In Forma Minore

“I nostri sono ragazzi che vanno seguiti passo passo”

 

Un’affermazione semplice ma efficace, quella di don Domenico Ricca, cappellano dell’Istituto penale per i minorenni “Ferrante Aporti” di Torino. Che in una lunga intervista ci spiega le dinamiche della giustizia minorile, ci racconta il “suo” carcere e non fa sconti ai media che lanciano falsi allarmi sulla criminalità dei ragazzi

 

A cura di Marino Occhipinti

 

«Conosciamo tutti gli inconvenienti della prigione, e come sia pericolosa, quando non è inutile. E tuttavia non “vediamo” con quale altra cosa sostituirla. Essa è la detestabile soluzione, di cui non si saprebbe fare a meno». Cita Michel Foucault il cappellano del carcere minorile di Torino, don Domenica Ricca. Ne ha conosciuti, di giovani criminali, e ha visto con i suoi occhi quanti danni possa provocare una pena inutile, appunto, priva di progetti di reinserimento e di uno sguardo verso il futuro. «Ma proprio non siamo in grado di trovare soluzioni diverse?» si chiede don Ricca ribattendo alle parole del filosofo francese. Poi ci regala un pezzetto della sua esperienza. Raccontandoci la “sua” giustizia minorile.

 

Don Ricca, com’è la situazione, dal suo personale - e ormai lunghissimo nel tempo - osservatorio torinese?

La giustizia minorile comprende tante realtà diverse: le procure e i tribunali per i minorenni, che seguono i ragazzi in difficoltà con provvedimenti di tutela; gli interventi penali per chi è in un’età imputabile - da quattordici a diciotto anni - e commette dei reati; il Dipartimento della giustizia minorile e le sedi periferiche dei Centri per la giustizia minorile, che coordinano i Servizi minorili, vale a dire i Centri di prima accoglienza, gli Istituti penali per i minorenni (I.p.m.), le comunità, i Servizi sociali. Difficile, dunque, esprimersi sullo stato della giustizia minorile in generale. Posso però dire con certezza che in questi venticinque anni da cappellano ho osservato notevoli cambiamenti dovuti a fattori politici, al graduale calo delle risorse a disposizione, ma soprattutto al mutare della popolazione minorile in Italia. C’è un’evoluzione continua, come è naturale che sia per una giustizia che si occupa proprio di persone in età evolutiva. E una giustizia – lo ripeto da anni –, per essere tale, non può essere estranea al mondo, alle città, alla gente.

 

In che cosa si differenziano oggi i problemi di ragazzi italiani e stranieri detenuti?

Non è facile individuare le omogeneità e le differenze dovute a lingua, cultura e religione. Come cappellano ho cercato di lavorare più sui punti comuni che sulle diversità, sul fatto cioè di trovarsi tutti in una situazione di bisogno, di privazione della libertà: giovani e quindi tutti soggetti e oggetti di educazione. Ragazzi che, come diceva don Bosco all’inizio del suo apostolato sacerdotale, visitando le carceri di Torino nell’Ottocento, «hanno veramente bisogno di una mano benefica, che si prenda cura di loro, li coltivi, li guidi alla virtù, li allontani dal vizio». Anche se è vero che, quando si opera in un’ottica educativa, diventa fondamentale un impegno per cogliere la differenza come risorsa e avviare processi di integrazione che non neghino le identità, ma le sostengano nella costruzione di una società interculturale.

 

I mediatori culturali sono numericamente sufficienti?

Su queste figure sono notevoli gli investimenti. Tuttavia, in alcuni istituti in particolare, il bisogno è grande e la risposta mai adeguata. Dal mio punto d’osservazione, i mediatori devono essere presenti anche nei percorsi formativi del personale penitenziario, affinché il loro apporto non sia ridotto a ruolo di interpreti o di figure di emergenza. Il loro tempo va speso nel dialogo con tutti gli operatori dell’istituto, oltre che a diretto contatto con i ragazzi. Devono essere mediatori di un apprendere interculturale con gli altri operatori, svolgere una funzione di collegamento tra le diverse realtà. È tutta la struttura penale che deve dotarsi di elementi di conoscenza, affinché si sviluppi una sensibilità alle istanze dei ragazzi, ma anche una richiesta di adeguamento degli stranieri alle regole di tutti. Toccherà sempre ai mediatori attivare percorsi di sostegno ai minori stranieri detenuti per un loro graduale inserimento nel territorio. In altri termini, il mediatore ha una funzione “ponte” anche con gli stranieri che sono fuori. Siamo ancora, per molti stranieri, in una fase di prima generazione: dobbiamo interagire con minori non accompagnati. Il futuro apre scenari nuovi di ricongiungimenti familiari con modalità da inventare, per interventi educativi su tutta la rete familiare del minore straniero di seconda generazione.

