per nessuno. Tant’è che a parole tutti sono d’accordo, a mettersi in discussione, ma poi, alla prova dei fatti, sono ben pochi coloro che si sforzano davvero di inquadrare se stessi e il proprio ruolo nella logica del lavorare insieme, per progetti coordinati e condivisi. Quest’inerzia, questa difficoltà ad uscire dal sé per ragionare e agire nell’ottica del noi, è talmente radicata da rappresentare, di fatto, uno dei maggiori ostacoli all’affermarsi del “lavoro di rete”. Tanto più in Italia, dove – e non me ne vogliano i credenti, ma è un dato oggettivo – si è più portati che altrove, per tradizione antica e dura a morire, a lavorare “per parrocchiette”. Siamo infatti perlopiù invischiati in logiche comportamentali antiche, molto difficili da sradicare. Ma tanto più per questo è necessario a mio avviso – per tornare all’esigenza prima affermata di una pianificazione per progetti delle attività – che si affermi all’interno delle carceri un ruolo “terzo”, come quello che prima raccontavo di aver svolto a Bollate. Riconosco tuttavia che non è facile trovare persone disposte ad assumersi una funzione che richiede una certa preparazione, ma soprattutto capacità d’iniziativa e continuità d’impegno (e quindi tempo) senza offrire nessun riscontro di tipo finanziario. Una soluzione potrebbe essere che questo ruolo di “gestori dei tavoli” se lo assumessero gli educatori, ma per mille motivi che non sto qui a elencare ho l’impressione che non abbiano alcuna possibilità di farsi carico anche di un impegno di questo tipo.

 

Sono assolutamente convinta che tutti possiamo lavorare per progetti

 

Nicola Sansonna: È singolare che un discorso del genere lo faccia lei, che per qualifica professionale è una psicologa-criminologa. Mi pare infatti, il suo, piuttosto un taglio da sociologa: mettere in contatto le persone, indurle a confrontarsi e a cooperare…

Sonia Ambroset: In realtà state parlando con una persona che non crede nei ruoli e nelle discipline. E infatti, indipendentemente da questo o quel ruolo, è il lavoro di rete che ci riguarda tutti: cioè un modo nuovo di operare, che è basato essenzialmente sul lavoro per progetti. Nessuna categoria professionale è abilitata in quanto tale a lavorare per progetti, e nessuna ne è esclusa. Lavorare per progetti è anche, e in un certo senso soprattutto, un’attitudine personale, come singolo individuo; non è un problema legato a ruoli professionali, insomma: ciascuno di noi può avere un suo ruolo, nella logica del lavoro per progetti, nessuno ne è tagliato fuori in partenza perché non “titolato”. E questo, nello specifico carcerario, vale per tutti: per l’operatore istituzionale, per il volontario, per il detenuto, per me che sono psicologa… L’attitudine a lavorare per progetti non ha insomma niente a che fare con la formazione professionale specifica, ha a che fare, invece, con una impostazione di lavoro inquadrata in una logica strategica. E infatti esistono fior di professionisti del tutto incapaci di lavorare in rete e persone non identificabili in una competenza professionale specifica che, invece, sanno imprimere al loro operato una dimensione strategica. Sono assolutamente convinta che tutti, proprio tutti, possiamo lavorare per progetti. E sono nondimeno convinta che questo sia, oggi, l’unico modo serio e davvero efficace di lavorare. Non credo più nel professionista singolo, che si identifica completamente e solo nella sua qualifica professionale, nel suo “titolo”. Ciò non toglie che io, psicologa e criminologa, continui a essere – e a fare - la psicologa e la criminologa quando lavoro per progetti. Non è insomma che rinunci al mio ruolo professionale, perché lavoro così: al contrario, credo di renderlo più attuale, e soprattutto più utile.

