Dentro & Fuori

Gli operatori di strada mediatori

fra la rete dei servizi e chi vive ai margini

L’associazione “Famiglie contro l’esclusione”

in prima linea sui luoghi del disagio e delle nuove povertà

 

di Francesco Morelli

 

Monica, psicologa, Vincenzo, volontario, sono operatori dell’unità di strada dell’associazione “Famiglie contro l’emarginazione”, che ogni giorno a Padova scendono in strada per occuparsi di chi sta male e non ha risorse e per riuscire a dare sempre delle piccole risposte utili ai loro bisogni primari. Li abbiamo incontrati per farci raccontare la loro esperienza.

 

Ci raccontate qual è il senso del lavoro in strada?

Vincenzo: In generale il lavoro dell’unita di strada è sostanzialmente quello di recarsi sui posti dove si vive il disagio e cercare di far emergere e risolvere i problemi che ci sono e che normalmente non vengono visti. In qualche misura, si tratta quindi sia di portare informazioni “alla strada” su quella che si chiama la rete dei servizi, cioè le varie strutture preposte a governare queste forme di disagio, sia raccogliere “dalla strada” informazioni e portarle agli uffici pubblici in modo che i servizi vengano adeguati alle richieste che ci sono. In qualche misura noi siamo dei mediatori fra la rete dei servizi e la strada. La qualità del nostro intervento è direttamente proporzionale al tipo di risposte che noi siamo in grado di dare. Noi non abbiamo risposte nostre, ma ci rivolgiamo alle strutture già presenti sul territorio, che sono il dormitorio pubblico, il Ser.T., il settore sociale del Comune, l’ASL per le risposte di tipo sanitario, o le comunità terapeutiche per chi fa richiesta per entrarci. È un servizio che costa poco, e che facciamo ormai da molti anni, dal ‘79 occupandoci di disagio grave e interventi a bassa soglia, e da 7 anni in stazione con progetti di intervento in strada.

 

Ci interessa sapere un po’ la storia dell’associazione, come sono cambiate le modalità di intervento in questi anni e con quali riflessioni siete arrivati al lavoro in strada.

Vincenzo: è una storia che dura a Padova da 25 anni. Nata come un’associazione di famiglie di tossicodipendenti voluta in un certo senso dalle famiglie-bene padovane che all’epoca si trovavano a confrontarsi con il problema emergente della droga, verso gli anni ottanta l’associazione ha preso un’altra piega: mentre prima si dava solo sostegno morale alla famiglia del tossicodipendente, l’associazione ha cominciato ad aprirsi ai tossicodipendenti, e non solo ai tossicodipendenti in trattamento o che partecipavano già a programmi di uscita dalla tossicodipendenza, ma a tutti. Cioè, chiunque, in qualsiasi momento, e per qualsiasi motivo poteva entrare, dalla mattina alla sera, nella sede in piazza dei Signori e trovare una sedia dove sedersi, qualcosa di caldo, una doccia, qualcuno con cui parlare, qualcuno con cui affrontare i problemi. Siamo andati avanti per parecchi anni così, “sotto attacco” più o meno da parte di tutti quelli che lavoravano in questo settore a Padova, quindi altre associazioni, giornali, politici.

 

Sotto attacco perché negli anni ottanta la riduzione del danno non era ancora entrata nella pratica di intervento?

Vincenzo: Non se ne parlava nemmeno, non si ipotizzava neanche che ci potesse essere un modo di lavorare di questo tipo. Poi, verso la metà degli anni ottanta, è esplosa la bomba dell’AIDS, per cui l’associazione si è trovata ad essere una delle poche associazioni a Padova bombardate veramente da questa emergenza. In quel periodo ci trovavamo ad aprire la sede la mattina ed avere davanti alla porta 10, 15, 20 ammalati terminali di AIDS, che dormivano sui treni, nei dormitori pubblichi, sotto i ponti. E pur essendo gravemente ammalati alcuni si trovavano a passare la notte all’aperto e non avevano un posto dove stare. Noi facevamo quello che avevamo sempre fatto, cioè mantenevamo aperto un posto dove si potevano trovare sempre delle piccole risposte ai bisogni primari e magari un appoggio per trovare delle risposte ai bisogni un po’ più complessi. Mi ricordo che si cercava di trovare dei posti letto all’ospedale, si cercava di fare in modo che si aprissero dei servizi adeguati per queste persone, si davano anche i soldi per pagare le ricette, si appoggiavano le persone a un servizio, si accompagnavano le persone a una buona morte, perché in quegli anni la morte era certa per un malato di AIDS, per cui si trattava di aiutare queste persone a morire nella maniera più serena possibile. Nel 1994-95, con l’ingresso dei farmaci antiretrovirali la situazione si è modificata e si è aperta la strada al tipo di intervento che noi stavamo già facendo da 15 anni, con tutto quello che abbiamo dovuto sopportare, perché siamo stati trattati veramente come gli untori, come coloro che facilitavano le persone a drogarsi per il semplice fatto che non espellevamo le persone sotto l’effetto di sostanze, ma anzi le accoglievamo. L’associazione è nata come “Famiglie contro la droga” e negli anni ottanta il nome è stato cambiato in associazione “Famiglie contro l’emarginazione”, proprio perché siamo partiti da un problema che era quello della droga per poi trovarci davanti un problema molto più ampio che non riguardava solo la droga, ma tutta una fascia di persone che vivevano in una certa forma di disagio e di emarginazione, come i migranti, i nuovi emarginati.

