Parliamone

 

I soldatini della semilibertà

 

È vero, quando si è fuori in misura alternativa si deve imparare a rispettare le regole, ma a volte sei ancora molto fragile e quelle regole che dovrebbero anche "proteggerti" ti schiacciano inesorabilmente

 

Quelle che seguono sono storie di errori e anche sconfitte. Persone a cui sono state concesse le misure alternative e che non ce l’hanno fatta. Raccontano che la galera è dura, ma uscire in semilibertà, in affidamento, articolo 21, arresti domiciliari non è così semplice e bello come sembra. Le persone che hanno accettato di spiegare le difficoltà che hanno avuto nel dopo-carcere, quando non hanno retto alle regole di un programma pensato per il loro reinserimento, non lo hanno fatto per cercare giustificazioni o per autocommiserarsi, ma per aiutare tutti a capire, per esempio, che non basta il lavoro a far sentire un detenuto "reintegrato" nella società, e che spesso non è sufficiente la gioia di non essere più in carcere a dare la forza per reggere il peso dei tanti limiti, lo stress degli orari e dei ritmi calcolati a tavolino che contraddistinguono le misure alternative. Allora parliamone, sapendo bene che in ogni caso è fondamentale questa possibilità, concessa a chi deve scontare una pena, di passarne parte fuori, impegnati in una attività lavorativa "normale", e che anzi le misure alternative andrebbero applicate di più, perché sono l’unico mezzo per uscire in modo graduale e preparati alla vita fuori. Ma sapendo anche che le modalità con cui vengono applicate forse si potrebbero ridiscutere, con la consapevolezza che non è facile per un detenuto trasformarsi, da persona che ha violato le regole, a persona che ne deve osservare di rigidissime.

La Redazione

Il ritorno in "quasi libertà"

 

Ma il fallimento è dietro l’angolo, un passo falso è facile compierlo, la determinazione a dare una svolta alla propria vita a volte non basta

 

di Nicola Sansonna

 

Il carcere rallenta i ritmi, tende a dilatare il tempo riducendo ai minimi termini lo spazio. Certo è un’occasione per ripensare alla propria esperienza di vita, e non mancano quelle notti interminabili, in cui il sonno si perde inseguendo i propri pensieri: la famiglia, il lavoro che ci aspetta in futuro, un pensiero ai guai combinati e che, certo, ripensandoci non avremmo mai commesso. Perlomeno per il prezzo che si paga.

Un pensiero aiuta a superare quelle interminabili notti che si susseguono sempre uguali a se stesse: Ci sono almeno le misure alternative! La liberazione anticipata (45 giorni ogni semestre di galera espiata ti vengono detratti, se la condotta è buona), la semilibertà, calcoli quanto è il presofferto, quanta liberazione anticipata ti tocca e finalmente una notte i conti tornano!

Sei nei termini per chiedere un beneficio. Già hai messo sottosopra il mondo per cercare presso qualche cooperativa sociale una richiesta di lavoro. Se sei fortunato la trovi, se sei ancora più fortunato guadagnerai anche qualche soldo, che ti permetterà di sopravvivere in semilibertà, senza dover chiedere alla famiglia un sostegno ad integrare il magro salario. Alcune cooperative pagano in maniera onesta e corretta, altre danno autentiche paghe da fame, gettoni di presenza, umilianti sussidi, ma chi vi lavora non vuole che se ne parli per la paura di perdere in tal modo la libertà.

La Camera di Consiglio che decide la tua scarcerazione è una pietra miliare nella tua vita. Da domani il mondo, fatto di pochi metri, con tutti quegli oggetti ormai cari, quei volti, quegli amici, tutto cambia, si torna a vivere. Molti hanno paura di questo passo, non sono leggende carcerarie, molti non hanno riferimenti esterni e vedono l’uscita come un salto nel buio, perché lasciano questa triste certezza e vanno dove non si sentono più adatti. Ormai estranei.

Da anni discutiamo tra noi della necessità di una struttura, di gruppi di sostegno pre-libertà. Si esce spesso con le idee confuse. Prendete la persona più lucida e cosciente, tenetela chiusa per alcuni anni, e poi misuratene "la lucidità": forse le carenze non sono evidenti, perché sono inconsce, a livello emotivo, ma non per questo meno dolorose, e certo un gruppo di auto-aiuto che prepari al dopo carcere potrebbe essere una buona risposta.

