Dentro & fuori

 

Cosa sono i "Consigli di Aiuto Sociale"?

O meglio… esistono davvero?

 

La legge penitenziaria del 1975 li ha introdotti… avrebbero dovuto sostenere le persone scarcerate e le loro famiglie… ma poi nessuno ne ha più sentito parlare!

 

di Francesco Morelli

 

Consigli di aiuto sociale: la legge penitenziaria del 1975 li ha introdotti, con lo scopo di sostenere le persone scarcerate e le loro famiglie, ma poi nessuno ne ha più sentito parlare! Quando parte delle competenze dei C.A.S. passarono a Regioni e Comuni (D.P.R. n° 616 24.07.1977), il Ministero inviò a tutti i tribunali due circolari, dando disposizioni precise sulla prosecuzione delle attività non trasferite. Disposizioni evidentemente rimaste sulla carta.

Il Gruppo Consiliare Radicale Piemontese ha mandato una lettera a tutti i 164 tribunali italiani, in cui dovrebbero essere istituiti i Consigli di Aiuto Sociale, chiedendo al Presidente di ogni tribunale notizie in merito.

I risultati della ricerca sono a dir poco clamorosi: hanno risposto in 90 e soltanto 1 (quello di Crotone) dichiara che il Consiglio di Aiuto Sociale istituito presso il tribunale che presiede svolge il proprio compito istituzionale. Abbiamo chiesto a Jolanda Casigliani, del Comitato Nazionale di Radicali Italiani, come è nata la loro ricerca e che considerazioni dovremmo trarne, tutti noi che ci occupiamo di carcere.

 

Com’è nata l’idea di svolgere questa ricerca?

Abbiamo svolto una ricerca sull’illegalità nelle carceri italiane, essendo questo un capitolo del dossier sul "Caso Italia", che Radicali Italiani ha redatto quest’anno per evidenziare, appunto, l’illegalità in cui vivono le istituzioni italiane. Inoltre, svolgendo numerosissime visite ispettive nelle carceri piemontesi, in attuazione del mandato di consiglieri regionali, abbiamo constatato che parti cospicue della legge Gozzini, nonché dell’Ordinamento Penitenziario, sono rimaste colpevolmente inapplicate.

In occasione di convegni ed incontri fra gli operatori del settore, abbiamo sempre sentito ripetere che uno dei problemi principali è quello di creare una rete di collaborazione fra i vari soggetti che operano nel pianeta carcere: magistratura a vari livelli, enti locali, amministrazione penitenziaria, personale sanitario, enti pubblici e privati qualificati nell’assistenza sociale, associazioni di volontariato, rappresentanti del mondo del lavoro. Questo "tavolo di concertazione" si chiama Consiglio di Aiuto Sociale (artt. 74 - 77 della legge 354/75); così è emersa la necessità di svolgere un monitoraggio presso i 164 tribunali in cui devono essere istituiti i Cas, per verificarne l’operatività. I risultati sono noti.

 

Avete rintracciato dei detenuti, o ex detenuti, o famigliari di detenuti, che abbiano ricevuto una qualche forma di sostegno dai Consigli di Aiuto Sociale?

No. Non solo, alla richiesta di fornire dati sull’attività svolta dai Cas, i presidenti dei tribunali rispondono che il Cas non ha mai svolto alcuna attività.

 

Secondo voi i detenuti sono al corrente della possibilità di chiedere sostegno ai Consigli di Aiuto Sociale?

No. Anche perché la legge non prevede che sia il detenuto a fare richiesta di aiuto al Cas, il meccanismo è inverso; infatti, la legge dispone che sia il CAS a svolgere le attività di monitoraggio che portano all’acquisizione di tutte le informazioni sulle necessità del detenuto e della sua famiglia.

 

Guardando alle date di cessazione delle attività dei Consigli di Aiuto Sociale dei vari capoluoghi circondariali si ricava che, all’entrata in vigore della legge 354/75, in tutti i tribunali furono costituiti i relativi Cas. Non vi è stato possibile trovare delle notizie sull’attività svolta dai Cas dal 1975 al momento della chiusura?