 

Gli operatori e le altre figure professionali degli I.p.m. sono adeguatamente formati e aggiornati, secondo lei?

Molto si è investito e si investe sulla formazione. Il problema vero sta nella carenza di operatori della polizia penitenziaria, di presenze nel settore educativo e del trattamento. Pare che a un’aumentata richiesta di sicurezza e di controllo non corrisponda un adeguato potenziamento delle figure educative. Non mancano le idee né i progetti per i minori. Mancano le figure necessarie per un accompagnamento educativo nei percorsi interni al carcere e nell’applicazione delle misure alternative. I ragazzi vanno seguiti passo passo. La presenza dell’educatore, dell’assistente sociale, dello psicologo, dell’operatore è indispensabile per qualsiasi processo di crescita. Sono ragazzi di oggi, più fragili, apparentemente maturi ma in realtà insicuri. Hanno bisogno di sperimentare, forse anche di sbagliare, e mancano di senso della realtà: vanno presi sul serio per quello che sono, devono misurarsi con le loro capacità, ma anche con le difficoltà, oggi più di ieri, di un inserimento nella società. Non dobbiamo coccolarli o vezzeggiarli, ma nemmeno abbandonarli a se stessi.

 

La contrazione dei finanziamenti, che ha riguardato tutti i settori pubblici, avrà colpito anche il Dipartimento della giustizia minorile…

Questo è ovvio, almeno da come si constata tutti i giorni. È sempre più presente il rischio di dover interrompere attività e sperimentazioni positive per mancanza di fondi. Eppure educare costa meno che reprimere, se lo si fa con continuità e metodo. Se non si vuole che il tempo passato in carcere diventi per il ragazzo un tempo vuoto, da rimuovere dalla propria vita, allora va ripensata l’offerta di opportunità educative di qualsiasi tipo. È un investimento di persone e iniziative con una progettualità mirata sui tempi lunghi e non sulle emergenze.

 

Ma cosa viene concretamente fatto negli I.p.m. per favorire il reinserimento dei ragazzi?

Da alcuni anni, nella programmazione dell’istituto di Torino si fa riferimento a un impianto teorico secondo cui, in ogni pratica educativa, si mettono in gioco tre mondi vitali: quello della vita, quello della formazione e quello della cognizione. Un’impresa educativa sarà dunque più produttiva quante più connessioni stabilirà fra questi tre mondi, che in un individuo non sono mai separati.

 

Ci spiega meglio, da educatore, cosa significano questi tre mondi?

Il mondo della vita ha a che fare con il tempo del ragazzo. In un’istituzione in cui la sua esperienza soggettiva rischia di “devitalizzarsi”, occorre indirizzarsi su pratiche educative che diano significato ai vari momenti della quotidianità, per riconvertire il tempo dell’attesa e ampliare il campo di esperienza del ragazzo. Attraverso la relazione educativa, l’adolescente sperimenta nuove interpretazioni di sé e del mondo, e scopre un modo diverso di conferire significato alla realtà. Il mondo della formazione, invece, riguarda le attività educative nell’istituto, che sono una risorsa fondamentale: se vengono svolte nel contesto di un lavoro di rete, permetteranno di cogliere importanti elementi di conoscenza a partire dalla partecipazione attiva dei ragazzi. Metteranno in luce le loro capacità e attitudini, il loro rapporto con le regole, il livello di concentrazione, il progressivo grado di autonomia, le caratteristiche personali legate alle modalità relazionali. Elementi che si sviluppano proprio dalla partecipazione motivata del minore, cui contribuirà l’intervento coerente di tutti gli operatori. Infine, il mondo della cognizione. Che significa offrire ai ragazzi degli spazi che diventino occasione per “aprire” momenti della loro storia: raccontare, rappresentare fatti ed emozioni a partire da ciò che si vuole condividere con l’altro. L’obiettivo è produrre nuovi saperi su di sé e sul mondo, comunicando nel proprio linguaggio, attivando modalità cognitive sedimentate, esplorando dimensioni diverse.