 

La logica con cui ho sempre lavorato in carcere non è quella della denuncia

Ornella Favero: Nel suo libro ho trovato altri spunti a mio avviso di notevole interesse. Mi riferisco, anzitutto, a quanto lei afferma sulla scarsa attenzione che viene prestata agli aspetti della comunicazione interna, argomento a cui noi di Ristretti Orizzonti - per la specificità del nostro lavoro - siamo evidentemente particolarmente sensibili. Un secondo tema su cui vorrei chiederle qualche ulteriore riflessione è la funzione di garanzia dell’operatore, molto difficile da definire prima ancora che da realizzare. Noi che facciamo un giornale, per esempio, siamo chiamati ad avere ben chiara la linea, spesso sottile e sfuggente, che separa l’azione di garanzia dalla denuncia. Io cerco di chiarire sempre che, con la nostra rivista, ci battiamo per i diritti delle persone detenute: non puntiamo insomma a fare un giornale di denuncia, ma ad avere un ruolo di tutela dei diritti e quindi di garanzia. Ma è un concetto un po’ difficile, lo so, e proprio per questo mi piacerebbe che lo sviluppassimo insieme.

Sonia Ambroset: Sto pensando che giusto ieri sera un gruppo di volontari che opera in carcere da molto tempo mi ha chiesto un po’ di aiuto per riflettere insieme sul loro lavoro. I loro dubbi, in particolare, riguardano cosa devono o non devono fare quando hanno la chiara percezione di trovarsi di fronte a lesioni di diritti di singole persone. Io non so dire, in generale, cosa si possa o si debba fare nei singoli casi, perché su di essi bisogna necessariamente ragionare volta per volta. La logica con cui ho sempre lavorato in carcere, però, non è mai stata quella della denuncia, che il più delle volte non conduce a nulla. Ho sempre pensato che, se si è messi al corrente dai detenuti di cose che non vanno, occorre anzitutto verificarle insieme agli stessi detenuti, quelle cose. E verificarle vuol dire anche sforzarsi di capire perché sono avvenute e cosa si può concretamente fare (come detenuti, come operatori, come associazioni) per evitare che avvengano ancora in futuro.  Faccio un esempio, che riguarda un’esperienza che abbiamo fatto qualche anno fa a San Vittore, quand’era sorto il problema della cronica carenza di lenzuola e carta igienica. Scartata l’ipotesi di assommare alle proteste dei detenuti quelle di noi volontari e operatori (c’è sempre qualcuno che propone di fare una bella manifestazione davanti al carcere, con tanto di cartelli – ma a che serve?), abbiamo pensato che la cosa più sensata fosse organizzare un lavoro d’indagine combinato fra gruppi di detenuti, dentro, e noi operatori, fuori, allo scopo di individuare i “colli di bottiglia” che rendevano così problematica la distribuzione di lenzuola e carta igienica. Alla fine della nostra ricognizione, che è stata molto attenta e che ci ha portati a individuare le cause del problema, abbiamo mandato al direttore di San Vittore una lettera in cui, in tono cortese e collaborativo, facevamo presente non tanto il problema in sé quanto la sua possibile soluzione, attraverso un idoneo intervento sugli “imbuti” che soffocavano la distribuzione delle lenzuola e della carta igienica. Insomma, in quell’occasione siamo passati dalla denuncia alla segnalazione e descrizione di un problema, e alla conseguente chiamata di responsabilità di chi davvero era in grado di controllare e intervenire. In linea generale, sono persuasa che imparare a lavorare per problemi sia un modo concreto ed efficace di uscire dalla logica a volte velleitaria della denuncia e di intervenire sulle singole questioni con competenza e capacità propositiva. Se ci si muove così, è difficile che la propria voce resti inascoltata.

     

Paolo Moresco: Agendo in questo modo, peraltro, non si rischia di toccare la suscettibilità di questo o di quello: perché non si denuncia una “colpa”, ma si sottolinea prima di tutto una causa oggettiva, che è cosa ben diversa.

Sonia Ambroset: E alla fin fine è proprio questo, il meccanismo che punta a innescare l’empowerment. Facciamoci questa domanda: preferiamo continuare a compatire i detenuti, a parlare in termini di denuncia di ogni disfunzione del sistema a cui sono soggetti, o preferiamo invece renderli competenti, mettendoli nella condizione di analizzare i problemi e di concorrere attivamente alla loro soluzione? Sonia Ambroset, criminologa e psicologa, lavora nel settore penitenziario e svolge attività di consulenza e di formazione presso diverse organizzazioni pubbliche e private. Tra i suoi lavori: Numero oscuro della devianza e questione criminale (in collaborazione), 1980; Criminologia femminile: il controllo sociale, 1984; Tra aiuto e controllo, Servizio sociale e giustizia penale, 1984