No. I tribunali non ci hanno fornito notizie in merito. È ragionevole pensare che, dati i tempi "biblici" che la pubblica amministrazione impiega per dare attuazione alle leggi, l’entrata in vigore del Dpr n° 616 del 77 (che trasferiva alcune competenze), a soli due anni dall’entrata in vigore della legge n° 354 del 75 che istituiva i Cas, ha impedito alla stragrande maggioranza dei Consigli di attivarsi concretamente. Infatti, anche i tribunali che dichiarano costituito, attualmente o nel passato, il Cas, affermano che il medesimo non è mai stato "operativo".

 

Quali sono state le modifiche normative che hanno trasferito alcune competenze sull’assistenza ai dimessi dalle carceri dai C.A.S. ai servizi sociali territoriali?

Le modifiche normative che hanno trasferito in parte le competenze sono il Dpr n° 616 del 24.07.1977 al Titolo III artt. 17 – 22 – 23, promulgato in attuazione della delega di cui all’art. 1 della legge n° 382 del 22.07.1975 in materia di "Norme sull’ordinamento regionale e sulla organizzazione della pubblica amministrazione". In seguito a queste modifiche il Ministero di Grazia e Giustizia inviò a tutti i tribunali due circolari, dando disposizioni precise sulla prosecuzione delle attività non trasferite (per ulteriori informazioni www.ristretti.it).

 

Per quanto avete potuto capire la trasmissione delle richieste di assistenza, dai Cas ai servizi sociali territoriali, viene fatta con rapidità?

Per quanto detto sopra, questa trasmissione di dati non avviene e basta.

 

A questo punto, che ne dite di fare un’indagine sull’attività dei servizi sociali territoriali a favore dei detenuti, ex detenuti e loro famiglie?

Anche se non ancora sistematica, questa indagine da parte nostra è già iniziata. Intrattenendo una fitta corrispondenza con i detenuti delle carceri piemontesi, spesso capita che, una volta usciti, alcuni di loro si rivolgano a noi per sapere quale percorso intraprendere per riuscire a sopravvivere in una situazione che li vede sprovvisti di tutto: casa, lavoro, soldi. Oppure si rivolgono a noi i familiari, le mogli senza lavoro con figli piccoli, etc., etc..

Così mi è capitato di accompagnare queste persone nel disperante "giro dell’oca" da un servizio sociale all’altro, da una associazione di volontariato all’altra, dal Ser.T. al Cssa e ritorno, senza mai giungere a nessun traguardo. Si entra nel circolo vizioso dello scarica barile fra i servizi. Esempio: il servizio sociale territoriale competente per elargire un sussidio aspetta il programma dal Ser.T. che aspetta il rapporto del Cssa che aspetta la sintesi dell’educatore e mentre si aspettano a vicenda i detenuti e le loro famiglie sono travolti dall’indigenza.

 

Avete altre osservazioni da aggiungere?

Aggiungerei che, se alcuni tribunali stanno convocando i Cas, come ad esempio quello di Torino, significa che: ci sono tribunali che applicano la legge, pochi, ma ci sono; una funzione questi organismi ce l’hanno (a nostro avviso anche molto importante), quindi dobbiamo esigere che siano istituiti in tutti i tribunali.

Basta leggere quanto prevede la legge circa le finalità dei Cas per rendersi conto della loro utilità. Le persone che hanno avuto problemi di detenzione sono portatrici di disagi multipli che richiedono competenze e interventi specifici; ma per non cadere nella frammentazione di tali interventi occorre coordinare le varie "figure" che a vario titolo entrano in contatto con il detenuto e il liberando, perché l’integrazione dei vari interventi qualifica l’azione di tutti i soggetti e sviluppa sinergie.

Noi Radicali riteniamo che una grande "rivoluzione" nel sistema penitenziario italiano sarebbe già quella di ottenere l’applicazione delle leggi vigenti. Se fosse stata applicata la Gozzini, non ci sarebbe stato bisogno del cosiddetto "indultino": i benefici di legge previsti, sarebbero più che sufficienti a mantenere i numeri dei "ristretti" in dimensioni più ragionevoli.