 

Ci parlate del lavoro dell’Unità di strada?

Vincenzo: L’associazione, che già aveva una linea di intervento e si recava nei luoghi di spaccio a parlare con le persone, ha deciso a un certo punto di avviare un corso per operatori di strada. Da lì è partito il primo gruppo di operatori, e si è iniziato ad intervenire nella stazione di Padova, che all’epoca, siamo nel 1997, era frequentata essenzialmente da un gruppo di barboni.

 

Alla stazione cosa facevate?

Vincenzo: Andavamo in strada, con un contenitore di the caldo, con dei panini o dei biscotti e si raccoglievano informazioni e si cercava di far scattare quelle molle che potevano portare quelle persone ad uscire dalla strada, oppure di far fare delle riflessioni sulla maniera meno dolorosa possibile per restarci. Quindi, informazioni su dove recuperare dei vestiti, dei pasti caldi, avere la possibilità di farsi una doccia, avere delle strutture sanitarie anche per chi non ha i documenti, sia italiani che stranieri. Perché noi parliamo sempre di clandestini senza documenti, però c’è anche un buon numero di italiani che per situazioni pregresse si trova a non avere la residenza, e sappiamo che al giorno d’oggi non si è cittadini se non si ha una residenza, anche se si è nati e vissuti in Italia.

 

È possibile spiega e in poche parole come si conquista la fiducia?

Vincenzo: Bisogna essere consapevoli che si sta entrando in un posto che non è il nostro posto, nel senso che noi non viviamo per la strada, quindi bisogna usare delicatezza e proporsi come persone, ascoltando e raccogliendo prima di tutto informazioni e poi cercando di proporre le soluzioni ai problemi, qualora sia possibile. Ci sono situazioni che si possono risolvere, mentre altre bisogna cercare di “stemperarle”, far sì che non siano degli ostacoli insopportabili per la vita delle persone. La nostra filosofia è sempre stata quella di aiutare le persone a portare a termine una loro ipotesi di cambiamento. Io non penso di essere in grado di convincere uno a fare qualcosa che non vuole fare, posso aiutarlo a fare qualcosa che lui vuole fare, questa è sempre stata la nostra filosofia. Se noi andassimo in strada con i tossicodipendenti a dire che devono smettere di farsi, dopo dieci minuti non c’è più nessuno che ci contatta. È chiaro che il nostro fine ultimo è quello, però è un fine che si costruisce con un rapporto che comincia in un certo modo, si evolve, si modifica finché alla fine si arriva a quello, e comunque anche se non si arriva a quello e si arriva solo ad un miglioramento della vita della persona pur non riuscendo a toglierla dalla strada, è comunque un risultato.

 

L’utenza è cambiata nel corso degli anni?

Vincenzo: Direi di sì. Si è partiti con un progetto del Comune rivolto essenzialmente ai senza fissa dimora, un nucleo di “barboni classici”, quindi persone in strada da parecchio tempo, di una certa età, alcuni con problemi psichiatrici, molti di alcolismo. Poi, pian piano, ci si è trovati davanti a tutto un mondo di immigrati, e poi ancora persone con il problema della tossicodipendenza e dello spaccio, la prostituzione. Negli ultimi tre o quattro anni sono arrivati i minori stranieri non accompagnati. L’associazione oggi ha anche una comunità terapeutica per tossicodipendenti, una comunità per minori psichiatrici affidati, una comunità per minori stranieri non accompagnati.

 

Quando è operativa l’unità di strada?