Ma ecco, sei finalmente libero! O semi-libero, agli arresti domiciliari, in semi-detenzione, comunque puoi respirare, almeno in parte, la vita normale.

Ma non dimentichiamo che a chi esce dal carcere si chiede di comportarsi secondo precise e tassative prescrizioni:

devi seguire il tragitto più breve per recarti nel luogo di lavoro;

le soste intermedie, se non essenziali, sono da evitare;

hai orari che scandiscono la tua giornata, e sono precisi e tassativi

non devi rientrare ubriaco in istituto;

non devi accompagnarti a pregiudicati;

e se risulti positivo, anche ad una canna, questo equivale all’immediata chiusura.

Qualsiasi trasgressione, come l’uso del cellulare quando non è espressamente concesso, equivale a ritornare in carcere e dire addio per anni ai benefici.

Si può accettare ogni restrizione, se il premio è restare libero, ma sicuramente non è semplice rimanere perfetti. Una cosa che appesantisce ulteriormente la fruizione di misure alternative è l’esclusione completa da tutte le attività culturali. Se sei semilibero o in art. 21, non puoi frequentare, nel tempo "libero" che devi trascorrere in galera, nessun corso che si svolga in carcere, ti è preclusa pure la possibilità di andare a messa la domenica, anche se sei di fatto ancora detenuto.

Questa improvvisa esclusione da tutte le attività culturali e socializzanti, sostituita dal lavoro, con percorsi obbligati e regole rigide, per molti diventa, dopo un periodo di euforia iniziale, deprimente. Si dovrebbe pensare anche a qualche attività culturale per chi torna in istituto prestissimo e per giunta fa il sabato e la domenica in carcere senza poter uscire, e questo certamente aiuterebbe.

Il fallimento è dietro l’angolo, un passo falso è facile compierlo, la determinazione a dare una svolta alla propria vita a volte non basta.

Io sono uno di quelli che ha un fallimento alle spalle, sette anni fa fui assegnato al lavoro esterno e durai otto mesi, fui arrestato durante una rapina. Sbagliando cercai la strada più breve, il modo che conoscevo per risolvere il "problema soldi". Rapinai una banca.

Il senso di frustrazione che ti cade addosso dopo un fallimento è enorme, sentivo di aver tradito chi si era fidato di me, la mia donna, i miei cari, le persone che mi avevano aiutato, educatori che avevano creduto nelle mie potenzialità, magistrati che si erano presi la responsabilità di farmi uscire. Feci la scelta sbagliata per risolvere un problema, che poi si sarebbe risolto ugualmente, ebbi fretta, non seppi attendere i tempi giusti: volevo recuperare il tempo trascorso in carcere, non avevo dato ancora alle cose il giusto valore. La libertà è forse il valore più alto, insieme alla famiglia e alla stima che hai per te stesso. Ma c’era ancora tanta confusione in me, dopo sedici anni di carcere. Risultato, ritornai nuovamente dentro. Oltre ai quattro anni di condanna per rapina, mi furono revocati altri due anni di indulto, non mi furono concessi sei anni di liberazione anticipata (un anno e mezzo di sconto di pena), mi è stato riaperto il cumulo e dichiarato errato il calcolo ed il metodo applicativo. Mi ritrovai alla fine con dodici anni e mezzo di pena definitiva, per un reato che ad una persona che non fosse stata nelle mie condizioni sarebbe costato al massimo un anno e mezzo di carcere, mentre io ho già scontato sette anni dal nuovo arresto ed il mio fine pena è ancora relativamente lontano.

Non recrimino niente, perché chi ha sbagliato sono io. Le misure alternative e il ritorno alla società sono il vero momento di incontro con la realtà, dopo anni di una vita che non è vita. Superato questo gravoso percorso ad ostacoli, il premio ultimo è la libertà, ma spesso la realtà con cui andiamo a confrontarci, nella quale dobbiamo fare ritorno, ci appare esageratamente dura, e in molti casi lo è, ma è l’unica strada possibile.

Che succede se ti comunicano un mandato di cattura mentre sei in misura alternativa, e poi però ti assolvono?

 

di Daniele

 

E venne il giorno che mi concessero la semilibertà! Abituato da anni al "classico" stile di vita del carcere, dove il massimo dei pensieri è di trovare il modo di accorciare il tempo di permanenza e preoccuparsi che le persone a te care stiano bene, non nego l’emozione e la tensione nel trovarmi a dover affrontare questa nuova esperienza.