 

Quali programmi e attività risocializzanti e ricreative vengono sviluppate al Ferrante Aporti?

Nella sezione maschile si passa attraverso quattro fasi. Nella prima l’obiettivo è l’accoglienza, tramite un primo orientamento per i ragazzi che arrivano. Si consegna loro il regolamento e un foglio informativo sugli aspetti organizzativi, scritto in varie lingue. Nella seconda fase, che riguarda un gruppo connotato sulla breve e media permanenza, si intraprendono insieme ai ragazzi azioni educative di conoscenza e orientamento che consentono agli operatori di realizzare l’osservazione di tutti i minori, con particolare attenzione a quelli maggiormente segnati da disagio psicologico e tossicofilia. Tutto questo in vista di sbocchi o all’interno dell’istituto o in percorsi di uscita, attraverso programmi di intervento individuali. In questa seconda fase ci sarà un’analisi approfondita della situazione personale e giuridica del ragazzo per arrivare a un orientamento socio-formativo. I percorsi di educazione alla legalità e alla salute sono tesi a diminuire i conflitti etnici e a prevenire la tossicodipendenza. La terza fase è invece connotata da un contesto detentivo più stabile, con tempi di permanenza medio-lunghi. Si tende, in questo gruppo, a un accompagnamento verso un percorso alternativo, affinchè i ragazzi affrontino e approfondiscano l’elaborazione del loro reato. Si continuerà nei percorsi di educazione alla legalità, alla salute e promozione del benessere psicofisico. Si deve puntare allo sviluppo dell’autonomia personale in vista di una proiezione esterna. In questa fase si pensa anche all’accompagnamento dei ragazzi da parte di figure educative nel corso di permessi premio o uscite all’esterno; all’accesso facilitato ai mezzi pubblici; ai pasti, alle mostre, agli eventi teatrali, cinematografici e sportivi; all’accoglienza in laboratori, in centri di aggregazione giovanile, in associazioni di volontariato, in centri culturali e sportivi con una presenza educativa adulta e frequentati da adolescenti. È un gruppo di minori e giovani adulti di varia etnia in custodia cautelare con lunghe permanenze, definitivi, appellanti e ricorrenti, con la prospettiva di una permanenza a lungo termine. Vi è poi il punto finale del percorso svolto dal ragazzo in istituto: il momento in cui il lavoro fin qua svolto si concretizza in un percorso esterno, scolastico o lavorativo. Il primo passo per la prossima, definitiva, uscita dal carcere. La progettazione individuale sul ragazzo prevede il graduale inserimento in attività esterne e lo svolgimento di poche attività all’interno, in un contesto di collaborazione interprofessionale al di fuori degli schemi istituzionali predefiniti (territorio, ufficio stranieri, Ser.T…). È qui fondamentale sviluppare una tensione del ragazzo per un progetto educativo esterno, introducendo elementi di coscienza civile, senza tralasciare il percorso di elaborazione del reato. Per gli stranieri, poi, sarà importante un’acquisizione di abilità per avviarsi a un nuovo status sociale (regolarizzazione e permesso di soggiorno). È questo lo spazio per i minori e giovani adulti maschi di varia etnia, definitivi, semiliberi o lavoranti all’esterno.

 

E per la sezione femminile, invece?

Per la sezione femminile – un unico gruppo nonostante i numeri, in certi periodi dell’anno, siano rilevanti – rimane valida l’ipotesi di un percorso evolutivo di orientamento, formativo e lavorativo. Anche per le ragazze gli obiettivi sono la promozione della cultura dell’accoglienza, il recupero e la rivalutazione della cultura di appartenenza (qui ancora più importante perché la quasi totalità delle ragazze sono nomadi o straniere), l’elaborazione di percorsi individuali che comprendono sempre un’elaborazione del reato. Infine nella sezione femminile sono peculiari i percorsi di educazione alla salute. È stato anche realizzato uno spazio cucina attraverso una donazione che permette spazi di vivibilità più consoni alla psicologia femminile. Sono essenziali – per le ragazze – interventi mirati al miglioramento della qualità di vita, con attività e spazi per la socialità che abbiano dei contenuti progettuali specifici.

 

È presente il volontariato, tra le ragazze del Ferrante Aporti?