 

Sintesi della ricerca svolta dal Gruppo Consiliare Radicale Piemontese

 

78 C.A.S. non costituiti;

7 C.A.S. costituiti ma non operativi: Mondovì, Pisa, Sala Consilina, Sondrio, Teramo, Verbania, Verona;

3 C.A.S. in via di costituzione: Bergamo, Torino, Venezia;

2 C.A.S. si definiscono operativi ma non forniscono i dati, da noi richiesti, sull’attività svolta: Catania, Lucera.

 

Coloro che rispondono negativamente cioè "Non è costituito" o "Non operativo", adducono motivazioni diverse e non pertinenti con il dettato della legge. Eccone alcuni esempi:

"Non è operativo non essendovi nel circondario Istituti di Pena" (ma la legge non prevede questo vincolo!) - Acqui Terme, Nola, Mondovì.

"Non costituito in quanto non capoluogo" (ma la legge parla di capoluogo del circondario su cui ha competenza il tribunale, non di capoluogo di provincia) - Cassino.

"Non essendo mai sorta l’esigenza di istituirlo" (il presidente del tribunale non "sente l’esigenza" di applicare la legge!) - Ragusa.

"Non è operativo perché non è pervenuta la richiesta di casi bisognevoli dell’intervento assistenziale del CAS" (Incredibile!) - Pisa, Vercelli, Verbania, Rovereto.

"Chiuso per inattività" (non lo fanno funzionare e poi lo chiudono perché non funzionava!) - Piacenza.

"La summenzionata normativa potrebbe (?) trovare applicazione presso i tribunali di sorveglianza" (questo Presidente non è andato neanche a riguardarsi la legge!) - Sanremo.

Il Presidente ammette residue competenze, ciò nonostante non ha più costituito il C.A.S. – Crema.

Uno soltanto risponde in modo conforme alla legge: "Attività limitata alla trasmissione agli enti locali delle richieste di assistenza" - Crotone.

Tutti gli altri rispondono con un secco: "Non costituito" - "Non operativo" - "Negativo". Occorre sottolineare che i servizi sociali territoriali, a cui sono state trasferite parte delle competenze dei C.A.S., non effettuano alcuna assistenza, né a detenuti e liberandi, né alle loro famiglie.

A Piccoli Passi fuori dal carcere

 

I piccoli e i grandi problemi di una casa di accoglienza che ospita i detenuti, ma anche le loro famiglie

 

Si chiama "Piccoli passi", è una casa di accoglienza per detenuti, e per noi che l’abbiamo vista nascere di passi ne ha fatti parecchi, in questi anni. La responsabile è Eleonora Dalla Pasqua, una

volontaria che la gestisce assieme al Gruppo Operatori Volontari Carcerari di Padova, di cui fa parte. L’abbiamo invitata in redazione perché sul nostro giornale abbiamo parlato di tante esperienze di accoglienza in altre città, ma, come capita spesso, non abbiamo ancora raccontato quello che succede "a casa nostra"

 

Ci racconti come è nata l’esperienza dei "Piccoli passi"?

La Casa di Accoglienza l’abbiamo aperta nel 1999, ma la vera attività è partita nel maggio del 2000 e, all’inizio, abbiamo faticato parecchio. Il fatto è che i volontari non sono mai abbastanza, anche perché molti di loro sono giovani e di conseguenza il loro volontariato è molto precario: a me fa piacere avere dei giovani, però questo continuo cambiamento e riorganizzazione dei turni mi dà un po’ di lavoro in più.

Finalmente nel 2001 siamo riusciti ad avere un bel gruppo, che io chiamo "il vecchio gruppo": senza di loro io mi sentirei persa e credo che non ce la farei, dichiarando così tutta la mia debolezza e fragilità. Non è facile creare un gruppo omogeneo, che lavori in sintonia, in simpatia e con una certa capacità di rapportarsi l’un l’altro. Ma ci siamo riusciti, e così abbiamo fatto passi da gigante, ospitando ben 152 persone, con 345 giorni di presenza.

Nel 2002 abbiamo raggiunto le 198 presenze, con 538 giorni di permessi e 3.815 ore di volontariato. Quest’anno, a tutt’oggi, abbiamo già superato queste cifre. Questo è significativo per far capire l’importanza di questa casetta: ce l’ha sottolineato anche il Magistrato di Sorveglianza che, in assoluto, siamo la struttura che accoglie più persone.