Il mondo esterno non lo ricordavo letteralmente più, così iniziò una vera e propria lotta per "ambientarmi". Ero stato assunto da una cooperativa sociale che si occupava di riciclaggio di materiale plastico, pulizie ed altre attività. Io fui assegnato al riciclaggio, il mio lavoro consisteva nel separare le bottiglie di plastica, i contenitori, che viaggiavano su un tappeto rotante e, quando passavano davanti a me, io dovevo effettuare la scelta. Non era complicato, ma non ero più abituato a restare tante ore in piedi e a mantenere continuamente l’attenzione su una determinata azione, e per giunta così ripetitiva, per sette ore: era per me molto pesante. Ero a pezzi! Stanco, ma appagato di aver trascorso la mia giornata fuori dalle mura carcerarie, non vedevo l’ora di addormentarmi in modo che giungesse in fretta il mattino per uscire.

Di certo avrei voluto consumare i miei pasti assieme ai miei famigliari, seduto a tavola e parlando del più e del meno. Ma il luogo dove lavoravo era lontano da casa mia e il tempo che il programma mi assegnava era sufficiente per lavorare e pranzare. L’incontro con i miei famigliari avveniva solo di domenica, perché non lavoravo e avevo il permesso ed il tempo di recarmi a casa.

Sempre per il poco tempo a me concesso trovavo anche difficoltà nel relazionarmi e socializzare con le persone che conoscevo.

A volte l’ossessione "dell’orologio" mi creava delle ansie e la paura di sbagliare qualcosa che il regolamento imponeva, e sapevo che se ciò fosse accaduto avrei dovuto subire un accertamento da parte dell’istituto e conseguenti richiami.

Il periodo che rimasi in semilibertà fu di otto mesi, me ne mancavano solo sei e poi avrei terminato la mia pena, ne intravedevo ormai il traguardo.

Una mattina mentre mi apprestavo ad uscire mi vennero incontro un certo numero di agenti e finanzieri, che mi comunicavano un mandato di cattura, e fui dirottato subito dall’uscita principale alla sezione del carcere: nuovamente il mondo mi crollava addosso!

Non riuscivo a comprendere il perché di questo nuovo mandato, e di fatti ben presto il tribunale della libertà ordinò l’immediata scarcerazione.

Per un meccanismo della legge, il mio beneficio fu però revocato, nel medesimo tempo mi licenziarono, perché fu segnalata la mia impossibilità a recarmi presso la ditta dove lavoravo, per l’avvenuto arresto.

Se solo avessero atteso il tempo necessario, che serve al Tribunale della Libertà per valutare se confermare o meno l’arresto, di certo io non avrei perso il lavoro, e terminata la mia carcerazione avrei mantenuto il mio impiego.

Sono comunque sempre convinto che queste misure alternative alla detenzione siano fondamentali per il detenuto che si avvia a riprendere una vita da libero, anche se i margini in cui poter curare gli affetti, migliorare i rapporti sociali e lavorativi non concedono molto spazio.

Riuscire a conciliare gli affetti con i ritmi e lo stress della vita in semilibertà è compito arduo

 

di Sandro Calderoni

 

Parlare di pene alternative per uno che ne ha trasgredito le regole non è un compito facile, perché mi ritrovo combattuto tra la testardaggine di quelle presunte ragioni, che poi mi hanno portato di nuovo al punto di partenza, e l’opportunità e la fiducia che le istituzioni mi hanno dato per permettermi di stare accanto ai miei cari, svolgendo un’attività lavorativa con la speranza di rientrare gradatamente nella normalità e nella quotidianità del vivere esterno.

Ripassando i momenti dell’attesa di quel beneficio, in cui ero disposto ad accettare qualsiasi restrizione pur di avere il modo di stare con le persone che amo il più possibile e al di fuori delle strutture alienanti, per chi ha degli affetti, che il carcere concede, ricordo che, quando lo ottenni, tutte quelle restrizioni, quei paletti imposti a chi è concessa una misura alternativa, mi sembravano poca cosa in confronto al dono che avevo ottenuto, e la determinazione che mettevo per rimanere nei parametri concessi era stoica.

Inizialmente mi pareva anche di riuscire a equilibrare i tempi per rimanere fuori con il lavoro e la cura dei miei affetti senza particolari problemi.

