Spazio libero

  

Forestiero

 

L’arresto, una famiglia distrutta, la carcerazione in regime di 41 bis, e poi l’assoluzione... ma chi ti ridà la tua vita di prima, i genitori morti, il lavoro perso?

 

di Roberto Giannoni

 

Roberto Giannoni è stato al centro di una terribile vicenda giudiziaria che ha sconvolto la sua vita e distrutto la sua famiglia. Bancario, direttore della filiale di Sassetta della Cassa di Risparmio di Livorno, viene arrestato il 10 giugno 1992 dagli uomini della DIA di Firenze con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso, usura, concorso in usura, estorsioni, riciclaggio, traffico di stupefacenti ed armi.

Tutto si regge sulle dichiarazioni rilasciate da due collaboratori di giustizia. Gli vengono negati gli arresti domiciliari, resta in carcere per 12 mesi, di cui 10 sotto il regime del 41 bis in custodia cautelare. Viene assolto su richiesta della stessa procura al termine di un processo durato quasi quattro anni ed una vicenda durata sei anni sei mesi sei giorni. Nel frattempo ha perso il posto di lavoro, il padre è morto di crepacuore un mese prima dell’inizio del processo, la madre un mese dopo la sentenza, sfinita dall’angoscia.

Su questa vicenda ha scritto un libro, Hotel Sollicciano - 12 mesi in una suite dello Stato a mezza pensione. Quella che segue è una testimonianza che Roberto Giannoni ci ha mandato, contattandoci attraverso il nostro sito.

È difficile da spiegare, da capire, da far credere come un click possa cambiarti per sempre la vita. È quello delle manette che ti scattano ai polsi alle 4,15 di mattina nel bel mezzo di una vita passata a lavorare sodo e seriamente, prima di quel momento non si può immaginare cosa possa essere l’arresto, cosa significa perdere la libertà, non essere più padrone di te stesso. Oggi paragono le parole del mio avvocato che dopo aver parlato con i poliziotti mi disse: "Roberto, ti arrestano", alle parole che i medici mi dissero pochi istanti prima che mio padre e mia madre morissero: "Roberto, stanno per morire".

Non sapevo cosa fosse la morte e fino a quando vedevo il respiro non riuscivo a capire, a spiegarmi come una persona potesse morire, così fino a quando non ho sentito quel click non sapevo cosa fosse un arresto.

Ma soprattutto non ci credi: non credi che una persona a te cara possa andarsene per sempre e finché vedi un respiro speri che non muoia mai, e così fino a che non senti il click non credi che a te innocente possano toglierti la libertà

Dopo quel click ho lasciato la mia casa con i miei genitori atterriti e smarriti in mezzo al corridoio, un’immagine che rimarrà per sempre nella mia mente. Sconcerto e disperazione è stata la prima sensazione. Una vita distrutta in pochi minuti

Portato via sottobraccio dai poliziotti, il "mio mondo " è scomparso.

Sono stato fatto salire su di un’auto ed ho iniziato un lungo viaggio, che mi ha portato ad attraversare due mondi nuovi.

Non vedevo più nulla intorno a me, lo sguardo si perdeva nel vuoto, non focalizzavo più, sentivo le voci ma non vedevo le persone, una folle corsa a sirena spiegata fino ad arrivare in Procura, quindi "spinto" senza poter ragionare, rendermi conto di dove mi trovavo, interrogato per ore ed ore e poi di nuovo via di corsa sempre a sirene spiegate, fino ad arrivare al carcere, e qui con un lugubre rumore si è spalancato il grande cancello e sono entrato nel tunnel della carcerazione

Sono entrato come per incanto in un mondo che non conoscevo ma che è sempre esistito, ed in quel momento così disperato il detenuto che mi ha accolto era la persona che più capiva il mio dolore, perché chi soffre dietro quelle sbarre può capire veramente la sofferenza di uno che sta entrandoci.

