Parliamone

 

Salute in carcere… e chi ne ha più sentito parlare?

 

Nel carcere di Padova, abbiamo fatto un’inchiesta sull’assistenza sanitaria e sulla salute, che ha coinvolto tutti i detenuti

 

Dell’assistenza sanitaria in carcere si parla poco anzi, ultimamente, non se ne parla per nulla. E questo silenzio, al centro della cortina di fumo che sta oscurando l’informazione sulle condizioni detentive nel loro complesso, non appare casuale, perché il conciliare le esigenze di tutela della salute con quelle della sicurezza sociale rappresenta un problema che tocca le coscienze e, inevitabilmente, solleva molti interrogativi sulla funzione e sulla natura stessa della pena.

Il mantenimento e la promozione della salute sono riconosciuti, anche ai detenuti, come diritti intoccabili, ma spesso l’organizzazione carceraria si rivela inadeguata a garantirli: quando mancano le condizioni "ambientali" per consentire una vita sana, quando le esigenze della sicurezza prevalgono su quelle della cura, quando la compatibilità tra la detenzione e lo stato di malattia è decretata da un magistrato invece che da un medico.

Sull’intera questione "carcere – salute – malattia", superata l’emergenza A.I.D.S., rinviata (e forse ridimensionata) la riforma della Medicina Penitenziaria, il mondo politico ed i media… non hanno più nulla da dire. Il silenzio è rotto, ogni tanto, dalle notizie delle morti per mancata assistenza o per suicidio (che compaiono in trafiletti persi nelle pagine di cronaca).

La tutela della salute in carcere non è solo questo, ci sono tanti altri problemi praticamente sconosciuti per chi non appartiene alla cerchia degli "addetti ai lavori": l’informazione sanitaria e gli interventi di prevenzione, che quasi non esistono; le malattie psichiatriche, che il carcere spesso aggrava o direttamente produce; le malattie derivanti dalla mancanza di movimento e di attività fisica; un’alimentazione inadatta a persone affette da malattie croniche (il 60% dei detenuti soffre di problemi epatici); i problemi specifici degli stranieri, sia quelli propriamente di salute (fisica e psichica), sia quelli inerenti il rapporto con il personale medico (comprensione della lingua, schemi culturali diversi, etc.).

 

A Padova, un’inchiesta sulle condizioni di salute dei detenuti e sull’assistenza sanitaria in carcere

 

Partiamo allora da qui, dall’indagine sulla salute che abbiamo realizzato nella Casa di Reclusione di Padova, che per noi ha un valore politico pari, se non superiore, a quello scientifico che eventualmente le sarà riconosciuto: perché è stata seguita, in tutte le sue fasi, dai detenuti, dall’ideazione del questionario all’elaborazione statistica (sia pur con la supervisione dei volontari e di altri operatori), ma anche perché dimostra che non servono grandi finanziamenti per portare a termine delle rilevazioni serie e strutturate.

Abbiamo lavorato a titolo di volontariato, questo è vero, ma anche volendo calcolare un ipotetico compenso orario per le persone che vi sono state impegnate, risulterebbe una cifra non certo nell’ordine delle decine (ed a volte centinaia) di milioni che vengono stanziati per affidare progetti analoghi alle varie "agenzie" di professionisti. Non essendo "professionisti" potremmo aver raccolto dati ed informazioni meno affidabili, rispetto a quelli prodotti dalle indagini statistiche "ufficiali", però su questa eventualità vorremmo accettare qualsiasi sfida, perché siamo convinti di aver fatto un buon lavoro.

I risultati dell’inchiesta sono qui presentati in sintesi, mentre sono disponibili dettagliatamente nel nostro sito www.ristretti.it, dove si trova anche il modello di questionario, che ci piacerebbe fosse ripreso ed utilizzato in altre carceri. Il questionario è composto da 75 domande, molte delle quali prevedono anche risposte "aperte", per dare agli intervistati la possibilità di esprimere opinioni ed esigenze personali, ed è strutturato sulla falsariga dell’ideale percorso detentivo di una persona con problemi sanitari nella norma (per lo standard del carcere). Il questionario è stato compilato da 480 detenuti, pari al 61% dei presenti nella Casa di Reclusione di Padova al momento della rilevazione.