Vincenzo: Adesso noi andiamo in piazza di pomeriggio e di sera. Gli orari cambiano a seconda della stagione, in questo periodo siamo il martedì e giovedì sera dalle 20.30 alle 22.30, il sabato pomeriggio dalle 15 alle 18. Il venerdì dalle 11.30 alle 13.30 siamo davanti alle cucine popolari, in più abbiamo una convenzione col Comune e interveniamo su segnalazione dei servizi per contattare persone in diverse zone della città e a qualsiasi ora. L’èquipe è composta da cinque psicologi e da un operatore.

Monica: Quando ci vengono segnalati questi casi, da una parte c’è la difficoltà di riuscire a reperire la persona che ha i suoi giri, i suoi orari, e poi ci vuole tempo per riuscire a costruire il rapporto, per avere quella fiducia di cui si parlava prima, perché la persona per affidarsi, per cambiare in qualche modo abitudini, deve avere una motivazione. Per cui serve prima il momento del contatto, poi bisogna capire chi è, cosa vuole. Quando c’è un problema psichiatrico è più difficile creare un contatto…

 

Ma voi, se una persona vi dice che non ha bisogno di niente, cosa fate?

Monica: Noi adesso faremo anche un laboratorio teatrale, per rispondere a delle esigenze di persone che comunque decidono di continuare a vivere in strada, ma che possono in qualche modo anche esprimersi, produrre cultura, confrontarsi con le altre persone che vivono in strada e che hanno culture diverse… Noi parliamo di migliorare la qualità della vita, ma per chi sta in strada cosa vuol dire migliorare la qualità della vita? Per me che ho una casa, ho da mangiare tutti i giorni, è una cosa, ma per una persona che sta in strada i bisogni sono altri. È successo di dover accompagnare una persona in ospedale anche all’una di notte, e dopo il ricovero lei ha scelto di tornare in strada. Per cui migliorare la qualità della vita significa anche rispettare le scelte e sospendere il giudizio.

Vincenzo: Se noi andassimo a costringere, a convincere le persone ad uscire dalla strada, nel giro di poco tempo le persone scapperebbero quando ci vedono. Noi dobbiamo solo andare in strada e proporci.

Monica: Il problema, invece, c’è quando a chiedere un posto letto sono i clandestini, perché, anche se sono ammalati e senza lavoro, per noi è impossibile dare una risposta. L’unica cosa che possiamo fare è raccogliere le informazioni e poi presentarle alle istituzioni che possono essere il Comune o la Regione per far capire che la situazione sta cambiando, che è grave.

 

Nel corso del tempo voi vi siete fatti conoscere dalle persone che hanno bisogno, ma con il resto della cittadinanza com’è il rapporto?

Vincenzo: In linea di massima le persone, quando noi diciamo che tipo di servizio facciamo, ci dicono “bravi”. Però fatichiamo molto a farci conoscere, come se non ci fosse l’interesse politico di far sapere che si sta facendo questo. Anche perché portiamo avanti istanze che sono difficili da affrontare, e posso capire che in Comune quando mi vedono gli vengono i capelli dritti, però non è colpa mia. I problemi ci sono, io li faccio solo emergere. Mi mandano in strada per far emergere i problemi, poi quando emergono… Chiaramente non si può pretendere di piacere a tutti i cittadini di Padova. C’e chi ci vede di buon occhio, chi si rende disponibile ad aiutarci, ma c’è anche chi ci vede come quelli che facilitano i criminali.

 

E con la polizia, i carabinieri?

Vincenzo: Non abbiamo mai avuto ostacoli da parte delle forze dell’ordine, abbiamo sempre spiegato cosa andiamo a fare, per quale motivo e in che termini, e in questo siamo stati sempre capiti

 

La scelta di non occuparsi solo di tossicodipendenti, ma più in generale delle persone senza dimora ha agevolato un giudizio positivo?

Vincenzo: C’è una reminiscenza del barbone come figura romantica, però oggi c’è anche una percezione di rischio talmente alta, che basta vedere uno vestito in maniera un po’ strana per dire che è un delinquente. Certo non ho mai visto così tanta gente in strada come in questi ultimi anni. Ci sono senz’altro più stranieri che italiani, ma ho l’impressione che aumenteranno sempre più anche gli italiani, perché ci sono tante persone che rischiano di finire in strada, per la precarietà del lavoro che di conseguenza rende precaria la casa e mette a rischio categorie di persone che prima non erano a rischio. Prima un lavoratore dipendente al livello più basso riusciva comunque a barcamenarsi, avendo un lavoro continuativo, adesso un dipendente all’ultimo livello con contratto a termine rischia di saltare dall’oggi al domani.

 

Per fare un esempio concreto: se una persona che viveva da “regolare” finisce in strada, cosa può fare?