La sorpresa di aver trovato nel compagno di cella un’umanità semplice, povera ma sincera, non riusciva a togliermi il trauma della limitazione di spazio, dover dividere una cella di 12 mq. con un’altra persona con la quale non c’era nessuna affinità. Lo scandire concitato dei tempi e delle cose che si devono fare in veloce sequenza, con ogni giornata sempre identica alle precedenti, mi facevano arrivare rapidamente al momento in cui spegnevano la luce e rimanevo al buio con la disperazione che si faceva più grande.

Parlavo, ascoltavo gli altri detenuti, ognuno di loro aveva una parola buona quando con il pianto cercavo di alleviare un po’ la sofferenza, rispondevo loro con dei cenni, annuivo accettando i loro consigli, ma dentro di me ero con il pensiero lontano da loro, da quel mondo, vivevo ora dopo ora pensando di tornare nel mondo che avevo lasciato, era lì che io ero sempre con la testa. Dopo pochi mesi sono stato trasferito sotto il regime del 41 bis, la massima restrizione carceraria, il carcere duro, quello dei mafiosi.

Mi giravo intorno, assente con la mente, ma ero sempre in compagnia di un pensiero che non mi lasciava mai, la testa mi scoppiava, sentivo solo vuoto ed abbandono.

Il passo delle guardie ed il tintinnio ferreo delle chiavi riuscivano a distrarmi un momento ed era come mi fermassi sull’orlo del precipizio: quel suono di chiavi era la voce che mi urlava l’istante prima di gettarmi nel vuoto. L’urlo del silenzio era assordante, più mi tappavo le orecchie e più si faceva forte.

C’era il conforto della fede con il cappellano del carcere che aveva sempre una parola di aiuto per tutti, c’erano i medici, psicologi, psichiatri, assistenti sociali, persone civili che ti portavano negli incontri un pezzo di quel mondo che ricordavo ed al quale mi avevano ingiustamente strappato, ma io mi sentivo ed ero innocente e mi ritrovavo in un luogo dove si espiano le condanne, ed allora davanti a queste persone, ognuna delle quali svolgendo il suo lavoro cercava di aiutarmi, io mi sentivo in difficoltà, provavo disagio, vergogna, sarei tanto voluto sparire.

Il tempo scorre rapido, può sembrare strano, sei spinto continuamente dalla conta del mattino fino alla sera quando ti chiudono il blindato, ma anche perché speri di correre incontro al processo e per un innocente l’assoluzione dovrebbe essere sicura, ma i dubbi, le angosce, il perverso evolversi della vicenda, ti mette tutto in discussione e ti pone terribili interrogativi.

Passi le ore, abbarbicato al cancello con la faccia spiaccicata alle sbarre per avere un campo visivo maggiore.

 

L’angoscia di affrontare un processo con il terrore di non riuscire a dimostrare la mia innocenza

 

Sotto il regime del 41 bis, due colloqui al mese con i miei genitori, biancheria ridotta all’essenziale, pantaloni senza cintura, due ore sole di aria al giorno, nessuna possibilità di cucinare, a gomito e branda con i boss, quelli veri. Lì, mi sembrava di rivivere il film "Il Padrino".

All’inizio nessuno di questi signori mi rivolgeva parola, poi piano, piano vengo avvicinato, mi si chiede il nome, la professione e perché mi trovo lì. Declinate le mie generalità dico: associazione a delinquere di stampo mafioso. Qualcuno mi guarda con sospetto, altri accennano un sorriso, un vecchio boss mi guarda dall’alto in basso e sentenzia: voi siete un coglione altro che un mafioso.

Questa sezione mi vedrà ospite per 10 mesi, per tutto questo periodo godrò delle gentilezze dei miei scomodi vicini di casa, ma non riesco, non mi è possibile sentirmi un inquilino di quei palazzi.

Ed è arrivato dopo 365 giorni il giorno della scarcerazione.

L’euforia di tornare libero è durata poco, quando la guardia mi ha comunicato che ero libero ho esultato, preparato in fretta le poche cose che avevo, salutato fugacemente gli altri detenuti e dentro di me ho pensato: sono libero, ritorno, finalmente, nel mio "mondo".