Invece poi i problemi, che quando sei fuori si susseguono incessantemente, non riuscivo a risolverli con i ritmi imposti dal trattamento rieducativo. Per me era come riemergere dallo stato di torpore che la lunga detenzione ti trasmette, e trovarmi "inadeguato": i tempi concessi si accorciavano, le giornate non erano più quelle a cui ero abituato, si erano come dilatate, e di conseguenza era una corsa a ostacoli per rispettare i tempi previsti nella misura alternativa, con i discorsi lasciati a metà, perché il tempo non permetteva di concluderli, la necessità di trascurare una parte degli affetti per non tralasciare gli impegni lavorativi, o viceversa. Insomma, ero diventavo un robot, programmato a muovermi in un determinato tempo per determinati motivi, e sempre il primo pensiero era quello di non trasgredire a tutte quelle regole che poi, confrontate con la realtà, assumevano aspetti veramente contrastanti… Perché se è vero che il reinserimento deve essere graduale, è anche vero che questa gradualità deve progredire in modo costante, nel senso che, se nei primi tempi gli obblighi possono essere tassativi, un po’ alla volta dovrebbero essere previsti maggiori spazi e possibilità.

Di fatto, mi venni a trovare in uno stato di frustrazione e d’impotenza, e non riuscivo ad affrontare finanziariamente ed affettivamente i problemi che, man mano che il tempo passava, sorgevano davanti a me. Cercare di far coincidere economicamente le mie necessità con quelle familiari diventava oneroso, tanto che nella maggior parte dei casi dovevo rivolgermi di nuovo ai miei cari, che già in questi lunghi anni avevano pesantemente contribuito al mio mantenimento, per avere un sostegno, dato che lo stipendio che percepivo non era neppure sufficiente per permettermi di rimanere dentro i tempi e le modalità imposti dal trattamento (viste le spese per i mezzi di trasporto, la quota che il carcere detiene sullo stipendio ecc).

Nel contempo riuscire a mantenere gli affetti era compito arduo, perché nel momento in cui puoi riunirti intorno ad un tavolo per consumare la cena è già tempo di rientrare in istituto e gli impegni che anche i familiari hanno non permettono loro di rendersi disponibili se non nelle ore non lavorative, che, nella maggior parte dei casi, sono quelle della sera. Quando io mi trovavo già in fase di rientro nel carcere.

Queste situazioni, unite alle piccole frustrazioni che inevitabilmente si accumulano quotidianamente, crearono una miscela esplosiva, lo stress aveva raggiunto il punto critico, oltre il quale si perdeva la capacità di rimanere lucidi… Quando mi resi conto che avevo, di nuovo, oltrepassato il punto di non ritorno, era ormai tardi, e ritornai così a ragionare nei modi e nei termini in cui ragiona una persona braccata, aumentando tensione su tensione, e arrivando inevitabilmente alla mia attuale incarcerazione.

Durante l’arresto mi sono passate davanti le immagini di un film già visto, con la prospettiva che questa volta il finale è tutto da riscrivere, perché mi rendo conto del fallimento di questa mia esperienza, in cui persone che mi hanno dato fiducia e hanno creduto in me sono state deluse.

Le aspettative che avevo cercato di concretizzare si sono dissolte attraverso un atto incosciente, un atto che credevo mi risolvesse in parte dei problemi, ma che, di fatto, me ne ha creato altri più seri.

Resta, al momento, l’opportunità che mi è stata data per raccontarmi ed avere, in termini emotivi, rivissuto quel periodo, permettendomi di comprendere che tutto ciò che ti è dato è un beneficio, al quale va concesso tutto il rispetto possibile, ma che andrebbe anche affrontato con la consapevolezza che siamo persone in difficoltà e abbiamo bisogno di una rete di sostegno e "salvataggio" intorno a noi.

Pensieri in libertà sulla comunità e sull’affidamento dei tossicodipendenti

 

di Renzo

 

Per i detenuti tossicodipendenti il raggiungimento dei termini, oltre ai quali si comincia a pensare alla libertà (o a un suo surrogato), è fissato a 4 anni di pena residua. Solo allora puoi chiedere di essere affidato in prova ai Servizi Sociali. In pratica da detenuto a tutti gli effetti diventi un malato in cura con una pena da scontare.