 

L’ingresso nell’istituto

 

In questa fase i detenuti sono obbligatoriamente sottoposti ad una visita medica "mirante ad accertarne eventuali infermità fisiche o psichiche" (art. 11 O.P.): 34 intervistati, pari all’8% del totale, dichiarano di non averla effettuata. Per quella che è la nostra esperienza, la visita medica di primo ingresso viene sempre fatta, piuttosto accade che sia talmente frettolosa e formale che molti non ne conservano il ricordo, soprattutto a distanza di anni.

Esami clinici più approfonditi (analisi del sangue, etc.) hanno interessato il 59% degli intervistati, ed il 35% si è sottoposto al test H.I.V. (acconsentendo, con una dichiarazione scritta, alla sua effettuazione). Quest’ultimo riscontro si avvicina molto alla media nazionale, che è del 37%, secondo i più recenti dati disponibili, ma che presenta una forte variabilità da regione a regione e da un istituto all’altro (in alcune situazioni il test ha interessato il 98% dei detenuti in entrata, in altre appena il 15%): una situazione "a macchia di leopardo" sulla quale probabilmente incidono vari elementi, dalle linee di politica sanitaria adottate dai dirigenti dell’istituto alla disponibilità di strutture in grado di effettuare con prontezza ed efficienza gli esami di laboratorio.

Il 18% di coloro che si sono sottoposti al prelievo del sangue ha ricevuto una comunicazione scritta sull’esito delle analisi effettuate, il 62% ha saputo "a voce" dei risultati, mentre il restante 20% non ha più avuto alcuna notizia al riguardo.

Attraverso questi esami, 44 persone hanno scoperto di avere una qualche malattia e 32 ritengono di non aver ricevuto il necessario sostegno psicologico, al momento della comunicazione della notizia o anche successivamente.

 

Gli autolesionismi, gli scioperi della fame ed i problemi psichici

 

Abbiamo riunito in un’unica sezione del questionario domande che riguardano le forme di protesta e rivendicazione non violente, gli atti di autoaggressività ed i problemi di natura psichica, in quanto espressioni di un disagio, difficilmente catalogabile e controllabile, che talvolta sfocia in atti estremi, come il suicidio, e in altri casi determina il ricovero in strutture psichiatriche (O.P.G.).

Il 30% degli intervistati ha effettuato almeno una volta lo sciopero della fame ed il 21% ha compiuto atti di autolesionismo: le ferite da taglio e la cucitura delle labbra sono praticate prevalentemente dagli stranieri; l’inghiottimento di oggetti metallici, detersivi, etc., soprattutto dagli italiani.

 

I rapporti con il personale sanitario

 

Questa sezione del questionario tocca uno dei punti più dolenti dell’assistenza sanitaria in carcere. Proprio per questo non ci siamo limitati a raccogliere i dati sulla frequenza delle visite mediche e sul grado di soddisfazione dei pazienti–detenuti ma abbiamo chiesto agli intervistati che cosa, secondo loro, non funziona e cosa andrebbe fatto per farlo funzionare meglio.

Ciò che emerge con maggiore evidenza è l’insoddisfazione per l’atteggiamento "freddo" dei medici: "Bisogna cambiare i medici, perché questi non hanno alcuna sensibilità verso il prossimo, soprattutto se questo "prossimo" è detenuto". "Ci vuole più professionalità da parte dei medici, che ci trattano come bestie, e tempestività nell’assistenza medica… non intervenire quando si è arrivati al punto di non ritorno".

La seconda parte della sezione introduce un altro tema caldo, quello dei tempi d’attesa per essere visitati da uno specialista. Anche fuori dal carcere, a volte, queste attese durano mesi, la differenza è che i detenuti non possono scegliere, non possono rivolgersi a un altro ambulatorio: "Quando il detenuto sta male, deve essere soccorso e seguito subito, non dopo molto tempo: qui per una visita specialistica passano mesi". "Servono analisi rapide e corrette, per prevenire le malattie. Molti detenuti si ammalano seriamente perché non hanno potuto curarsi in tempo". "Diminuire i tempi d’attesa per il dentista, così da evitare che una carie da curare divenga un’estrazione". "Ho visto il dentista una sola volta in sei mesi. E poi le cure non sono idonee: i denti vanno curati, non estratti. Se una persona rimane in carcere un po’ di anni esce senza denti".