Ma dopo l’abbraccio con i familiari e gli amici che erano ad attendermi, fatti alcuni passi mi sono fermato ed un pensiero mi ha subito assalito la mente: stavo entrando in un mondo del quale sentivo di non fare più parte.

L’angoscia di affrontare un processo con il terrore di non riuscire a dimostrare la mia innocenza unito al fatto di incontrare persone, anche conoscenti, nelle quali leggere velatamente una forma di dubbio, avere la sensazione che chi ti parla non vede l’ora di finire la conversazione, bussare a tantissime porte e accorgerti che, con una scusa banale, tutti ti negano un lavoro, tutto ciò rafforzava in me la convinzione di essere in un mondo che non conoscevo, che non era più quello che avevo lasciato e per il quale avevo trascorso il mio tempo con il desiderio di ritornarci.

Ora, libero, volevo fuggire da quel mondo e quando al mattino uscivo di casa, evitavo le strade del centro cercando di incontrare meno persone possibile, mi sentivo un oggetto misterioso motivo di curiosità.

È il momento in cui scopri gli amici veri, quelli che non hanno aspettato l’assoluzione per credere in me e darmi il loro affetto, ed è così che comincia a maturare verso questo mondo un rapporto dove la fiducia non è più totale. Questo sentimento infatti non passa più per il cuore, ma attraverso le valutazioni più fredde e razionali della mente.

Finivo per rifugiarmi nel retrobottega di tre amici, lì mi sentivo più tranquillo, ritrovavo un pizzico di serenità e speranza ed anche un po’ di quel mondo che avevo lasciato.

Dopo aver ascoltato la sentenza che decretava l’ assoluzione, il mio pensiero è corso subito alla memoria di mio padre ed a mia madre che stava morendo in ospedale colpita da un tumore sconosciuto, ma anche ad Aldo, Carlo e Leoluca, i tre amici che mi accoglievano nel loro retro bottega aiutandomi infinitamente. In quel momento ho capito che forse avevo abusato della loro grande disponibilità e fraterna amicizia, mettendoli con la mia presenza in difficoltà, ed ero contento per loro della mia assoluzione che li gratificava, ma chissà quanta amarezza e dispiacere avrei dato loro se colpito anche solo da una piccola condanna.

Continuavo comunque ad avere la sensazione che tutti mi guardassero, e camminavo a testa china evitando gli sguardi anche di chi non conoscevo, era un rigetto istintivo verso quel mondo dal quale mi sentivo abbandonato, tradito proprio da quei valori sociali e morali nei quali avevo sempre creduto.

"Aspetto da mesi questa udienza"

di Elton Kalica

 

Il viaggio nel blindo verso il tribunale, il magistrato che ti può concedere o negare i giorni della liberazione anticipata, la voglia di urlare le proprie ragioni e la fretta di chi non ha tempo per stare a sentirle

 

L’orologio nella sua "inutilità carceraria" indica le nove di sera. La mia branda, da angolo studi in cui si trasforma durante il giorno, adesso riprende le proprie funzioni, vale a dire di letto.

Come per rompere questa sofferta tranquillità, lo spioncino sul blindo sparisce per lasciare posto alla faccia dell’agente:

"Udienza domani. Alle 7:30 deve essere pronto".

"Va bene, agente" rispondo, senza sorpresa, conosco già la data dell’udienza.

Solitamente non avvisano alla sera, preferiscono arrivare alla mattina a invadere i dolci incubi della branda (forse, ci sarà del buffo nello svegliare qualcuno di colpo…) Personalmente, all’ora della sveglia mi trovano sempre in piedi.

Si è fatta mezzanotte. Sono più di due ore che sto a letto e prevedo altre ore insonni. Aspetto da mesi questa udienza. Mi sono preparato a lungo ad affrontarla. Ho passato e ripassato nella mente centinaia di volte un discorso col quale spero di esprimermi correttamente. Devo discutere nove semestri di liberazione anticipata e spero di ottenere i giorni di sconto.