Sono state inoltre ospitate, non solo giornalmente, ma anche la notte, 19 famiglie. L’importante è che veniamo informati per tempo, in modo che io possa organizzare nel miglior modo la sistemazione dei famigliari.

 

Voi ospitate solo persone in permesso?

No, abbiamo ospitato pure persone in affidamento. All’inizio abbiamo avuto anche qualche esperienza negativa, forse perché eravamo un po’ sprovveduti, dicevamo "sì" senza valutare certi problemi. Abbiamo ospitato anche un ragazzo che aveva già terminato la pena, in accordo con il C.S.S.A., per tre mesi, poi gli hanno trovato un appartamento. Noi vorremmo continuare a lavorare con il C.S.S.A., naturalmente chiedendo che si impegni entro un periodo di tempo definito a trovare la casa per le persone che ci chiede di ospitare, senza costringere noi a buttarle fuori, perché questo è doloroso. Attualmente abbiamo un ospite in sospensione pena, che aspetta l’affidamento… vediamo se glielo danno, anche perché le stanze ci servono. Non è che posso dire di sì ad uno e di no ad un altro: abbiamo due camere grandi e due piccole, in definitiva si tratta di 5 posti letto, e non sono tanti.

 

Quando una persona vuol venire da voi, la incontrate prima in carcere?

No, noi non abbiamo nessuna preclusione. Tante volte vado a parlare con i detenuti che mi chiedono se possono fare la domandina per venire alla Casa, ma è da quando l’abbiamo aperta che diciamo: tutti siete accolti.

 

E se la moglie viene a trovare una persona in permesso?

Se arriva la moglie, il volontario si sposta in un’altra camera e loro possono stare da soli.

 

Di solito i detenuti che vengono lì in permesso sono agli arresti domiciliari?

No, generalmente hanno il permesso di uscire, o da soli, o accompagnati da un’assistente volontaria.

 

All’inizio della vostra attività c’è stata una discussione sull’accoglienza delle persone tossicodipendenti. Come si è risolta la questione?

Certo ospitare i tossicodipendenti è un rischio maggiore, però non ci pare giusto fare discriminazioni.

 

Sappiamo che avete avuto dei problemi recentemente, e vorremmo parlarne, anche perché è inutile nascondersi dietro un dito: noi preferiamo affrontare anche le questioni spinose, e il sospetto che la casa attiri qualche spacciatore è una questione spinosa. Il fatto è che per una struttura di questo tipo non è facile farsi accettare in un dato ambiente e, se qualcuno dice che lì intorno si spaccia, rischi pure di essere costretto a chiudere… la preoccupazione è quella di non rovinare un lavoro faticoso di anni.

 

Qualche problema lo abbiamo avuto, e per questo abbiamo chiuso per un mese alla notte, per attrezzarci ad essere presenti sempre. La necessità di una presenza continua di volontari è una cosa che ci è stata detta più volte dai magistrati di sorveglianza, perché "struttura protetta" vuol dire che deve essere coperta 24 ore al giorno. Del resto il magistrato ci ha fatto anche un esempio chiarissimo: che chi ospita a casa sua una persona non è che poi la può salutare e lasciare là da sola, altrimenti vuol dire che non l’ha ospitata davvero bene.

 

Parlare di ospiti personali è un conto, ma in una Casa d’accoglienza è molto impegnativo essere presenti anche la notte.

Lo so, ma si pretende questo da noi. Adesso cerchiamo di attrezzarci per fare una turnazione anche la notte. Vorremmo tante cose e vedremo le nostre forze cosa ci permetteranno di fare: parleremo con la Caritas e con il Comune, per capire se hanno disponibilità. A dire la verità però finora sul comportamento dei ragazzi ospitati non ho niente da dire: capita che ci sia qualche piccola scorrettezza, qualche menefreghismo, ma sono cose che succedono anche nelle famiglie "normali".

Con l’alcol, avete avuto problemi? Anche perché molti in carcere assumono terapia, e fuori spesso finisce che l’alcol per parecchi detenuti diventa un sostitutivo degli psicofarmaci.

L’alcol da noi è vietato in maniera assoluta. Se poi uno lo prende e lo beve di nascosto… ecco che allora servirebbe una maggiore presenza nostra: fino a qualche giorno fa noi ci stavamo infatti solo dalle 9.00 alle 18.30 ed era poco, lo dicevamo anche noi. Oggi però, per fortuna, c’è una presenza di volontari giorno e notte.