Certe esplosioni di violenza sono la spia di

un malessere diffuso che riguarda la generalità dei detenuti

In un’intervista al direttore, Salvatore Pirruccio, una fotografia della

Casa di reclusione di Padova e dei piccoli e grandi disagi della vita in galera

 

Non è un carcere modello, ma non è nemmeno “una galera” come ce n’è tante in Italia, con letti a più piani e gente che passa in branda buona parte della carcerazione: la Casa di reclusione di Padova è considerata un carcere “decente”, e la decenza forse è il massimo che ci si possa aspettare dagli istituti penitenziari del nostro Paese. Però se a livello nazionale si tagliano i fondi per la sanità in carcere e se i numeri del personale che dovrebbe occuparsi del cosiddetto “trattamento” e del reinserimento delle persone detenute sono oggi ridicoli, è evidente che anche a Padova si comincia a stare male, cresce la tensione e il clima è a volte pesante. L’ultimo fatto, ne abbiamo già parlato nel numero di dicembre del nostro giornale, è stato l’aggressione subita da un’educatrice, a seguito della quale rischiava di innescarsi una perversa dinamica tipicamente carceraria, per cui per un fatto grave, commesso da una persona, si decide di punire tutti peggiorando le condizioni generali di vita: “Colpiscine cento per non rieducarne nessuno”, potrebbe definirsi questa politica ricorrente e insopportabile. Abbiamo pensato allora che valesse la pena affrontare la questione in modo chiaro e diretto, e abbiamo chiesto al direttore di venire in redazione a parlare di questi temi. Il direttore ha accettato.

 

Ornella Favero: Vorremmo iniziare la discussione comunicandole la nostra intenzione di creare un foglio di informazione da distribuire a tutti i detenuti della Casa di reclusione di Padova. L’idea, insomma, è di tentare di colmare almeno in parte quel vuoto di comunicazione fra istituzione-carcere e detenuti che spesso, purtroppo, finisce per diventare l’anticamera di sospetti, di “voci” incontrollate, di allarmismi che potrebbero essere evitati con vantaggio di tutti. Ne abbiamo avuto un triste esempio qualche settimana fa, quando è avvenuta l’aggressione a un’educatrice da parte di un detenuto. Un episodio grave, che tutti ci siamo trovati concordi nel condannare, qui in redazione. Però informare vuol dire mettere in luce anche l’altra faccia della medaglia: riconoscere cioè che certe pur intollerabili esplosioni di violenza sono la spia di un malessere diffuso, che riguarda la generalità dei detenuti. Non è per cattiva volontà di nessuno, ma è un fatto che qui a Padova, allo stato attuale, ci vogliono ventidue mesi per vedersi chiudere una sintesi… 

Marino Occhipinti: Io credo che sappiamo tutti che se ci vuole tanto tempo a chiudere una sintesi la colpa non è di questo o di quell’operatore, ma della sempre più grave carenza di personale, due educatori per 750 detenuti. Io penso però che se i detenuti fossero informati di più, se queste cose gli venissero dette chiaramente, si avrebbero delle reazioni più ponderate. La verità è, invece, che queste cose in sezione si vengono a sapere per sentito dire, e che quindi finiscono per caricarsi di inevitabili “tossine”. Il foglio di comunicazione con i detenuti a cui stiamo pensando potrebbe essere molto utile perché – fornendo informazioni serie e documentate – troncherebbe sul nascere le distorsioni, le esagerazioni, le speculazioni più o meno consapevoli.

Direttore: L’idea di un foglio informativo, che faccia sapere ai detenuti come stanno effettivamente le cose, mi sembra utile. Ci sono situazioni che è certamente un bene che vengano portate a conoscenza di tutti, perché è nell’interesse di tutti che non si creino incomprensioni e fraintendimenti dannosi. L’informazione, d’accordo con voi, aiuta la comprensione reciproca e quindi abbatte i conflitti. Se studiate un foglio periodico improntato a questo spirito, da far girare fra i detenuti, avete fin d’ora la mia disponibilità a periodiche occasioni di confronto con voi.