Va detto che il dentista lavora in condizioni di perenne emergenza, perché un po’ tutti hanno bisogno del suo intervento (circa l’80% degli intervistati) e molti con frequenza (più di 100 persone): la sua presenza sarebbe necessaria ogni giorno, invece che una – due volte alla settimana, come accade ora.

Altro problema, lamentato da molti, è la superficialità delle visite, che siano quelle del medico generico o dello specialista: "Servono visite mediche più frequenti e più complete, così si potrebbe prevenire qualsiasi malattia. Di solito, ora come ora, descrivi al medico il sintomo e lui ti prescrive una cura, senza nemmeno visitarti". "I sanitari prescrivono antibiotici e altre pastiglie senza nemmeno visitare i pazienti (e, se lo fanno, lo fanno controvoglia)".

Il rapporto tra medico e paziente–detenuto è spesso falsato dal timore che quest’ultimo simuli il malessere, per ottenere vantaggi di vario tipo: l’esonero dal lavoro, una dieta speciale, una sospensione della pena per motivi di salute. Ma "non tutti siamo simulatori!", grida un intervistato, e un altro aggiunge: "Basterebbe un po’ di buonsenso, per distinguere il vero malato da quello immaginario".

Il 12% degli stranieri denuncia delle difficoltà, derivanti dalla lingua diversa, a rapportarsi con il personale sanitario; il 20% ha incontrato problemi dovuti alle diversità culturali o religiose. Uno di loro scrive: "Non devono esserci differenze etniche o economiche. Dovrebbero essere i medici a chiamare periodicamente i detenuti e non che debba essere il detenuto a chiamarli, quando si sente male: quanti malati in meno ci sarebbero".

Per la verità, nell’Ordinamento Penitenziario (art. 11 comma 5), si legge: "L’assistenza sanitaria è prestata, nel corso della permanenza nell’istituto, con periodici e frequenti riscontri, indipendentemente dalle richieste degli interessati". Quindi l’intervistato ha perfettamente ragione, i medici "dovrebbero" visitare periodicamente tutti i detenuti, senza aspettare di essere chiamati…

 

I farmaci e le diete "speciali"

 

Il ricorso ai farmaci, in particolare a quelli psicoattivi, in carcere rappresenta la "soluzione più facile" per ogni problema di salute, quindi ne viene fatto un largo uso. D’altra parte, molti detenuti soffrono realmente di patologie che richiedono trattamenti farmacologici (e che richiederebbero anche un’alimentazione più adeguata di quella che offre l’amministrazione), perché chi ha alle spalle storie di tossicodipendenza, di alcoolismo, di deprivazione, di vita ai margini, non può che pagarne le conseguenze anche in termini di salute.

Il 25% degli intervistati seguiva una terapia farmacologica anche fuori dal carcere ed il 67% ha usato farmaci durante la detenzione (nel 56% dei casi si è trattato anche o esclusivamente di psicofarmaci).

I problemi emersi riguardano principalmente la difficoltà di ottenere i farmaci adatti e di poterli assumere nel momento in cui servono: "In carcere l’assistenza sanitaria non funziona, se non per le sole patologie a livello terminale e senza poi offrire cure adeguate, per mancanza di farmaci adeguati". "Bisognerebbe poter acquistare (a proprie spese) qualsiasi farmaco che sia necessario, senza dover fare la trafila della richiesta di autorizzazione al direttore". "Soffro di frequenti mal di testa e per avere un analgesico devo aspettare 24 ore. In cella non è possibile tenere nemmeno una compressa d’emergenza, altrimenti prendi rapporto e conseguentemente perdi 45 giorni di liberazione anticipata".

Anche l’alimentazione rappresenta un elemento di rischio, per chi ha già dei problemi di salute: "Bisogna seguire l’esempio dei penitenziari spagnoli e tedeschi, dove le diete sono diverse a seconda del problema di salute di cui si soffre". "Il vitto carcerario non è adeguato per chi deve rimanere detenuto a lungo: col tempo provoca patologie gastrointestinali e avitaminosi".