 

Paolo Moresco (Ristretti Orizzonti):

Mi pare evidente che una struttura di questo genere, che tutto sommato è appesa ad un filo, debba proteggersi anche dagli sbadigli.

 

Elton Kalica (Ristretti Orizzonti):

Il problema è come proteggersi. Nelle carceri spesso c’è qualcuno che infrange le regole, e le direzioni prendono poi dei provvedimenti, che spesso rendono la vita più difficile per tutti, in modo che i detenuti capiscano quello che succederà se vanno avanti così. In una casa di accoglienza, dove in fin dei conti vengono pur sempre dei detenuti, che appena escono vogliono almeno sentirsi un po’ più liberi, è facile che qualcuno pensi di bersi un bicchiere di più… sono cose che succedono.

In carcere ci sono tanti alcol e tossicodipendenti ed è difficile pensare che li possiate correggere durante un permesso, fare in modo che cambino idea, che abbiano un maggior senso di responsabilità. Spero però che una struttura come la vostra, se si verifica qualche violazione delle regole, non debba prendere provvedimenti come la chiusura di sera, con la speranza che così non possa venire nessuno a creare dei problemi. Perché dobbiamo far pagare anche agli altri detenuti le colpe dei loro compagni?

 

Eleonora Dalla Pasqua:

E perché noi dobbiamo rischiare che tutti i detenuti non abbiano più una struttura dove andare, solo perché lasciamo la "manica" un po’ larga? Cerchiamo di stringerla un po’ piuttosto, anche se in qualche periodo i detenuti faranno solo permessi giornalieri, non è poi una grande punizione, ma serve come avviso. L’ho sentito dire un po’ da tutti, che se succede qualcosa di serio le case di accoglienza rischiano di chiudere, e allora ne venite a patire tutti voi.

 

Elton Kalica:

Ho capito che la struttura va tutelata, ma i miei dubbi sono sul modo in cui la si tutela; noi siamo già abituati ad avere punizioni qui in carcere, fuori vorremmo che le cose andassero diversamente.

 

Ornella Favero (Ristretti Orizzonti):

Ti faccio un esempio, Elton. L’anno scorso a Civitas, la fiera del terzo settore, avevamo quindici detenuti in permesso per tre giorni; è successo che la prima sera, al rientro, uno ha portato dentro della "roba", ci siamo ritrovati subito gli articoli sui giornali, perché queste cose le paghi, e, il giorno dopo, siamo stati costretti a chiedere i documenti alle persone che venivano al nostro stand a trovare i detenuti: è una cosa orrenda, perché noi non siamo controllori, ma non è semplice gestire queste situazioni. Il problema dei "Piccoli Passi" è che hanno una struttura considerata protetta e, finora, l’hanno gestita in modo più aperto di quello che prevedeva la struttura stessa… adesso non è che chiudano, ma applicano la regola per cui, o c’è qualcuno 24 ore su 24, oppure non possono tenerla aperta sempre.

 

Francesco Morelli (Ristretti Orizzonti):

Una cosa che mi ha colpito è che da voi l’alcol sia proibito. Il motivo lo posso immaginare, ma se uno va in un posto dov’è proibito bere e poi beve di nascosto non mi sembra il massimo della vita. Per me uscire dal carcere e dover fare le cose di nascosto è una cosa molto umiliante. Se tu aiuti le persone, portandole fuori dal carcere, allora introduci anche l’idea di spazi per fare un percorso, con riflessioni e ragionamenti: la proibizione chiude gli spazi di riflessione, ti mette di fronte ad un muro. Se guardi sui permessi non c’è scritto "non farà uso di alcol", ma "non abuserà di sostanze alcoliche", quindi questa proibizione assoluta l’avete messa voi alla casetta… così rischi di non confrontarti con le persone, ti imponi e basta…

 

Eleonora Dalla Pasqua:

Tu metti in evidenza solo le esigenze della persona, ma non metti in evidenza la struttura ed il rispetto per chi porta fuori in permesso le persone detenute. La struttura è questa, se ne accetti le regole vieni, se non ti piace cerchi un’alternativa.