Non ho fatto un testo scritto, come il caso vorrebbe. Ho avuto questa presunzione di non scrivere perché so perfettamente come sono andati i miei ultimi cinque anni (più brutti) della vita. Li ripasso ogni notte con la mente, al rallentatore. Rivedo tutto quello che è successo, nitido, quindi non ho bisogno di scrivere. Nella mia "banca-dati" mentale mi sono già fatto un programma.

Come prima cosa sottolineerò il mio buon comportamento in generale: è importante che qualche rapporto o richiamo, preso in questi anni, non condizioni la loro decisione. Ho abbastanza argomenti da portare in mia difesa, come gli studi scolastici e la costante partecipazione ai vari corsi presenti qui in carcere. Le attività scolastiche, un po’ per interesse ed un po’ per noia, le ho sempre seguite: ho un lungo elenco in mente che comincia con i primi corsi nel carcere di Milano, cinque anni fa, per poi finire con la scuola superiore che attualmente frequento. Insomma, ho tanto da dire e quindi sono ottimista, sicuramente capiranno che sono uno che ha capito la lezione.

Sono le otto e mezza di mattina. Mentre percorro il lungo corridoio, comincio leggermente a tremare. Questa mattina mi sono svegliato prima delle cinque. Ho dormito solo un paio d’ore. Non ho fatto colazione perché quando viaggio con il blindato vomito sempre quello che mangio; mi sono limitato a un solo caffè. Poi con il faticoso aiuto dello specchio di plastica, che non riesce mai a dare forme naturali al mio viso, mi sono raso. Non mi sono messo la camicia migliore e neanche la giacca più bella, ormai so per esperienza che la sporcizia e la puzza del furgone si appiccicano ai vestiti per non mollare più la presa per mesi.

"Come si chiama lei?" mi domanda un agente mentre mi mette le manette.

"Kalica" rispondo.

"E lei?" chiede ad un altro compagno, che come me si sta presentando all’udienza, mentre ammanetta anche lui: non so se è veramente interessato ai nomi o usa le domande come diversivo per avere vita facile nell’ammanettarci.

"A…" risponde lui.

"Sono quelli dell’Alta Sicurezza, collega" urla, per poi metterci una catena che ci unisce le manette, e che noi dobbiamo accettare come "compagna di viaggio". Percorriamo in fila indiana la parte finale del corridoio. Subito fuori della porta c’è il blindato già acceso che ci saluta sputando fumo nero. Comincio a stare male senza averci messo ancora piede.

L’odore di carburante, di sigarette, di sporco e non so di che cos’altro si è amalgamato formando questa puzza caratteristica di tutti i blindati. Ho la gola, il naso e lo stomaco in crisi mentre prendo posto in una cella di ferro, all’interno del furgone. Accompagnato dal rumore che l’agente fa, chiudendomi la porta alle spalle, prendo confidenza col freddo e con lo sporco. Ci mettiamo in moto. Cerco di guardare attraverso i buchi della porta di ferro, ma si rivela una sofferenza per i miei occhi che non riescono a vedere oltre la grata. Comunque, il piacere di cogliere qualche frammento di vita mi costringe a tenere lo sguardo teso attraverso le tante barriere ben progettate.

La cella d’attesa del tribunale è nuda ma decoratissima di scarabocchi che riempiono in tutte le lingue le pareti sporche. È una situazione che mi porta anni indietro alle attese che accompagnavano il processo. Un’odissea rimasta ben impressa nella mia mente e che ora ritorna per salutarmi. La caccio via per dar spazio alla preoccupazione dell’udienza che mi aspetta.