Infine, merita di essere segnalato il numero di coloro che dichiarano di non aver ricevuto informazioni sulla natura (composizione, effetti collaterali, etc.) delle medicine prescritte: il 91% di tutti quelli che hanno usato farmaci in carcere!

 

La prevenzione e l’informazione sanitaria

 

Abbiamo voluto accertare chi è stato coinvolto, da detenuto, in campagne informative ed iniziative di sensibilizzazione sull’uso degli psicofarmaci, delle droghe, dell’alcool, sull’igiene alimentare e sulle malattie infettive: la percentuale più bassa l’abbiamo registrata riguardo agli psicofarmaci (8%), mentre negli altri casi è variabile dal 15 al 20%. Molto importante è il dato sul "bisogno informativo", cioè il numero delle persone che ritengono utili iniziative di questo tipo: 320 risposte affermative su 420 questionari compilati.

Anche dalle risposte aperte emerge questa forte richiesta: "Informazione sanitaria più accurata, anche per convincere la popolazione carceraria a non usare psicofarmaci: il malessere, in questo contesto, è più psicologico che fisico". "Bisogna fare più prevenzione, anche con campagne di informazione ed educazione sanitaria". "In carcere la salute non è tutelata prima di tutto perché l’igiene non esiste. Non esistono norme igieniche scritte che spieghino i problemi sanitari determinati dalla promiscuità".

Un’indicazione preziosa è arrivata pure per il nostro lavoro: "Questa del questionario è una buona iniziativa, dovrebbe essere riproposta due volte l’anno e non rimanere una iniziativa isolata".

 

Il bisogno di assistenza sociosanitaria dopo la scarcerazione

 

Le indagini che si svolgono in carcere, il più delle volte, trascurano ciò che avverrà degli ex detenuti, perché la competenza dell’istituzione termina nel momento in cui la pena è interamente espiata. Noi ci siamo voluti occupare anche della fase di reinserimento nella società, che ovviamente è cruciale nel percorso di ogni persona scarcerata.

Abbiamo chiesto agli intervistati di guardare con obiettività al futuro, valutando se all’uscita dal carcere possono contare sul sostegno di qualcuno: le risposte incerte, "non so", sono state meno del 10%, un 30% pensa di poter ricevere aiuto dal volontariato e dai servizi sociali e un 15% ritiene che non avrà aiuto da nessuno.

Altre due domande riguardano le necessità di informazioni (per trovare lavoro, da dormire, da mangiare, etc.) e di concreto aiuto (economico, sanitario, psicologico, etc.) che si prevede ci saranno dopo la scarcerazione: le risposte evidenziano un diffuso bisogno di informazioni (60% - 70%) e percentuali medie intorno all’80% per quanto riguarda il bisogno di sostegno concreto.

Una dichiarazione, nella sua drammaticità, richiama ad una realtà che tanti fingono di non vedere: "Sono positivo all’H.I.V. e all’epatite C. Tra qualche mese esco, ma so già che fuori sarò abbandonato e dovrò tornare a morire in questo posto".

L’ultima domanda di questa sezione vuole accertare se è avvertita l’utilità di ricevere, all’atto della scarcerazione, una relazione scritta sulle malattie riscontrate e sulle cure ricevute durane la detenzione. Le risposte affermative superano il 50%, quelle incerte il 16%.

 

Le malattie più diffuse tra la popolazione detenuta: una domanda "aperta" ci ha permesso di saperne di più

 

La rassegna delle patologie presenti nella popolazione detenuta è molto ampia e, in genere, si tratta di situazioni cronicizzate per mancanza di un’adeguata attenzione all’insorgenza dei primi sintomi del male (avviene più facilmente quando la persona è libera e, magari, conduce una vita "disordinata"), ma anche per mancanza di controlli e cure tempestive (questo succede anche in carcere).

Nelle domande "aperte" nessuno dei partecipanti all’inchiesta ha dichiarato di soffrire di disturbi psichici: forse coloro che hanno problemi mentali non sono stati in grado di parlarne (per vergogna, paura, etc.), oppure l’autoconsapevolezza, al riguardo, è molto bassa.