Dopo aver concordato con il tuo Ser.T (tutti i tossici che si rispettino hanno il loro Ser.T. di riferimento) un programma terapeutico, se quest’ultimo viene accettato dal Tribunale di Sorveglianza, vi si accede. Per la maggior parte dei Ser.T. vuol dire che hai la libertà di trovarti una comunità convenzionata e iscritta nell’apposito album regionale (più sarà "terapeutica" e maggiori saranno le chances che avrai davanti al Tribunale). C’è però da tener conto del fatto che questo percorso, se per noi italiani tossicodipendenti è difficile, per uno straniero diventa quasi impossibile, perché il Ser.T. per lo più non si fa carico delle spese.

Una volta individuata la comunità è buona norma tenere una sorta di corrispondenza, diciamo di conoscenza. E agli operatori si racconta la storia che è un po’ la stessa per tutti; che sei infognato dentro a un tunnel e non vedi come venirne fuori, una vita rovinata da scelte sbagliate, in pratica vuoi uscire quanto prima dalla droga e dalla galera. Io personalmente non saprei dire quanto valga questa corrispondenza, anche se gli interessati, Ser.T. e comunità, sono pronti a giurare che è essenziale.

Per chi ha i requisiti necessari, sarebbe comunque sufficiente che il Ser.T. contattasse la comunità e sbrigasse la pratica, che è puramente burocratica, come ho avuto l’impressione che sia anche la Camera di Consiglio che si tiene presso il Tribunale di Sorveglianza. Quando va bene, dura infatti il tempo che ti siedi e ti rialzi. Sfido qualsiasi detenuto a capirci qualche cosa su quello che dicono Pubblico Ministero e relatore. Cerchi di farti un’idea dall’espressione del Presidente, che in genere "si riserva" e tu stai lì come un deficiente, e resti poi sospeso ad aspettare anche per qualche settimana con i nervi a fior di pelle.

In realtà è ben difficile che non ti concedano l’affidamento presso una comunità, specie se è la prima volta (ne puoi avere 2) e in linea di massima la cosa è buona. Quello che invece non va, secondo me, è che SOLO nelle comunità si intravede la soluzione dei problemi; addirittura, e malgrado il fatto che ci siano anche numerosi fallimenti di queste strutture, ci sono politici che le vorrebbero come unico strumento di cura, negando validità e possibilità ad altre forme di intervento, sicuramente non meno adatte alla realtà e alle vicissitudini dell’emarginazione. Come, per esempio: essere seguiti da associazioni che si occupano dei tossicodipendenti, dando risposte ai problemi immediati di casa e lavoro e di sostegno psicologico e sanitario, il cosiddetto "accompagnamento". A Padova ci sono alcune associazioni, tipo "Noi. Famiglie padovane contro l’emarginazione", che fanno egregiamente tutto questo.

Innegabile che tante responsabilità dello stato di cose attuale ce l’hanno anche i servizi pubblici, soprattutto là dove si sono appiattiti nella distribuzione del metadone e a fare da anticamera delle comunità, sbrigando il loro servizio alla stregua di una qualsiasi pratica burocratica, salvo poi dire "che ogni caso è diverso da un altro, e ha bisogno di risposte diverse". Ma le risposte, invece, sono troppo simili: sarà forse per questo che sta affiorando l’idea di far gestire una ex struttura carceraria da una comunità, così come simili alle comunità sono le sezioni a custodia attenuata dentro al carcere.

Sinceramente ho avuto esperienze di ambedue, comunità e custodia attenuata, e ho sempre avuto la sensazione che il concetto rischi di essere quello di alzare un muro intorno al tossicodipendente, non si sa se per salvare lui dal mondo o il mondo da lui. Sono stato in quattro comunità. Quella nella quale mi sono trovato peggio è l’ultima, tanto da preferirvi il carcere. In altre mi sono trovato meglio, perché le modalità erano diverse, il lavoro ed il reinserimento erano al centro dei programmi. Quindi non solo piccoli divieti e grandi teorie… ma fatti.

La comunità però è un’esperienza che non vorrei più ripetere. Penso che possa essere utile per tante persone, ma non lo sia per me. E spero che non si voglia a tutti i costi dare solo questa alternativa.

Il semplice fatto che so che esistono le misure alternative mi aiuta ad espiare la mia detenzione con un po’ più di serenità

 

di Arturo Sansone

 

Personalmente, guardo alle misure alternative come unica soluzione di reinserimento nella società per chi si trova detenuto e penso che siano fondamentali, anche per ritrovare gli affetti familiari, il proprio ruolo nella famiglia e nella società. Ma non è un regalo che ti arriva dal cielo. Le misure alternative sono un beneficio, possono essere concesse a discrezionalità del Tribunale di Sorveglianza, in presenza di ben precisi requisiti. In primo luogo devi essere nei termini di legge, in secondo luogo devi mantenere sempre una buona e regolare condotta in carcere, devi attivarti, nel senso di frequentare corsi scolastici, attività culturali, sportive, perché servono a livello personale per accrescere le tue conoscenze, e sicuramente da un punto di vista psicologico per farti vivere più decentemente la carcerazione.