Sì, c’è l’associazione Papa Giovanni XXIII, e poi le volontarie del Servizio civile nazionale hanno attivato il progetto “Pomeriggi tra ragazze”. Si tratta di un incontro bimensile di due ore, la domenica pomeriggio, con attività ludiche, laboratori e momenti di discussione e confronto su tematiche proposte dalle ragazze. Hanno poi una significativa importanza le cene multietniche, soprattutto dopo l’installazione della cucina presso la sezione. Con l’avvio del nuovo anno scolastico, oltre alla scuola e al laboratorio di ceramica, sono previste nella fascia mattutina anche il laboratorio di acconciature e quello di conversazione in lingua inglese e francese, gestito da un’operatrice dell’agenzia “Obiettivo Lavoro”. A breve, per quattro ragazze, verrà avviato anche il laboratorio di informatica. Al pomeriggio ci sono poi i laboratori di multimedialità, musicoterapia, teatro, disegno, e una nuova proposta sulla scrittura creativa. Si stanno inoltre vagliando alcune proposte di volontari per l’attivazione di altri corsi: danza orientale, musica, tango argentino, legatoria…

 

Nell’I.P.M. si stampa anche un giornale?

Sì, da un anno, grazie al Progetto P.A.R.I. dell’agenzia esterna ForCoop finanziato con i fondi della Provincia. Il giornale si chiama Albatros, ed è realizzato con la consulenza di un giornalista e la presenza di un’operatrice dell’agenzia Ati. Raccoglie gli articoli prodotti dai ragazzi e dalle ragazze in alcune attività strutturate, come il laboratorio di informatica e l’attività di orientamento. È frutto anche di un consolidato raccordo fra la redazione e la scuola, che a volte diventa il punto di raccolta del materiale. Il giornale può diventare un utile strumento sia all’interno del sistema dei servizi e sia nell’interazione con la rete esterna.

 

Cosa ne pensa delle varie proposte di legge che vanno verso una giustizia minorile più repressiva (ad esempio sull’abbassamento dell’età imputabile e sulla soppressione dei tribunali per i minorenni)?

Per nostra fortuna il Parlamento ha, al momento, fermato con giudizio di incostituzionalità le proposte di legge di cui si parla. Questo non ci permette di stare fermi, coscienti che le proposte avanzate non sono solo il frutto di posizioni ideologiche, ma esprimono il pensiero di tante persone, che credono di risolvere il difficile impatto con giovani che delinquono non investendo in promozione e prevenzione bensì in più facili misure di restrizione. Anche i cappellani degli I.p.m. hanno espresso in modo chiaro il loro dissenso facendo notare, tra l’altro, che «un sano approccio educativo o rieducativo se non esclude la punizione, è tuttavia ben consapevole della realtà e delle possibilità del carcere e perciò non mette l’enfasi su tempi lunghi di carcerazione, quanto piuttosto su un più corposo intervento educativo all’interno degli istituti. Ma soprattutto nel sostegno alla famiglia del minore, nell’opera delle comunità e nel rinforzo dei servizi sociali ed educativi dedicati ai minori presenti nei territori». Tuttavia a volte – leggendo alcune sentenze – mi viene spontanea una domanda: non è che il nuovo corso ampiamente proclamato sui media sta sfondando con prepotenza nelle aule dei tribunali? Eppure il dibattito tra i giudici minorili pare manifestare un’aperta contrarietà a una proposta di legge che «si basa sul tentativo di prevenire spaventando e di punire con la necessaria durezza ragazzi che già si comportano da adulti».

 

Ma davvero c’è un’emergenza legata alla cosiddetta criminalità minorile o sono solamente falsi allarmi amplificati dagli organi di informazione?