Tra le malattie più frequentemente denunciate spiccano quelle cardiache e tutte le testimonianze raccolte concordano sull’insufficienza delle cure ricevute: "Nel 1999 ebbi un infarto, mentre già ero detenuto, e mi ricoverarono all’ospedale di Padova. Ora sono abbandonato al mio destino, perché non vedo il cardiologo da oltre un anno". "Ho avuto due infarti in tre mesi e dovrei avere dei controlli periodici, all’ospedale di Padova, ma ad agosto ho rifiutato il ricovero perché non volevo tornare al bunker".

Ma anche chi soffre di malattie epatiche lamenta la mancanza di un’adeguata assistenza: "Sono affetto da epatite B e col tempo sono peggiorato, perché non ho avuto nessuna cura". "Ho l’epatite da parecchi anni e, attualmente, non so nemmeno in quale stadio della malattia mi trovo. Cerco di curarmi facendo attività fisica e con una dieta, ma non ho certezze che sia quella giusta".

Non sembrano passarsela molto meglio quanti hanno problemi ortopedici: "Sono affetto da una scoliosi multipla (diagnosticata quando ero libero), con invalidità riconosciuta del 50%: qui non mi è mai stato fatto alcun controllo". "In carcere ho avuto una frattura (curata male) e, ora, preferisco non farmi operare da detenuto per scarsa fiducia nei sanitari". "Ho continui dolori alla schiena, fuori portavo il busto ortopedico ma qui dentro non posso usarlo".

Per fortuna, dopo tante storie dolorose, c’è chi possiede ancora un po’ d’ironia: "Come tanti compagni, sono affetto dal male peggiore di cui si possa soffrire: il menefreghismo dei sanitari…".

 

I problemi sanitari specifici dei tossicodipendenti

 

Questa sezione del questionario è un’indagine nell’indagine e cerca di fare luce sui maggiori problemi delle persone tossicodipendenti che entrano nel carcere. La prima domanda vuole accertare il tipo di sostanza usata, o l’eventuale uso di più sostanze (in fasi diverse del percorso di tossicodipendenza o anche contemporaneamente). La percentuale di coloro che dichiarano di aver fatto uso di una qualche sostanza è del 44%, con al primo posto (insieme all’alcool, che è in cima alla lista), la cocaina e poi l’eroina. Molto diffuso l’uso associato di alcool e cocaina, ma anche di eroina e cocaina.

Tutte le percentuali delle risposte successive sono riferite a questo gruppo di persone, che hanno fatto uso di sostanze. Il 20% era in terapia metadonica prima di entrare in carcere, terapia che nell’istituto è stata prescritta al 31% (24% a scalare e 7% a mantenimento).

L’assunzione del metadone, pur necessaria per risparmiare ai tossicodipendenti le sofferenze connesse all’astinenza, sembra un’arma a doppio taglio come si comprende bene dalle dichiarazioni di alcuni intervistati: "Il metadone per me è un problema enorme che dovrò risolvere facendomi ricoverare, quando esco, per disintossicarmi. In carcere non puoi disintossicarti, non ti danno niente per calmare i dolori che conseguono all’aver preso il metadone per due anni". "Ho scalato l’assunzione di 70 mg di metadone in soli 70 giorni, per mia volontà. Soffro di postumi d’astinenza e non sono adeguatamente aiutato."

Il rapporto con gli operatori del Ser.T. è vissuto in maniera molto contrastata, tanto che il 43% dei tossicodipendenti intervistati non ha mai fatto richiesta di incontrarsi con loro e soltanto il 29% chiede spesso di incontrarli. "Servirebbero più contatti con gli psichiatri e con il personale del Ser.T., che qui a Padova non esiste, o quasi", dichiara un intervistato, e un altro aggiunge: "Serve una maggiore assistenza agli alcolisti, soprattutto nel periodo in cui sono sottoposti all’uso di psicofarmaci".

Il passaggio alle A.S.L. dell’assistenza ai tossicodipendenti detenuti sembra aver portato pochi miglioramenti: solo 18 utenti (9%) dichiara di averli notati, mentre il 17% ritiene che la qualità del servizio sia peggiorata, rispetto a quando veniva erogato dal Servizio Sanitario Penitenziario.