 

Ornella Favero: Volevamo parlare con lei anche di alcuni disagi che ci sono attualmente qui in carcere, naturalmente proponendoci per quello che siamo, cioè un organo di informazione e non certo una rappresentanza sindacale dei detenuti. Proprio a seguito dell’episodio appena ricordato, per fare un esempio particolarmente attuale, si è venuta a determinare per qualche giorno una situazione di tensione generalizzata, in cui tutti si sono sentiti coinvolti. Noi pensiamo che quando avvengono fatti del genere occorrerebbe distinguere chiaramente le responsabilità, evitando che il clima si incattivisca a svantaggio di tutti. Siamo anche convinti che ci sia uno stato di disagio forte, dovuto a una condizione delle carceri sempre più pesante per mancanza di personale e di risorse. Il clima è peggiorato, e notevolmente, e ce ne accorgiamo tanto più quando la vita del carcere è scossa da episodi anomali e allarmanti come l’aggressione all’educatrice. Si ha la sensazione che l’istituzione, colpita, si difenda inasprendosi nei confronti della generalità dei detenuti, che con quell’episodio non c’entrano e che anzi in larga maggioranza lo biasimano.

Direttore: Sono del tutto d’accordo, tant’è che nei giorni immediatamente successivi all’episodio ricordato ho indetto una riunione con tutti coloro che frequentano il reparto della scuola (nel cui ambito è avvenuto l’episodio ricordato), in cui ho detto chiaramente che la responsabilità è sempre personale, ma che comunque si gradiva un comportamento più corretto da parte di tutti. Voglio ricordare, peraltro, che quello della responsabilità personale - secondo cui nessuno può essere chiamato a rispondere di colpe non sue - è un principio costituzionalmente garantito. In ogni caso non possiamo dimenticare che questo è un carcere e che qui vige un regime di custodia, in cui c’è uno che guarda e uno che viene guardato. Ed è inevitabile, di conseguenza, che se succede qualcosa quello che guarda abbia una prima, istintiva reazione di inasprimento nei confronti di quello che è guardato. Ma sto parlando, sia chiaro, di “stati d’animo”, perché il principio della responsabilità personale deve essere comunque garantito, anche nell’immediatezza di fatti incresciosi come quello a cui abbiamo accennato. In queste situazioni, comunque, bisogna fare in modo che prevalgano la misura e il buon senso, da parte di tutti, perché tutti abbiamo l’interesse a che la convivenza fra personale penitenziario e detenuti si rassereni, e al più presto. L’importante è che in tutti sia sempre chiaro un concetto: un clima meno teso lo si può ottenere soltanto con un comportamento di collaborazione e di reciproco rispetto, perché se uno mi guarda – come dicevo prima – e io sono il guardato, il controllato, o metto il controllore nella condizione di svolgere il suo compito con serenità, oppure innesco un clima di tensione che poi si ripercuoterà fatalmente anche su di me. So io per primo che la  repressione fine a se stessa non ha nessun senso, e che anzi fa danno; so anche però che, nell’immediatezza di un fatto che turba gravemente la vita carceraria, un iniziale irrigidimento è inevitabile. Quello che più mi preme, in questo momento, è capire a che punto di conflittualità siamo arrivati. E così, dividendomi fra il mio ufficio e l’ufficio Comando, ogni giorno faccio scendere detenuti un po’ “problematici” e parlo con chiarezza con loro. Il mio principale obiettivo, in questo momento, è fargli capire che qui si deve convivere in un clima di collaborazione e di rispetto reciproco. Vedete, l’episodio a cui abbiamo accennato è particolarmente grave perché vittima dell’aggressione non è stato un agente (il che sarebbe comunque deplorevole, d’accordo, ma si inserirebbe tuttavia nel classico conflitto fra “guardie e ladri”), ma un’educatrice, e cioè una figura umana e professionale che il detenuto dovrebbe vedere come un punto di riferimento e di appoggio, non certo come un nemico su cui scaricare in modo aggressivo le proprie tensioni. Comunque, vi do in anteprima una notizia: sono arrivate due nuove educatrici! Si tratta però di educatori a tempo determinato, e sono naturalmente persone che non conoscono ancora il carcere. Attenzione, quindi: non è che, appena arrivate, già ci riuniamo per fare le sintesi…

 

Una sanità in grave crisi

 

Ornella Favero: Ci piacerebbe poter introdurre già in questa occasione, con lei, un confronto sui problemi legati alla salute, che è un argomento delicato, aggravato anche dal fatto che, allo stato attuale, la sanità carceraria ci sembra una sorta di “terra di nessuno”, a metà strada fra il Ministero della Giustizia e il Servizio sanitario nazionale, che pare tuttavia non averla ancora presa efficacemente in carico.