Sono ansioso, o forse più spaventato che altro. Sarà un presagio? La paura mi saluta con quel suo viso freddo, costringendomi a rivivere l’angoscia di due anni fa. E poi quell’ansia che ti sale su dallo stomaco e arriva alla gola non per uscire fuori, ma per piantarsi lì, bloccando il respiro e con esso la parola. Però, devo evitare che mi succeda la stessa cosa, questa volta devo parlare e dire tutto. Sento una nota di pessimismo invadermi. Cerco di allontanare questo disagio conversando col mio compagno che non mi pare per niente teso.

"Anche tu per i giorni?"

"No, mi devono comunicare l’esito di un ricorso: mi avevano negato un semestre."

"Si! Mi ricordo, per la storia dello spioncino, se non sbaglio."

"Esatto!", risponde, "avevo fatto ricorso".

Quella storia aveva coinvolto tutta la sezione. Una notte, l’agente di turno si era accorto che diversi spioncini del bagno erano coperti (cosa molto comune, praticata da tutti i detenuti quando fanno i loro bisogni). Di solito questa cosa è condivisa anche dagli agenti (ai quali viene risparmiata una scena sgradevole), ma, evidentemente, non era cosi per quello che era montato la notte prima: aveva infatti fatto un rapporto a quasi tutta la sezione. Quindi, come da procedura, il vice direttore ci aveva comunicato che la direzione dava una sanzione disciplinare a tutti coloro che avevano occultato lo spioncino.

Finalmente ci avviamo verso l’aula. Percorriamo un lungo corridoio per poi scendere delle strette scale. In fondo c’è un piccolissimo angusto spazio, dove delle sedie cariche di detenuti mi fanno capire che devo attendere.

Entra il primo compagno. Non passa neanche un minuto, che l’agente comincia a togliere le manette ad un altro compagno mentre il primo fa già ritorno. Il secondo ci mette ancora meno a tornare da quella stanza che sembra sbarazzarsi in fretta di tutti gli intrusi. Divento sospettoso. Mi sembra tutto cosi strano. Quelli che fanno ritorno non hanno nessun tipo di espressione sulla faccia, quindi vengono ammanettati e ricondotti su per le scale senza nessun commento. Ora tocca al mio compagno di viaggio; intanto, l’agente mi fa cenno di alzarmi. Non fa in tempo a togliermi le manette che il mio compagno è già di ritorno.

"Il ricorso è stato accolto", mi sussurra mentre lo ammanettano.

"Su, su, sbrigati!" mi ordina l’agente, che sembra stanco di tenermi la porta aperta.

La sala è grandissima, almeno per i miei occhi abituati ormai solo a spazi ristretti. Il mio sguardo si ferma su una sedia vuota, isolata. D’istinto mi siedo.

Sento pronunciare il mio nome. Con gli occhi cerco l’origine della voce che continua a parlare veloce. Sento elencare tutte le note, richiami e rapporti disciplinari, collocati e distribuiti in tutti i semestri. Vedo (o forse è la delusione mischiata alla sorpresa che mi fa credere di vedere) una smorfia, un sorriso sulle labbra della dottoressa-magistrato-di-sorveglianza-relatore. Il messaggio è chiaro: "Nessuna speranza". E quel sorriso le rimane stampato mentre dice: "Ha frequentato la scuola solo in quest’ultimo periodo".

Il presidente, apparentemente attento, domanda: "In che senso, l’ultimo periodo?"

La smorfia del magistrato mi sembra sarcastica mentre risponde: "Vale a dire, questi ultimi mesi".

Mi viene da gridare, da urlare forte contro quelle parole: "Non è vero niente! Ho sempre frequentato corsi, studi e qualsiasi altra attività". Vorrei anche ricordare che la maggior parte di quelle note disciplinari sono richiami estinguibili in sei mesi, mentre lei li sta riportando come buoni dopo anni, ma non trovo le forze. Mi sento paralizzato in una confusione mentale che mi ammutolisce.

"Il signor Kalica è assistito dall’avvocato d’ufficio…?", interviene il presidente.

Prontamente dalla sala sento una voce che si alza assieme a chi l’ha emessa. È un giovane all’incirca della mia età. Non lo conosco.