Nella Casa di Reclusione di Padova è attiva una Sezione a Custodia Attenuata, dove peraltro è detenuto solo il 10% dei tossicodipendenti presenti nell’istituto, i quali, in tre casi su quattro, pensano che l’essere ammessi nella Sezione comporti dei vantaggi concreti. Il 22% si ritiene discriminato per il fatto di essere tossicodipendente ma c’è anche chi dichiara: "Bisogna separare i detenuti tossicodipendenti e malati dagli altri, metterli in sezioni diverse, cioè ogni sezione dovrebbe avere una sua categoria di detenuti".

Per finire, abbiamo chiesto se sarebbe opportuno somministrare farmaci adatti ad evitare episodi di overdose subito dopo la scarcerazione e le risposte positive, tra i tossicodipendenti, sono state pari al 52%.

 

A cura di Francesco Morelli

 

 

La Riforma della Medicina Penitenziaria: un problema di soldi, ma non solo…

 

Il progetto di Riordino della Medicina Penitenziaria, che prende il via dalla legge 419/98 e dal successivo Decreto Legislativo 230/99, prevede alcune importanti novità:

il personale e le strutture sanitarie dell’Amministrazione Penitenziaria saranno inseriti all’interno del Servizio Sanitario Nazionale;

il controllo sul funzionamento dei servizi di assistenza sanitaria alle persone detenute sarà affidato alle regioni e alle Aziende Sanitarie Locali;

le risorse finanziarie destinate all’assistenza sanitaria delle persone detenute saranno progressivamente trasferite, dal Ministero della Giustizia al Fondo Nazionale Sanitario, senza alcun aumento dello stanziamento.

Ma questa importante riforma sembra essersi arenata nella fase di sperimentazione, ora prorogata fino al 30 giugno 2002. Le A.S.L. non sembrano infatti troppo entusiaste di farsi carico dell’assistenza ai detenuti, considerando che dovrebbero erogare servizi migliori, rispetto a quelli forniti dal Sistema Sanitario Penitenziario, ma allo stesso prezzo. Da un anno, attraverso i Ser.T., dovrebbero già curare tutti i tossicodipendenti presenti nelle carceri italiane, ma la situazione appare molto confusa: nella Casa di Reclusione di Padova le prestazioni sanitarie di base, erogate direttamente dal Ser.T., sono garantite solo a una ventina di persone tossicodipendenti, quelle in terapia metadonica di mantenimento, quindi in una condizione di tossicodipendenza attiva.

Nel carcere vi sono altri 200 detenuti (all’incirca), che hanno un vissuto di tossicodipendenza, ma l’A.S.L. non ritiene di doversene ancora occupare in quanto i loro problemi di salute non sono più direttamente connessi con una dipendenza da sostanze: sono malati come gli altri, quindi se ne deve occupare il Servizio Sanitario Penitenziario…

La loro assistenza, quindi, rimane a carico del Ministero della Giustizia, almeno per quanto riguarda i normali interventi sanitari, perché se arrivano progetti (e finanziamenti) specifici questi 200 detenuti, "malati come gli altri", tornano ad essere tossicodipendenti a tutti gli effetti: il Ser.T. li riscopre come utenti bisognosi di cure particolari, di programmi mirati di riabilitazione, e così via…

La sperimentazione per il passaggio completo di competenze, intanto, sta interessando sei regioni (Toscana, Lazio, Puglia, Emilia Romagna, Campania e Molise) ma anche nelle amministrazioni regionali le perplessità sulla Riforma sono forti: Maria Giuseppina Cabras, dirigente del dipartimento per il Diritto alla salute della Regione Toscana, ha dichiarato a La Repubblica – Salute: "In queste condizioni la Riforma non può avvenire perché mancano gli strumenti nazionali, ovvero i presupposti giuridici e le risorse economiche. Non sono neppure stati affrontati i problemi contrattuali dei medici delle carceri, che oggi possono lavorare anche altrove. (…) Se davvero si vuole una riforma, non può essere gratis".

Quello dei soldi è senz’altro il problema principale, però le resistenze delle parti in causa sembrano derivare anche da timori sul proprio futuro professionale (da parte dei medici) e sulle responsabilità da assumere (da parte delle A.S.L. e delle Regioni).