Direttore: La situazione sanitaria, e quella dei farmaci in particolare, è davvero deleteria. Anche in questo settore siamo afflitti da una gravissima carenza di fondi. Tanto per essere chiari, quest’anno abbiamo dovuto fare i salti mortali per non tagliare la guardia medica, e l’anno prossimo ancora non so come faremo, e se ce la faremo, a garantire un servizio pure così importante. Per quel che riguarda i farmaci, dovete sapere che il capitolo di bilancio a cui si attinge per pagare medici e infermieri è lo stesso che serve per pagare i farmaci: e siccome è stretto, molto stretto, basta a malapena per l’approvvigionamento dei  farmaci di assoluta necessità, in fascia A. Tanti altri prodotti non possiamo evidentemente acquistarli, o, comunque, li acquistiamo nella misura minima che ci è concessa dalle nostre limitatissime risorse, per far fronte alle necessità dei detenuti che non hanno proprio una lira. Gli altri, quelli che hanno del denaro sul conto, se hanno bisogno di quei farmaci devono necessariamente pagarseli da sé, facendosi autorizzare dal medico.

 

Il cambio cella, una piccola risorsa nel caos del sovraffollamento

 

Elton Kalica: Vorrei segnalarle il problema del cambio cella, che sta diventando sempre più problematico. Dovendo vivere per forza per tanto tempo dentro quattro mura, non crede che andrebbe favorito, anziché ostacolato come sempre più spesso avviene, il desiderio dei detenuti di avere per compagni delle persone affini per interessi e carattere?

Direttore: Probabilmente se c’è stato qualche irrigidimento dipende anche dal fatto che si è ecceduto un po’ troppo nelle richieste. Mi sembra evidente che se a voler cambiare cella è un numero ragionevole di persone la cosa si può fare, ma diventa irrealizzabile se il numero dei richiedenti si moltiplica in maniera esponenziale. Insomma, se un detenuto chiede di trasferirsi in una cella dove c’è un posto libero il più delle volte non è un problema, e si cerca di accontentarlo; ben altra cosa, però, è quando un cambio di cella rischia di innescare una catena senza fine di altri spostamenti…

 

Ernesto Doni: Noi chiediamo più attenzione, in particolare, per quel che riguarda cambiamenti all’interno della stessa sezione. Per fare un esempio concreto, mettiamo il caso che il mio compagno di cella venga liberato, e che io desideri rimpiazzarlo con una persona che va d’accordo con me e che invece non si trova troppo a suo agio con il suo compagno di cella attuale: la cosa più semplice sarebbe che ci si potesse accordare subito, parlandone con il capoposto. E invece va a finire, il più delle volte, che non fai a tempo a compilare la domandina e a inoltrarla che già ti vedi “recapitare” in cella un nuovo venuto, col che i giochi sono in pratica chiusi. Ed è una pena nella pena, mi creda, spartire la propria cella con una persona con cui non si va d’accordo. E poi, mi scusi: mi sono diviso da mia moglie, le pare giusto che mi si obblighi a convivere con qualcun altro?

Direttore: Se potessi, la farei stare da solo, in una cella tutta per lei. Ma la situazione è quella che è.

 

Ornella Favero: Adesso, inoltre, accade sempre più spesso che una persona che deve scontare una pena lunghissima si trovi per compagno uno che deve scontare una condanna di due anni e anche meno, e che pertanto vive il carcere in maniera profondamente diversa.

Direttore: È indubbio che sia così, e capisco che ciò crei dei problemi. Sono però persuaso che con l’andare del tempo si stabilizzerà nuovamente la qualità e la tipologia del detenuto, perché l’orientamento che si sta imponendo a livello di Provveditorato è di non procedere al trasferimento dei detenuti, se non per motivi molto seri.