 

Ornella Favero:

Con il problema del bere ti misuri continuamente, quando hai le persone in permesso. Non è il fatto di bere il bicchiere, il problema è dov’è il limite e come lo fai rispettare. È molto difficile proibire, io non l’ho mai fatto, ma non so cosa farei se avessi una struttura di quel tipo. Secondo me queste persone dovrebbero essere seguite, non da voi, ma da chi si occupa direttamente di questi problemi, e in una struttura di accoglienza forse questi operatori non dovrebbero mancare.

 

Marino Occhipinti (Ristretti Orizzonti):

Se non ci fosse stato il problema dell’abuso penso che non sarebbero arrivati a mettere la regola. È vero che può essere fastidiosa la forma di controllo o la limitazione che hanno messo adesso, ma è meglio fare un passettino indietro, magari per un mese o due, piuttosto che ritrovarsi con questa struttura chiusa, il che significherebbe per tante persone non poter andare in permesso.

 

Max Canducci (Ristretti Orizzonti):

Con le persone però bisogna comunicare, perché quando io vengo in prigione è perché ho commesso un reato, e non credo riescano a farmi capire il perché l’ho fatto a forza di restrizioni. È per questo che penso che, prima di arrivare a delle restrizioni di qualsiasi tipo, bisogna cercare di parlare alle persone.

 

Ornella Favero:

Le persone, molto spesso, quando vanno in permesso in queste strutture pensano esclusivamente a sé, ma dovrebbero fare i conti col fatto che una struttura deve tutelare la sua sopravvivenza, perché è quello che viene messo in discussione, non il singolo permesso.

Il fatto che ci siano delle regole di convivenza, dettate dalla necessità di far funzionare la struttura, mi sembra che sia accettabile… certo non credo che se uno beve una birra venga escluso dalla struttura. Però è chiaro che si parte sempre con l’idea di essere i più aperti, disponibili, democratici possibile e poi ci si scontra progressivamente coi problemi e ci si accorge che forse bisogna mettere dei paletti.

 

Eleonora Dalla Pasqua:

Abbiamo visto strutture molto più robuste della nostra che sono andate incontro a problemi ben più gravi, arrivando a volte anche ad una chiusura temporanea. Noi di conseguenza abbiamo deciso di stare molto attenti, per meglio difendere il diritto di tutti di godere dei permessi premio in una struttura protetta come i "Piccoli Passi". 

A Busto Arsizio inaugurato un Centro di Ascolto Carcere

 

Nato dalla collaborazione tra la Caritas Decanale e l’Associazione Volontariato Giustizia Territorio, è uno strumento a sostegno delle persone giunte a fine pena o ammesse a pene alternative e delle loro famiglie

 

di Marino Occhipinti

 

L’Associazione Volontariato Giustizia e Territorio è una Onlus, cioè un’organizzazione non lucrativa di utilità sociale, ispirata ai principi cristiani del "farsi prossimo e del saper condividere", ed è nata nel mese di luglio 2003, all’indomani di una serie di corsi di formazione sul volontariato che si sono tenuti presso la parrocchia S. Croce a Busto Arsizio, su sollecitazione del cappellano del carcere e parroco della stessa parrocchia, don Silvano Brambilla.

Le finalità perseguite riguardano la solidarietà sociale nei confronti delle nuove povertà e, in particolare, delle persone con problemi penali e delle loro famiglie. I 26 volontari del Vol.Gi.Ter. si occupano delle attività di ascolto e di accoglienza, di sostegno materiale e morale, di accompagnamento al recupero del diritto alla dignità civile, di progettazione di percorsi di orientamento al reinserimento sociale, di documentazione rispetto alla normativa, alle pratiche, alle esperienze e ad ogni informazione che possa favorire percorsi di reinserimento.

Inoltre, gli aderenti al Vol.Gi.Ter. lavorano alla formazione e al continuo aggiornamento degli operatori mediante corsi mirati, alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulle tematiche della giustizia, del carcere e del suo rapporto col territorio, in conformità ai principi costituzionali e alle leggi vigenti; vengono incentivate le promozioni ed il sostegno di iniziative tese alla diffusione della legalità nei diversi ambiti: educativo, sociale ed economico.