Il primo aspetto della questione è facilmente comprensibile (che fine fa il personale in forza al Servizio Sanitario Penitenziario?), il secondo richiede una spiegazione: la Medicina Penitenziaria opera in un regime di specialità e autonomia, rispetto alle ordinarie competenze delle A.S.L., l’organizzazione dei servizi sanitari spetta al D.A.P. e, quindi, l’esercizio della professione medica in carcere è sottoposto al potere di autorizzazione e di controllo dell’Amministrazione Penitenziaria. Questo significa che i medici hanno maggiori vincoli burocratici e, allo stesso tempo, minori responsabilità: le decisioni più "difficili" (ma anche il rilascio di un semplice certificato) non dipendono da loro, ma dal direttore del carcere o da un magistrato.

Se la Riforma va a regime molte responsabilità ricadranno direttamente sui medici dell’A.S.L., visto che la legge 419/98 intende ridimensionare l’interferenza dell’Amministrazione sull’operato dei medici. Ad esempio, alle A.S.L. è richiesto espressamente di "prevedere l’organizzazione di una attività specifica al fine di garantire l’esercizio delle funzioni di certificazione rilevanti a fini di giustizia", quindi non più "pareri tecnici" ma l’obbligo di dichiarare in quali condizioni di salute si trova una persona e di quali cure necessita. Un impegno poco gradito, a quanto pare…

 

Il Progetto Obiettivo triennale per la tutela della salute in carcere

 

Il Decreto Legislativo 230/99, all’articolo 5, prevede la stesura di un Progetto obiettivo per la tutela della salute in ambito penitenziario, che deve contenere le linee - guida per il miglioramento continuo dell’assistenza negli istituti penitenziari, per la formazione specifica degli operatori e la valutazione sulla qualità delle prestazioni erogate.

Il Progetto Obiettivo per il triennio 2000 – 2003 (emanato nell’aprile del 2000) indica alle A.S.L. la necessità di predisporre "una ricognizione dei rischi per la tutela della salute" nelle carceri di rispettiva competenza, indagini che dovrebbero coinvolgere anche "operatori penitenziari e detenuti".

Da allora è trascorso più di un anno e mezzo e, per quel che ne sappiamo, l’A.S.L. di Padova non ha ancora avviato alcuna "ricognizione" in tal senso, è per questo che abbiamo deciso di farcela da soli: abbiamo sottoposto all’attenzione della direzione dell’Istituto e dei dirigenti sanitari un questionario, molto dettagliato, di cui è poi stata autorizzata la distribuzione. Sono stati i redattori stessi di Ristretti Orizzonti a distribuirlo poi e a spiegarlo a tutti i detenuti della Casa di Reclusione.

 

 

I valori? Facciamone a meno

 

"In carcere c’è gente che per la propria mamma, per i propri figli farebbe qualsiasi cosa, ma poi non ha troppi problemi a causare del male ad altre persone che hanno anche loro dei figli"

 

Con Edoardo Albinati, insegnante a Rebibbia e scrittore, abbiamo parlato di quanto può essere pericoloso avere dei "valori"

 

Edoardo Albinati è insegnante di lettere a Rebibbia e soprattutto è uno scrittore. L’avevamo già incontrato in redazione per parlare di questo suo diario sul carcere che si chiama "Maggio Selvaggio" e ci eravamo ripromessi di approfondire con lui alcuni temi spinosi, come quello delle "regole" e dei "valori". Lo abbiamo invitato, è tornato a trovarci.

Ristretti: In una intervista dedicata al significato che ha insegnare in carcere tu a un certo punto dici: "Il mio lavoro consiste principalmente nello sbriciolare il blocco dei luoghi comuni che spesso ingombra la mente dei detenuti". Vogliamo parlare di questi luoghi comuni?

In generale, questo è valido per qualsiasi processo conoscitivo, non ha a che fare solo con i detenuti: cioè, quando uno prova ad affrontare un argomento di qualsiasi tipo, secondo me la prima cosa che va fatta è quella che si chiama anche nel processo filosofico la "Pars destruens", cioè la parte distruttiva. Siccome normalmente l’insegnamento nel carcere viene visto invece, nel modo corrente, come un compito "edificante", dove uno deve andare verso il bene, i valori, le cose positive, io dico che invece, secondo me, la prima mossa da fare è quella di distruggere gli errori, piuttosto che di costruire le cose positive, che sarà comunque forse un momento che verrà dopo.