 

I colloqui: rendiamoli più decenti

 

Marino Occhipinti: Un altro argomento su cui abbiamo diverse domande da farle è quello dei colloqui con i parenti. Io, in particolare, vorrei chiederle se non è possibile concedere a chi lo desidera l’allungamento dell’orario a due ore, nelle giornate di giovedì e venerdì, senza dover per forza compilare la domandina. Sa, il problema è che in più di un’occasione, e me e ad altri compagni, è capitato che la domandina – debitamente compilata e inoltrata – sia andata smarrita, con il risultato di non poter usufruire del previsto raddoppio d’orario.

Direttore: Quando è possibile, mi risulta che l’estensione dei colloqui a due ore in assenza di domandina venga concessa ugualmente, anche se è comunque consigliabile presentare la richiesta, perché il carcere funziona con la domandina dappertutto. Devo aggiungere che se un parente per venire qui a Padova ha affrontato un viaggio molto lungo, non lo mandiamo via neppure se arriva il martedì o il mercoledì… Certo lo preghiamo di telefonare, di informarsi sui giorni dei colloqui, la prossima volta, ma facciamo comunque il possibile per permettergli di avere un colloquio con il proprio congiunto detenuto.

 

Marino Occhipinti: Non sarebbe possibile creare una corsia preferenziale per le persone molto anziane o svantaggiate da un grave handicap fisico? La lunga attesa all’esterno del carcere, e poi dentro, prima di poter entrare in sala colloqui, rappresenta un “pedaggio” troppo pesante, per una persona molto in là con gli anni o afflitta da gravi problemi fisici… 

Direttore: Di questo posso parlare con il personale addetto ai colloqui, ma non è un problema tanto semplice da risolvere. Io posso solo fare il possibile per agevolare le persone fisicamente svantaggiate, ma non posso obbligare una persona che aspetta da un’ora a restare in attesa un’ora in più per avvantaggiarne un’altra. è chiaro il concetto?

 

Gianfranco Gimona: Sempre in argomento colloqui, vorrei porre il problema dei parenti in attesa fuori, che magari sono reduci da un lungo viaggio e devono aspettare un’ora o anche più senza poter disporre di un servizio igienico.

Direttore: Il problema dei servizi igienici l’ho già affrontato direttamente con qualche parente, e ho detto – e lo sanno tutti, soprattutto gli agenti – che quando una persona in attesa ha una necessità non ha che da farlo presente al personale, che provvederà a farla accedere al bagno collocato all’interno dell’istituto, nei locali che precedono la sala colloqui.

 

Marino Occhipinti: Un’ultima cosa, direttore: è un vero peccato, non le pare?, che l’area verde attrezzata per gli incontri con i figli più piccoli giaccia, praticamente, in stato di abbandono…

Direttore: Concordo con lei che è un peccato, averla potuta utilizzare finora così poco: ma dove lo trovo il personale che mi serve per renderla effettivamente agibile? Il problema, alla fin fine è sempre quello: la carenza di personale. Comunque, ora provvederemo a rimetterla in ordine, approfittando del corso di giardinaggio, e poi, quando tornerà la bella stagione, vedremo cosa si potrà fare per renderla fruibile.

 

I dolori della spesa: I detenuti sono considerati i consumatori più ricchi che esistano: per loro, niente offerte speciali, niente prodotti discount, ma solo grandi marche e a prezzo pieno.

Qualche piccola proposta della Redazione e le risposte del Direttore

 

Ristretti: Un argomento su cui desideravamo confrontarci è quello della spesa. Saprà quanto noi che in genere le persone detenute si lamentano per i prezzi, che vengono ritenuti mediamente più alti di quelli che si praticano fuori. Noi, con l’aiuto di alcune volontarie, che hanno battuto con pazienza diversi supermercati, ci siamo in realtà resi conto che, almeno a Padova, spesso i prezzi del sopravvitto non sono di molto più alti, e che - tanto per far degli esempi - la pasta Barilla o il caffè Lavazza costano più o meno come fuori, ma fuori ci sono innumerevoli offerte speciali di gran lunga più convenienti. Il vero problema, poi, è che in carcere non esiste una scelta di prezzo. Il cittadino fuori si orienta sempre di più sui discount o sui cosiddetti prodotti di “primo prezzo” che ormai si trovano in qualsiasi supermercato; prodotti non “di marca”, insomma, e quindi nettamente più economici. Questo tipo di scelta, qui, non esiste. E il risultato è che, se raffrontiamo la spesa interna al carcere a quella esterna, risulta che quella che si può fare in carcere è una spesa da ricchi. 