Ma basta anche poco per ottenere un rifiuto. Un rapporto, una giornata storta e rispondi male ad un agente, una richiesta di lavoro non ritenuta idonea. Insomma, non è semplice fare un percorso che poi ti porti fuori dal carcere prima del fine pena. Io ho sedici anni e quattro mesi di pena definitiva da scontare, ho già scontato due anni e mezzo, ho il 4bis che innalza i termini per usufruire di queste misure, in pratica a metà pena potrò sperare nei permessi premio, e a due terzi per la semi-libertà.

Tutto questo per ora lo vedo molto lontano nel tempo. Ma il semplice fatto che so che esistono queste misure mi aiuta ad espiare la mia detenzione con un po’ più di serenità.

Ho due figli, il mio desiderio è naturalmente di tornare in famiglia prima possibile. Attualmente è l’amore che mi trasmettono a darmi la voglia di vivere e costruire un futuro migliore per loro e per me. Ho avuto anche la fortuna di avere due genitori meravigliosi a cui ora sono affidati i miei figli. Grazie al fatto che non mi hanno abbandonato, ho una speranza per il futuro: che le misure alternative mi aiuteranno a tornare al loro affetto.

Con gli arresti domiciliari la mia casa il posto in cui mi sentivo più sicuro e sereno si era trasformata nel mio personale carcere

 

di Fabio Iannice

 

Finalmente dopo tante battaglie mi avevano concesso il beneficio degli arresti domiciliari. Ero contento di tornare a casa e di non stare più dietro le sbarre, provavo una gioia immensa nel poter scontare il residuo della pena vicino alla mia famiglia, sentirmi contornato dal calore e l’affetto dei miei cari era un’emozione fortissima. La mia famiglia mi dava la carica, l’energia per poter superare i momenti più duri, che indubbiamente ci sono stati.

La cosa che mi faceva stare bene era che non dovevo più aspettare con ansia i colloqui settimanali e non c’era più quel muro, quel vetro che c’impediva anche di tenerci la mano. Eravamo insieme, tutto questo mi faceva sentire più sereno.

Le prime settimane tutto procedeva a meraviglia: organizzavo il mio tempo per non essere soffocato dalla noia, ascoltavo musica, guardavo la tv. Ero a casa, ma le giornate si ripetevano sempre uguali, non avevo nessuno sfogo. Avevo delle regole ben precise da osservare: non potevo rispondere al telefono, né tanto meno chiamare, eccezion fatta in gravissimi casi di eventuale urgenza. Non potevo neppure recarmi nel giardino della mia abitazione.

Chiunque veniva a trovarmi, se arrivava un controllo, doveva fornire le generalità ed essere a sua volta controllato. E i controlli avvenivano in qualsiasi orario, di giorno, di notte, spesso anche alle tre, alle quattro di mattina. Mi controllavano anche per telefono, però io non potevo rispondere, rispondevano i miei familiari e dopo passavano a me la comunicazione. Se non c’era nessuno, arrivava immediatamente una pattuglia.

La primavera stava arrivando, vedevo il mio giardino ricoprirsi di fiori, insomma avevo voglia di prendere una boccata d’aria, ma non potevo farlo, altrimenti sarei stato chiuso nuovamente in carcere. Era una sofferenza. Ero diventato una bomba sul punto di esplodere, pericolosa per me stesso e per la mia situazione giudiziaria.

Il carcere era sicuramente peggio, però in carcere avevo quattro ore di aria al giorno, andavo in palestra, giocavo al pallone, socializzavo con gli amici. Ora invece dovevo solo ed esclusivamente restare in quelle quattro stanze, e dopo che le persone incensurate amiche di famiglia non vennero più perché stufe di farsi identificare ad ogni controllo, mi trovai a trascorrere nove mesi solo in casa con mio padre. La situazione era diventata pesante. Non ce la facevo più. Anche se mio padre è forse la persona che più ho amato, spesso nascevano incomprensioni, dovute a quella stranissima situazione. La mia casa, il posto in cui mi sentivo più sicuro, sereno, si era trasformata nel mio personale carcere. Ho resistito a quella situazione e non ho trasgredito agli obblighi soprattutto per amore di mio padre, ma è stata una prova veramente dura.