"Si!, sono io, voglio insistere sull’ultimo semestre giacché ha frequentato la scuola".

Non ho parole. Vorrei ribattergli che un semestre invece di nove non è il massimo che un avvocato dovrebbe chiedere. Però, lui non sa che io ho sempre frequentato la scuola e che le note disciplinari, se esaminate, verrebbero sicuramente scartate; non può sapere, perché non ci siamo mai visti prima. Ma non ho neanche il tempo di finire il mio dialogo mentale che sento l’agente invitarmi ad infilare i polsi in quelle manette, che forse ha tenuto pronte per tutta la durata dell’udienza. Mi alzo e, come in trance, copro la distanza tra la sedia e la porta.

Durante il ritorno, tutta la tensione e l’energia negativa accumulate le scarico dando di stomaco. Alzo i piedi per aria, in modo da non versare il contenuto acido sulle scarpe. In questa posizione, da acrobata circense, finisco per sporcarmi non solo le scarpe ma i pantaloni e la giacca. Lo spazio super-ristretto della cella mi soffoca la mente. Mentre guardo quel miscuglio di liquidi gastrici e caffè, penso al mio discorso quella mattina, al fatto che dalla mia bocca dovevano uscire fiumi di parole ed invece è uscito solo il mio stomaco.

Stranamente mi rimane impressa nella mente l’espressione della-dottoressa-giudice-di-sorveglianza-relatore: quel suo modo di leggere la relazione mi ricorda in un lampo il mio processo di quattro anni fa, e rivedo la stessa aria sarcastica impressa in altre facce. Vedo lo stesso scenario e gli stessi personaggi: i visi rilassati della corte, il discorso freddo e macchinoso degli avvocati, e il denominatore comune, fretta di finire e una voglia sfrenata di sospendere o concludere.

Poi questa voglia di finire aveva contagiato anche me: le udienze mi stancavano e mi annoiavano. Quelle lunghe giornate, cariche di attese, di pause o di piccoli brevi monologhi, dialoghi e retoriche, mi facevano venire l’emicrania. Non vedevo l’ora di tornare in cella.

Mentre con le gambe alzate evito di pestare il pavimento, mentre gli odori forti mi avvolgono appiccicosi, mentre con le manette e i catenacci addosso cerco inutilmente di tirare fuori della tasca il fazzoletto, mi domando il perché di questo confronto mentale. Le analogie, tra questi due eventi peggiori della mia vita, sono tante, i personaggi, la scena, l’indifferenza, ma non mi convincono. La loro convinzione di sapere tutto, di conoscermi, la certezza della loro teoria, e l’ignorarmi, questi sicuramente sono alcuni dei motivi che mi fanno associare l’udienza di oggi al processo. Tuttavia, è la capacità dei giudici di entrare nella mia vita cosi violentemente, brutalmente, senza bussare, per poi andare via senza neanche chiudere la porta, che obbliga la mia mente a ospitare questo confronto.

Ma forse è inutile cercare di capire. Una cosa però è di una certezza cristallina: avrei voluto parlare a quel signore che mi puntava il dito contro illustrando la sua tesi e avrei voluto parlare anche al giudice relatore che in cinque righe ha sintetizzato, quasi con entusiasmo, i miei cinque anni di carcere. Avrei voluto anche gridare: potete parlare a me e non a quel signore-mio-avvocato-d’ufficio che non ho mai visto prima?

Gli odori nauseanti, le mie gambe ormai stanche e le guardie che spensierate leggono i messaggini sui telefonini mi ricordano che tutto quello che voglio è tornare in cella. Là, posso trovare la tranquillità assordante del vuoto.

Due settimane dopo: L’ufficio matricola mi ha appena comunicato la decisione del giudice: "Si nega il beneficio della liberazione anticipata per i primi otto semestri richiesti e si concede solo per l’ultimo semestre." Sono felice per l’avvocato d’ufficio, dopotutto ha ottenuto ciò che aveva chiesto.

 

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