Anche qui la complessità del fenomeno non ammette semplificazioni. Tuttavia i numeri paiono contraddire chi parla di emergenza sulla criminalità minorile. L’altra sensazione è sul potere della piazza e dei media di fronte agli efferati delitti compiuti da adolescenti. Alcuni delitti familiari, o compiuti tra coetanei, hanno allertato un po’ tutti. Ma ci si è trovati soprattutto di fronte a una tendenziosità di certa informazione: la creazione ad arte di ruoli, la puntualizzazione e la scansione temporanea di alcune notizie piuttosto che altre… Si è avuta la netta sensazione di trovarsi di fronte a un progetto nemmeno troppo nascosto di cercare di condizionare, in qualche modo, le aule dei tribunali. Si è affermato che il processo avviene prima in piazza, alla televisione, sui giornali e poi nelle sedi costituite per diritto. Questo potrà magari essere quello che chiede la “gente” perché non si stufa di guardare, è curiosa, vuol sapere. Il nome degli imputati è sulla bocca di tutti, se ne parla come se si fossero instaurati con loro dei legami di familiarità. Tutti, in ogni caso, si sentono in diritto di emettere un giudizio. In effetti io mi chiedo spesso: dove può condurci la grancassa dell’allarmismo e la superficiale generalizzazione? Esattamente allo scopo opposto che pare prefiggersi: parlare di emergenza significa distogliere l’attenzione dal disagio dei giovani, dallo studio e dalla proposta di un intervento efficace a contrastarlo. La risposta di un’opinione pubblica influenzata pare sollecitare il politico a studiare e approntare misure più rigide di controllo sociale: si propone di abbassare l’età dell’imputabilità, oggi stabilita a 14 anni, ridurre lo sconto di pena che la legge prevede per gli autori di reato tra i 14 e i 18 anni, trasferire i minorenni detenuti nelle carceri per adulti al compimento del diciottesimo anno di età…

 

Quanti sono mediamente, ogni anno, i minori che hanno avuto problemi con la giustizia e quanti di loro transitano nelle strutture detentive.

Solo uno studio comparato tra le denunce e gli ingressi negli I.p.m. permetterebbe una risposta esauriente. I dati del Ministero della Giustizia evidenziano che in Italia, nel primo semestre 2004, gli ingressi nelle strutture detentive per minorenni sono stati 838: 344 italiani (327 maschi e 17 femmine) e 494 stranieri (345 maschi e 149 femmine).

 

Quanti sono i ragazzi ristretti negli Ipm.

Al 30 giugno 2004, c’erano 227 italiani (218 maschi e nove femmine) e 287 stranieri (232 maschi e 55 femmine): un totale di 514 persone. Un’altra suddivisione fa riferimento ai minori in custodia cautelare a fine semestre 2004: 334, mentre in espiazione pena sono 180. Un ultimo dato rileva che, a fronte di 227 italiani, erano presenti due francesi, 118 ragazzi provenienti dall’Est europeo, ottanta dall’Africa, sette dall’America e dieci dall’Asia. Una comparazione di presenze nelle diverse regioni d’Italia conferma poi una tendenza costante negli anni, vale a dire una presenza rilevante di stranieri al nord, al contrario di quanto si verifica al sud e nelle isole.

Vestire una maschera per scoprire se stessi

 

La recitazione può aiutare i giovani detenuti a conoscere le proprie capacità e a investirle per un futuro diverso. L’associazione “I Refrattari” porta il teatro nel carcere minorile di Airola, in provincia di Benevento. Dando ai ragazzi un’occasione perché la loro creatività non soffochi dietro le sbarre

 

A cura di Marino Occhipinti

 

Portare il teatro nei luoghi del disagio. Perché il teatro offre la possibilità di confrontarsi con le proprie emozioni e con quelle altrui, funzionando da autentico sfogo per frustrazioni e malesseri. Dal 1990, l’associazione “I Refrattari” coinvolge nella recitazione i giovani detenuti del penitenziario minorile di Airola, in provincia di Benevento. Il presidente, Nicolò Antimo, ci ha spiegato il significato che questa forma artistica assume in un luogo di pena per giovanissimi. E quanta libertà trasmetta l’interpretazione di tanti personaggi su un palcoscenico.

 

Quando e come nasce l’associazione teatrale “I Refrattari”?

L’associazione nasce giuridicamente nell’anno 1990, ma il nostro percorso di attori è lunghissimo. Abbiamo avuto esperienze formative con numerose compagnie teatrali, finché non abbiamo sentito l’esigenza di diffondere la nostra idea di ricerca teatrale tanto da spingerci ad associarci.

 

Quali sono gli scopi dell’associazione?

Innanzitutto, portare il teatro in luoghi dove regna il disagio, tra persone che hanno avuto poche possibilità di confrontarsi con i propri stati d’animo. Sul palcoscenico si può urlare il proprio disagio e vivere i mille colori della molteplicità attraverso i personaggi interpretati. Ma ci interessa anche educare alla conoscenza teatrale e promuovere una crescita culturale nei giovani, avvicinandoli all’arte magica della recitazione. In questo modo possono accrescere la propria conoscenza interiore, indispensabile per rafforzare le proprie capacità.