Prove tecniche di comunicazione

Perché sui temi del carcere è tanto difficile coinvolgere quella che chiamiamo "la gente comune"?

 

di Francesco Morelli

 

Da circa un anno esco in permesso, quasi sempre per partecipare a convegni sul carcere: finora sono stato a una decina di queste manifestazioni, in varie città, e spesso vi ho incontrato le stesse persone; poche, talmente poche che ormai "nel giro" ci conosciamo tutti. Ci sono i dipendenti dell’Amministrazione penitenziaria, i volontari penitenziari, qualche insegnante e qualche studente di giurisprudenza, qualche ex detenuto.

Livio Ferrari (Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia) dice che siamo un po’ come i carbonari, Sergio Segio che siamo "una compagnia di giro": entrambi usano l’ironia e la vena romantica, per rappresentare l’evidente isolamento nel quale ci troviamo ad operare, "noi" (mi ci metto, per solidarietà tra sfigati) che cerchiamo di promuovere informazione e cultura sul carcere.

Perché è tanto difficile coinvolgere quella che chiamiamo "la gente comune", cioè i giovani, le associazioni culturali, i sindacati, le amministrazioni pubbliche? Sappiamo tutti che il carcere non rientra tra le preoccupazioni primarie di una persona, salvo che ci sia finita dentro, oppure ci sia finito dentro un suo parente o amico; oppure ci lavori, per lo stipendio o per la passione civile. "Tra noi" ci diciamo pure che è necessario sensibilizzare, nei riguardi dei problemi della detenzione, questa società… indifferente, dagli orizzonti culturali limitati, poco incline alla tolleranza e all’accoglienza.

Ce lo diciamo in decine e decine di occasioni: a convegni, seminari, dibattiti, dove, invariabilmente, manca l’interlocutore, manca la "società esterna". Secondo me accade perché stiamo commettendo alcuni errori e questo determina, già in partenza, l’inefficacia dell’azione comunicativa.

Prima di tutto, alla "gente comune" si deve parlare con un linguaggio semplice, entrando nei luoghi d’incontro e di vita quotidiana delle persone, non aspettando che siano loro a mobilitarsi, per venire ad ascoltare i nostri discorsi da "iniziati". Sarà casuale, però le uniche volte nelle quali ho visto un pubblico diverso, più numeroso e perfino più attento, sono state le occasioni d’incontro con le scuole e con le parrocchie: giovani e adulti che si sentivano partecipi, si emozionavano, poi raccontavano l’avvenimento ai famigliari e agli amici…

Per me questo è il metodo che può dare i migliori risultati, in particolare se si utilizzano delle testimonianze, anziché delle dissertazioni scientifiche, per descrivere il carcere a chi non lo conosce per nulla… se mi trovassi nei panni di queste persone "ignare" cosa mi incuriosirebbe di più? I racconti di vita vissuta, chiaramente!

 

Per far nascere un po’ di interesse sul carcere, servono storie di persone, di corpi da vedere, o anche solo da immaginare, non statistiche asettiche

 

Se l’interesse comune è che le condizioni di vita nelle carceri siano migliori, non possiamo trascurare l’opinione della gente. Inutile invocare la "ragionevolezza" dei responsabili politici, anche perché se guardiamo indietro ci accorgiamo che tutte le conquiste sociali sono partite da una "spinta dal basso": la stessa riforma penitenziaria del 1975 venne nel momento di maggiore tensione verso il rinnovamento culturale di tutte le istituzioni del paese.

Anche l’indulto, per essere approvato, deve prima incontrare il favore di buona parte della gente… il Parlamento non prenderà mai una decisione a prescindere "dall’aria che tira". E in questo momento, dopo le parole del Papa alle Camere, qualche brezza favorevole sembra esserci.

Ma per alimentarla servirebbe che sui giornali, al posto delle "solite cifre" sul sovraffollamento, comparissero i racconti dei quotidiani disagi vissuti dai detenuti, ma anche dai nostri famigliari, dagli agenti e dagli altri operatori. Storie di persone, di corpi da vedere, o anche solo da immaginare, non statistiche asettiche… 56.000, 58.000, 15.000 in più di quanto previsto. Nel Telegiornale della sera si confondono con le vincite del Superenalotto… 5, 5 + 1 , 6, 100,00 euro!