Vincenzo: Ci sono molte cose che potrebbe fare, dipende dalla quantità di energie che gli sono rimaste per reagire. Si può cominciare trovandole un posto in una prima accoglienza, tipo un dormitorio. Da lì si può iniziare la ricerca di lavoro attraverso le cooperative sociali, lavoro socialmente protetto, in modo da ricostruire una certa stabilità e poi da lì, se tutto va bene, si va avanti. Ci sono delle persone che quando le abbiamo contattate sette anni fa erano in strada, adesso hanno una casa e lavorano e non sono casi rari.

 

Sono gli immigrati ad avere più difficoltà oggi

Vincenzo: Sì, ma non solo loro. Se pensi che le cucine popolari di Padova sono a bassa soglia, nel senso che sono accessibili a tutti, basta passare attraverso la Caritas che dà i buoni pasto, oppure trovare 2 euro e 7 centesimi, e si ha un pasto, e però ci sono persone per le quali andare alle cucine popolari è molto difficile, per alcuni è un problema quasi insormontabile. Perché non se la sentono, oppure dopo periodi di disagio non hanno più la forza necessaria per andare fino a lì, prendere il numero e fare la fila. Immagina adesso cosa vuol dire non avere un posto dove dormire: in realtà la strada è molto pericolosa non solo per i padovani ma soprattutto per chi in strada ci deve dormire, perché c’è anche una lotta per il posto, per dove tenere la coperta, in questo senso sta cambiando anche un po’ la situazione, sta diventando molto più pericoloso vivere in strada. Si rischia dal minimo che ti freghino qualsiasi cosa ai casi di aggressioni gravi, gente che è stata aggredita mentre stava dormendo e presa a bastonate.

 

Avete fatto un’analisi del perché sia così “selvaggia” la vita in strada adesso?

Vincenzo: Perché la situazione sta peggiorando, c’e più concorrenza per quelle poche risorse disponibili, c’è un numero elevato di tossicodipendenti senza risposte che gira per le strade. Io so che a Padova sono tantissimi, e che a Padova si spaccia tantissimo per cui arriva gente da quasi tutto il Nord Italia e si ferma a Padova proprio perché qui c’e questa disponibilità continua. Io non parlo di eroina ma di droghe in generale, perché per noi più che la sostanza è importante la modalità, quando uno assume cocaina facendosela in vena, vivendo per strada rubando e rapinando, vuol dire che ha un problema, è indifferente che sia cocaina o eroina, ormai anche la cocaina è diventata una droga da strada.

 

Ma quanto è “accogliente” Padova verso le persone che non hanno una vita “regolare”?

Vincenzo: Io voglio dire che a Padova mancano bagni, fontane e docce e questo è un grosso problema perché chi vive in strada, ma anche i turisti, non sanno dove andare in bagno, dove bere e dove lavarsi. E questo è un problema che fa sì che molte delle persone che si trovano in strada facciano i loro bisogni dove capita e che molti cittadini padovani si incazzino per questo. Ma se i bar non danno le chiavi a chi non consuma o a chi non ha una faccia pulita e i cessi pubblici sono stati chiusi, come fa una persona che si trova in quelle condizioni a resistere? A Padova non ci sono nemmeno più tante panchine. La stazione dei treni è cambiata proprio in questo senso per non dare la possibilità alle persone di sdraiarsi, le poche panchine ancora esistenti sono a schiena di asino, per cui ci si può sedere ma non stendersi. I bagni pubblici, le docce, le fontanelle con acqua potabile mi sembra siano quindi un’esigenza di tutti, non solo dei senza fissa dimora o dei tossicodipendenti. Negli ultimi anni in Comune sono state fatte una decina di riunioni sui cessi pubblici, ma sembra che manchi la volontà politica, perché nessuno li vuole vicino a casa sua. Questi interventi invece potrebbero anche alleviare molte delle tensioni che si creano inevitabilmente tra cittadini residenti e le persone che vivono per strada, e la spesa non sarebbe nemmeno così enorme. Non è che si possa risolvere tutto, ma certe cose bisognerebbe governarle; non si può lasciare che vadano come vanno e chiedere poi l’intervento delle forze dell’ordine, perché l’ordine pubblico è una coperta che è sempre e comunque stretta.

 

Parliamo anche di una esperienza davvero particolare, quella del teatro di strada

Vincenzo: All’inizio non avevamo molta fiducia in questo tipo di intervento, ma poi siamo riusciti a coinvolgere molte persone, anche di quelle che era molto difficile coinvolgere in qualsiasi altra cosa. È stata veramente una grande esperienza quella di riuscire a far uscire delle storie da queste persone e poi recitarle in strada e dar voce a delle vite che altrimenti passano inosservate.

 

 

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