Infine, l’Associazione si occupa del coordinamento con le istituzioni del territorio, regionali, provinciali, comunali, la magistratura, le forze politiche, l’amministrazione penitenziaria, le organizzazioni del privato sociale e del volontariato per ottimizzare le risorse attraverso sinergie e azioni in rete.

 

Che cosa è esattamente il Centro di Ascolto?

È un Centro di Ascolto sul tema "Carcere" e sulle situazioni ad esso collegate. Si affianca all’esistente Centro di Ascolto "don Alfonso Milani" della Caritas Decanale ed affronta i bisogni che il mondo carcerario propone con crescente urgenza e drammaticità alla comunità cristiana e alla società civile. Inoltre, vuole essere uno strumento della Caritas e del "territorio" a sostegno delle persone che, giunte a fine pena o ammesse a pene alternative, necessitano di aiuto per recuperare a pieno titolo il diritto alla dignità civile, quindi è un punto di riferimento per le persone con problemi penali e per le loro famiglie.

 

Perché avete deciso di aprire un Centro di Ascolto Carcere?

"Perché - dicono i responsabili dell’Associazione - avvertiamo, a proposito del carcere e di tutto quanto ruota attorno ad esso, una "povertà" dura da comprendere, ignota ai più, spesso rimossa nella coscienza individuale e collettiva, talvolta vissuta in modo ostile. Per contrasto, cogliamo nel territorio i segni di una crescente domanda di aiuto e sostegno in questo ambito da parte di chi é passato attraverso l’esperienza carcere e intende reinserirsi nella società. Inoltre, come cristiani ci sentiamo interpellati dalla parola del Signore e dal vissuto dei nostri fratelli a cui vogliamo rispondere, con ascolto attivo.

Come cittadini, vogliamo che l’articolo 27 della Costituzione abbia compimento e che la funzione rieducativa della pena non sia vanificata da indifferenza e chiusura al termine della stessa, anche perché come volontari crediamo che l’ascolto sia il primo e fondamentale strumento per giungere alla condivisione che ci interroga sul rapporto carità-giustizia e sulle sue mediazioni.

Nella consapevolezza che il Centro di Ascolto, non avendo mezzi propri, né risorse, poco avrebbe potuto nel rispondere ai bisogni materiali, è stato deciso di creare una "rete" di sostegno con altre associazioni operanti sul territorio che potessero fornire consulenze mediche, legali, psicologiche e soprattutto risorse materiali, in particolare generi alimentari e vestiario.

L’associazione ha intenzione, comunque, nonostante le difficoltà e le diffidenze, di proporre una segreteria di coordinamento di tutte le realtà di volontariato che operano attorno al carcere di Busto, per meglio ottimizzare le risorse e per divenire interlocutori "forti" nei confronti delle Istituzioni.

È a buon punto anche la procedura per aprire, nell’autunno del 2004, una Casa di Accoglienza per detenuti in permesso premio, misure alternative e per ex detenuti senza dimora, con l’intento di accompagnarli al recupero della propria autonomia e al progressivo reinserimento nella società attraverso progetti mirati".

 

Riassumendo, quali sono quindi gli obbiettivi del Vol.Gi.Ter.?

Gli obbiettivi principali sono essenzialmente cinque: 1) promuovere, responsabilizzare, ridare dignità, riconoscere e tutelare i diritti della persona attraverso progetti di aiuto mirato; 2) accompagnare le persone nel progressivo processo di liberazione dalle cause che hanno provocato la devianza; 3) sostenere e favorire l’attuazione di nuovi progetti di vita; 4) operare concretamente perché si possa costruire una via non illusoria che consenta di arginare la reiterazione del reato; 5) impegnarsi per reinserire le persone nella vita lavorativa e nel tessuto sociale del territorio.