Direttore: Volete dire, insomma, che il Sopravvitto vende la pasta Barilla, ma non quella tedesca, tanto per fare un esempio?

 

Ristretti: Più che quella tedesca, vorremmo quella italiana,  buona, ma magari di una marca poco pubblicizzata. Qui mancano i prodotti di tipo discount, mancano le offerte speciali, per cui di fatto il detenuto è costretto a fare un tipo di spesa che, per il costo dei prodotti, il cittadino medio fuori non si può più permettere. Noi solleviamo quindi questo problema: è possibile chiedere alla ditta che provvede agli acquisti di proporre anche una linea di prodotti non di marca?

Direttore: È un problema delicato e difficile da risolvere, perché per disposizione ministeriale il servizio del Sopravvitto viene affidato in appalto alla stessa ditta che fornisce il vitto dell’amministrazione. A questa ditta noi chiediamo che provveda a un immagazzinamento corrispondente a circa tre mesi di fornitura dei prodotti di tipo alimentare e a una scorta comunque congrua anche degli altri. Ovvio che, acquisendo con un notevole anticipo tutto questo materiale, la ditta voglia garantirsi di poterlo poi smaltire in tempi rapidi, anche perché si tratta in gran parte di prodotti deperibili. Per questo motivo nelle sue scelte d’acquisto si orienta sui prodotti che vanno per la maggiore, e che quindi non corrono il rischio di languire troppo a lungo in magazzino. Non possiamo dimenticare che, a fare gli acquisti, è un privato che ha legittimi fini di lucro, e che pertanto non può correre il rischio, mettiamo, di acquistare 100 chili di merendine di una marca che nessuno conosce e di venderne, magari, solo tre o quattro chili e di veder deperire in magazzino i restanti. Che fa, li butta gli altri 96 o 97 chili di merendine che nessuno vuole? Comunque, io posso provare a chiedere alla ditta di valutare la possibilità di inserire nella sua “lista della spesa” alcuni prodotti di primo prezzo, a patto che siano prodotti di grande consumo e che offrano la garanzia di essere poi effettivamente venduti. Vi invito, perciò, a valutare quali prodotti scegliere e a farmi avere una lista. Vedremo cosa si può fare. Sia chiaro, però, che alla lunga il discorso può funzionare solo se questi prodotti alternativi, in termini di prezzo, hanno comunque requisiti di una certa qualità. Perché se mettiamo in spesa una pasta conveniente che però, quando la butti in pentola, diventa una colla, bé, la volta dopo non la comprerà più nessuno. 

 

Ristretti: Se lei è d’accordo, nel primo numero di quel foglio informativo a circolazione interna che pensiamo di realizzare potremmo fare un piccolo sondaggio, chiedendo ai detenuti di segnalare i prodotti di tipo discount a cui sono più interessati… Ma visto che siamo in argomento spesa, vorremmo segnalare questa anomalia padovana dell’unica spesa settimanale, mentre nel resto delle carceri di spese settimanali ce ne sono almeno due; e ci dicono che al circondariale, qui accanto, se ne facciano addirittura tre…

Direttore: Anch’io in un altro istituto ne facevo tre, ma avevo solo 200 detenuti! Comunque, rendetevi conto che il problema del numero limitato delle spese non è legato tanto a inefficienze o a chissà che cosa: è legato al numero di agenti che lavorano in quell’ufficio, e gli agenti sono quelli che sono, e cioè troppo pochi, perché l’organico dell’istituto è sceso notevolmente da due-tre anni a questa parte. Insomma, se fosse possibile da domani mattina metterei quattro agenti in più al Sopravvitto, e la spesa potreste farla due volte alla settimana. Ma allo stato attuale, con la carenza di personale che c’è, non è possibile.

 

 

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