 

Quante persone fanno parte dell’associazione e con quali compiti?

Siamo in quattro, ma molti giovani partecipano ai laboratori teatrali che gestiamo nelle scuole medie inferiori delle province di Benevento e Caserta. Io mi occupo della regia e dell’organizzazione, Enza è attrice-consulente nonché la responsabile della progettazione di scene e costumi, mentre Luca e Angela sono attori-consulenti.

 

È la vostra prima esperienza in carcere, a diretto contatto con persone detenute?

Per me no: ho avuto un’esperienza, seppur breve, nel 1980 in un altro istituto minorile della provincia di Caserta, mentre per gli altri componenti sì, è la prima esperienza. Lo troviamo estremamente emozionante, una fucina di arricchimento interiore: ci piace capire il disagio dei giovani dell’istituto, per noi è un percorso ricco di spunti poetici, a volte crudi ma spesso penetranti.

 

Qual è la vostra impressione, le sensazioni che avete provato entrando in un carcere dove a scontare una pena sono ragazzi giovani?

Dopo l’imbarazzo iniziale, come ogni volta che iniziamo un nuovo percorso teatrale, la voglia di vivere una nuova esperienza ci ha dato la carica per superare le ansie e - confesso - anche le diffidenze e le paure che trasparivano nei nostri attori. Vedere dei giovani rinchiusi provoca un’immensa tristezza ma anche una carica a dare di più con passione viscerale, indispensabile per crescere e costruire correttamente la forma teatrale dello spettacolo che vogliamo realizzare.

 

Siete riusciti facilmente a coinvolgere i ragazzi o avete trovato difficoltà?

Lavoriamo mediamente con una decina di allievi, un numero che varia spesso perché, fortunatamente per loro, tornano presto in libertà. Comunque sì, la nostra capacità di socializzare è immediata. Lo facciamo con tutti i giovani che partecipano ai nostri laboratori, siamo un gruppo che riesce a trasmettere emozioni. Diventiamo loro compagni di viaggio, un po’ come facevano gli attori della commedia dell’arte, che erano un gruppo con una sola voce: quella del surreale ma spesso reale teatro della vita.

 

Riuscite a portare all’esterno gli spettacoli che preparate all’interno?

È la finalità principale, l’impegno del nostro progetto. Abbiamo partecipato a quattro rassegne teatrali in Campania, riscuotendo successo di pubblico e critica. Per i ragazzi è stata non solo un’opportunità di uscire, ma anche la gioia di potersi confrontare con una realtà diversa, dove il teatro fonda le sue radici, dove i palcoscenici vengono calcati da attori di fama nazionale. Ed è stato emozionante anche per noi che di teatro ne assorbiamo molto: vedere i nostri allievi colorare la scena, vederli soffrire di gioia e ansia è stato come per un pittore terminare un quadro. Il senso di libertà espresso con lo spettacolo ha rappresentato per noi la massima gioia-sofferenza che potessimo vivere, la disciplina dei giovani-attori è stata una forma di grande consapevolezza di ciò che il teatro insegna: l’arte di parlare agli altri e condividerne le emozioni. Abbiamo comunque in progetto altre uscite che certamente arricchiranno la nostra voglia di capire e tracciare il solco ormai curato e custodito da tutti noi e da loro, i giovani attori dell’istituto.

 

Ritenete che in un carcere minorile il teatro possa aiutare i giovani detenuti a comprendere che il ruolo che hanno scelto o che si sono ritrovati a impersonare nella vita è appunto solo un ruolo e che è possibile cambiarlo?

Certamente il teatro aiuta a capire di più se stessi, a tracciare una linea diversa, a vivere le emozioni represse. E tutto questo si amplifica per chi è recluso, che rischia di vedere la propria creatività annebbiata dalla reclusione, dal tempo sempre uguale. Noi siamo portatori di creatività e attraverso essa diamo loro la possibilità di capire il vero e il falso, il giusto e lo sbagliato, spingendoli a credere di più nelle proprie capacità, a crescere attraverso i personaggi che si interpretano. Perché l’essenziale è essere protagonisti della vita in modo corretto e piacevole, senza maschere. Cosa avete imparato da questa esperienza? Pensate di continuarla? Abbiamo imparato molto. A vincere i pregiudizi, a carpire dalla loro sofferenza la poesia del vivere, la voglia di gridare la propria rabbia. Speriamo in futuro di poter rivivere questa esperienza che certamente ci ha arricchito e insegnato nuove sensazioni dal profumo indelebile.