Dobbiamo approfittare subito di questa "apertura", dettata dall’emozione più che dalla ragione, perché è destinata ad esaurirsi presto, come successe nel 2000, anno del Giubileo: tre - quattro mesi di discussioni, proposte, chiacchiere, e poi lo spiraglio si chiuse. Oggi riesci "perfino" a farti ascoltare, quando parli di sovraffollamento, di cure sanitarie negate, di lavoro che manca, di immigrati senza speranze. Presto torneranno ad essere soltanto "affari nostri".

Allora dovremmo cercare di parlare alla gente di altri problemi, che toccano tutti più da vicino, come la prevenzione della devianza tra i ragazzi, come il reinserimento degli ex detenuti… sarà anche solo per motivi utilitaristici, però su questi temi il livello d’attenzione dell’opinione pubblica si innalza.

In materia di prevenzione non sono molto ferrato, vedo comunque diverse associazioni che lavorano egregiamente e vedo anche con simpatia i ragazzi dei vari "movimenti", con jeans a penzoloni e tanta voglia di cambiare il mondo: a dispetto di quanti li criminalizzano, credo che l’impegno sociale (e anche politico) sia il migliore antidoto contro il rischio di una "deriva criminale", che sottintende piuttosto interessi personali, egoistici. Certo, è una lotta impari, di fronte al modello che ci impone la televisione: qualche sera fa c’è stata una trasmissione tutta dedicata agli abiti per la notte di capodanno… dai 1.000 euro ai 5.000 "per lui"; fino a 20.000 euro "per lei". Io ho risparmiato un sacco di soldi, quindi… e poi dicono che il carcere ti rovina!Sul reinserimento posso dire qualcosa in più, anche se non sarò il primo ad averci pensato. C’è, ad esempio, la proposta del "Piccolo piano Marshall", di Cusani e Segio; c’è l’attività di tante cooperative sociali, delle strutture di accoglienza, delle associazioni di volontariato. Il reinserimento e il suo contraltare, la recidiva, meritano tuttavia un approfondimento che poche volte ho visto tradotto in parole semplici.

Una persona, tenuta in carcere, comporta dei notevoli costi economici per la società. Il suo ritorno all’attività illecita significa altri costi, (aldilà dei danni, non quantificabili, alla coesione sociale). Quindi, finché una persona vive passando dal carcere all’illegalità (e viceversa), rappresenta soltanto un onere per la collettività.

Se invece questa persona riesce a uscire dal circolo chiuso reato - carcere – reato ci guadagnano tutti, proprio in termini di soldi. Anche lei ci guadagna, perché nel carcere ci sta quasi sempre la gente povera, che spesso entra ed esce per 20 anni di seguito ed è sempre senza una lira.

Questo non lo vedo soltanto io, lo vediamo tutti, ma più passa il tempo più mi convinco che la recidiva non abbia tra i motivi principali la ricerca "del denaro facile". Sì, c’è anche questo aspetto, però ce ne sono altri, più profondi e più inconfessabili, anche.

Non credo sia la povertà a costituire la paura maggiore di chi esce dal carcere, ma piuttosto il "grigiore della vita". Spesso chi esce non è in grado di "colorare" la propria esistenza con interessi "raffinati" (come potrebbero essere l’arte, la musica, la letteratura, lo sport), quindi cerca di vivacizzarla con overdose di emozioni forti, almeno nei primi tempi.

Questo sistema serve per cancellare dalla mente il periodo della detenzione, grigio per definizione, poi, chi riesce a superare questa prima fase senza rimettersi nei guai, forse si avvia verso una "vita normale", ammesso che esista la possibilità di condurre una "vita normale" per chi è stato un po’ di tempo in carcere. Io ci credo poco. Non voglio dire che un ex detenuto debba per forza rimanere un criminale, piuttosto che corre dei notevoli rischi nella gestione dei suoi rapporti interpersonali, perché il carcere ti condiziona e ti "segna" indelebilmente, ti fa provare il peggio nel rapporto con gli altri, quindi "tira fuori" anche il peggio che hai dentro di te.

Diventi insofferente a qualsiasi controllo esterno, oppure hai bisogno di essere guidato costantemente o, ancora, impari a "usare" ogni persona per i tuoi scopi. È dura guarire dal "mal di carcere" e la recidiva, l’alcolismo, l’inedia, la misantropia, sono tutti sintomi di questo stesso male.

 

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