 

Centro di Ascolto Carcere: Via Pozzi, 7 – 21052 Busto Arsizio – telefono 0331 627797. Aperto nelle giornate del martedì e venerdì dalle 16.00 alle 19.00 

Finalmente anche a Padova un Polo Universitario Penitenziario

 

Per chi ha il coraggio di "investire" tutto il proprio tempo in carcere nello studio. Finalmente anche a Padova un Polo Universitario Penitenziario

 

A cura di Marino Occhipinti

 

Anche il Triveneto avrà il suo Polo Universitario Penitenziario. Sarà infatti a Padova che presto i detenuti potranno laurearsi, grazie ad una convenzione stipulata tra il Ministero della Giustizia (Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria e Direzione della Casa di Reclusione) e l’Università degli Studi della città del Santo, che quasi un anno fa - ponendo alla base del progetto l’articolo 27 comma 2 della Costituzione, nella parte in cui prevede che "le pene devono tendere alla rieducazione del condannato" - hanno dato il via all’iniziativa.

Un progetto del quale si avvertiva fortemente la necessità, così come c’è un gran bisogno di persone disposte a studiare, in carcere, se è vero che, secondo fonti del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, il tasso di scolarizzazione della "popolazione detenuta" – registrato al 15.01.2002 – è davvero basso, di soli 476 laureati e 2.162 diplomati a fronte di un totale di ben 55.751 presenze.

Padova segue l’esempio di Torino Le Vallette, primo Polo creato in Italia nel 1998, cui hanno fatto seguito Prato nel 2000, Pisa e San Gimignano nel 2002, mentre in altre regioni si stanno sviluppando i relativi protocolli d’intesa e le convenzioni che porteranno alla creazione di ulteriori sedi universitarie in carcere.

Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando Lorenzo Contri, fino a qualche anno fa professore di Scienza delle Costruzioni della Facoltà di Ingegneria presso l’Università di Padova, in una bella intervista raccontava uno dei primi tentativi di integrazione fra università e carcere, descrivendo così il suo segreto taciuto per oltre trent’anni: "Il dottor De Mari, allora direttore del carcere di Padova, consentiva che accompagnassi lo studente (detenuto) all’Università, insieme a un agente in borghese. Allora non esistevano i permessi. Se fosse successo qualcosa durante il tragitto sarebbero stati guai grossi! Ma mai nessuno degli studenti detenuti ebbe il minimo dubbio sulla lealtà da rispettare. Ne andava dell’intera esperienza! Avevano residui di pena ancora lunghissimi, ma sapevano che qualunque sciocchezza sarebbe ricaduta sui loro compagni. D’altra parte non c’erano alternative. Le commissioni d’esame non andavano in carcere".

I tempi sono cambiati e certi sistemi non sono più ammessi, in compenso si sono affinate ed evolute le normative riguardanti lo studio negli Istituti di pena italiani.

Il nuovo Regolamento di esecuzione dell’Ordinamento Penitenziario, ad esempio, prevede infatti che l’istruzione - insieme al lavoro, alla religione, alle attività culturali, ricreative e sportive - sia un elemento irrinunciabile del trattamento rieducativo da offrire come opportunità alla persona temporaneamente detenuta, nella prospettiva del suo reinserimento nella società.

Il Polo Universitario Penitenziario di Padova sarà situato in un’area parzialmente staccata dal resto del "nucleo vivo" del carcere ed avrà una capienza di una dozzina di posti. In questa prospettiva la Direzione della Casa di Reclusione ha organizzato una selezione, operata da un comitato appositamente istituito, che ha vagliato le numerose domande provenienti anche dai detenuti delle altre carceri. Solamente di sesso maschile, per ora, ma non è esclusa la possibilità di estendere l’opportunità anche alle donne ristrette.

Al momento le facoltà interessate saranno quelle a carattere umanistico, e cioè scienze politiche, giurisprudenza, scienza della formazione e lettere. Sono previste celle singole, aule studio, sale computer e biblioteca fornita di materiale didattico all’altezza. Da rilevare, inoltre, l’importanza che avranno il sostegno di assistenti e tutor di nomina universitaria ed il collegamento telematico con i docenti, che, per le lezioni più impegnative, si recheranno direttamente in carcere. Un progetto ampio e complesso, strutturato in maniera da favorire un effettivo ed efficace avvicinamento dei detenuti-studenti del Polo al mondo della scuola e della formazione universitaria.

L’obiettivo finale, insomma, è quello di potenziare i programmi di studio e di superare quegli ostacoli di carattere organizzativo e burocratico che, finora, hanno scoraggiato anche il più motivato degli studenti dall’intraprendere il proprio percorso di studi universitari.

 

 

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