 

Come è la collaborazione con gli operatori del carcere?

Buona, ci confrontiamo spesso e c’è, da parte di tutti, massima disponibilità ad aiutarci a risolvere i problemi burocratici. È buono anche il rapporto con gli agenti penitenziari, ottima la collaborazione con la direttrice Mariangela Cirigliano e con tutti gli educatori.

 

Come è la vivibilità all’interno dell’istituto? E la comunità esterna partecipa in qualche modo alla vita del carcere minorile?

All’interno dell’istituto, oltre a noi, vi sono parecchi corsi di formazione professionale gestiti dalla Regione Campania e varie attività sportive. Inoltre c’è un laboratorio-musicale e altre iniziative ricreative come la produzione di un giornalino mensile. La comunità locale vive il rapporto con l’istituto attraverso le molteplici iniziative che vengono rappresentate nel teatro interno alla struttura, che diviene dunque momento di incontro con i giovani reclusi.

«Non avrei mai pensato che, grazie al teatro, sarei stato fiero di me»

 

Alessandro

Il teatro mi piace perché imparo a recitare, mi dà emozioni. Quando sono sul palco penso solo a fare bene la mia parte, a fare bella figura, a emozionare il pubblico. E questo mi fa pensare che il teatro può cambiare una persona, fisicamente e mentalmente, nel modo di parlare, ascoltare e dialogare. Io ero un ragazzo chiuso, ma sapevo parlare bene l’italiano. Penso che fare teatro sia una cosa divertente e soprattutto ho scoperto che recitare è una passione che mi piacerebbe coltivare anche in un futuro migliore, se ne avrò la possibilità. Nonostante le difficoltà che si presentano quando sono davanti al pubblico, il loro applauso prevale sulle mie paure e dentro di me cresce la voglia di fare sempre di più.

 

Nunzio

È stata una bella esperienza, anche se io all’inizio avevo molta paura di tutta quella gente che mi guardava. Mi tremavano le gambe, ma poi ho incominciato ad avere più sicurezza in me. Il teatro mi ha dato la possibilità di uscire fuori a fare gli spettacoli ed è stato molto bello vedere tanta gente applaudirci.

 

Lello

Per me il teatro è un gruppo di amici, è una passione che ho scoperto e che spero di poter continuare a vivere. Il teatro mi ha aiutato a sconfiggere la timidezza e ad aprirmi, perché mi dà sempre emozioni diverse. È un’adrenalina che sale fino a farmi scoppiare il cuore. Mi ha fatto crescere interiormente. Mi ha permesso di conoscere persone nuove, confrontandomi con realtà diverse. È uno stimolo, un percorso che apre nuovi orizzonti. Mi dà serenità. Mi ha fatto scoprire che posso essere una persona migliore. Il teatro ha cambiato il mio modo di vedere le cose, di esprimermi e di socializzare. La mia voglia di cambiare con il teatro è diventata una certezza, la certezza di una vita ricca di cose belle.

 

Gianni

Il teatro mi emoziona, mi dà coraggio, mi fa socializzare e mi piace perché sono ore che trascorro in compagnia dei miei amici. All’inizio avevo un po’ di paura di recitare sul palco davanti al pubblico. Mi sentivo imbarazzato perché mi intimoriva ciò che potevano pensare di me, ma sapevo che dovevo dare il meglio e una volta iniziato a recitare l’ho fatto tutto d’un fiato, estraniandomi finché non ho finito. L’applauso finale mi ha dato la carica per continuare questa bella esperienza, che mi ha fatto ricredere sulle mie capacità perché non avrei mai immaginato che un giorno sarei salito su un palco e sarei stato fiero di me!

 

Salvatore

Il teatro per me è una cosa importante perché non ho mai avuto il coraggio di salire su di un palco. È stata un’esperienza bellissima che mi sta dando tante cose. Ho avuto la possibilità di capire quanto è bella la sensazione di vedere il pubblico che mi applaude; mi fa stare bene sentire il calore della gente.

 

Antonio

Io sono molto chiuso, però con il teatro sono riuscito ad aprirmi con gli altri. È stato molto formativo e bello poter salire sul palcoscenico e recitare, è un’esperienza che porterò dentro di me per sempre.

 

 

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