Si tratta di rompere dei conformismi, che nei detenuti sono a mio avviso spesso molto forti. I detenuti sono persone che hanno a volte dei conformismi ancora più forti di quelli delle persone, come dire?, che non hanno commesso delitti. Cioè uno può pensare che siccome un detenuto è un trasgressore, è riconosciuto come tale, allora come tale è anche una persona che ha delle regole più fluide. Invece non è vero, perché per esempio io mi sono quasi sempre venuto a scontrare con dei detenuti per delle categorie di pensiero molto rigide, molto dure, molto severe, molto assolute.

 

Nicola Sansonna (Ristretti Orizzonti): Da che cosa pensi che sia determinato tutto questo?

 

Dal fatto che tra i detenuti io vedo che ci sono delle convinzioni molto radicate, ad esempio il mito della famiglia, e quando si è esasperatamente legati solo alla propria famiglia, poi secondo me si stenta a riconoscere il fatto che anche gli altri hanno le famiglie, e che esistono delle regole superiori a quelle dei singoli clan o delle singole famiglie. Qui c’è della gente che per la propria mamma, per i propri figli farebbe qualsiasi cosa, ma poi non ha troppi problemi a causare del male ad altre persone che hanno anche loro dei figli. Per esempio, io racconto anche qui nel mio libro un episodio abbastanza interessante: i primi anni che insegnavo, trovandomi di fronte a dei "trasgressori riconosciuti" delle regole, pensavo di poter tranquillamente dire che io ho dei valori molto elastici, e certe volte ho la sensazione di non averli proprio. Ma i detenuti si sono scandalizzati: non è possibile, come fai a non avere valori? Allora ho detto: scusate, voi forse ce li avete, i valori, però ne avete spezzati parecchi di questi valori. E tutti quanti invece, tutti, proclamavano la loro fedeltà assoluta ai valori, che non erano poi la legge, ma erano altre leggi, altri codici, quelli privati, personali, del clan, della famiglia, della banda. Quindi in realtà erano delle persone fedelissime ad un altro sistema di codici.

Dunque si violano le leggi generali dello Stato, però poi ad altre leggi si è fedeli fino all’integralismo… diciamo così. E’ quello che io molto spesso chiamo il sostanzialismo. Il sostanzialismo, di solito contrapposto al formalismo, è quel modo di vedere molto concreto, per cui tu vedi, rispetti ami o odi solo le persone che hai vicino e non esistono entità superiori, come lo Stato. Perché tu di fatto devi essere fedele, o devi essere legato soltanto a un ambito ristretto. Io trovo che in molti detenuti ci sia sempre un ragionamento di tipo sostanziale, mai di tipo formale. Allora secondo me è meglio sgombrare il campo da tutte le leggi, tutte le regole e poi vedere quelle che possono permettere convivenze accettabili.

 

Francesco Morelli (Ristretti Orizzonti): Prima hai detto appunto che spesso nel mondo dei detenuti hai trovato più attenzione alla concretezza che alla formalità delle cose…

 

Scusami, però io lo dico in senso negativo, e mentre di solito l’amore per la concretezza è considerato una cosa positiva, invece io lo considero come un vedere e rispettare solo quello che hai davanti al naso. Per esempio, tutto questo attaccamento alla famiglia, come se la famiglia essa stessa non fosse anche un nido di vipere, questo per lo meno va detto. Nella letteratura lo vedi bene, nella Bibbia, lo vedi quando leggi che tutte le storie cominciano con due fratelli e che uno ammazza l’altro, allora bisogna incominciare a dire che la famiglia non è santa, anzi. I grandi libri iniziano sempre con una tragedia famigliare. Questo vuol dire che da Romolo e Remo, da Caino e Abele, ad Agamennone e Tieste (quello addirittura prende i figli del fratello e glieli cucina da mangiare), la lettura dei testi letterari serve a farci vedere la distruzione di un luogo comune, come può essere quello della famiglia per esempio: il fatto è che non esistono luoghi assolutamente sicuri, per questo non esistono grandi valori.

In carcere invece molto spesso hai a che fare con delle persone che, insisto, nel nome di alcuni valori, cioè disobbedendo ad una legge, quella dello Stato, ma in realtà obbedendo ad altre leggi, hanno commesso delle cose gravi.

 

Francesco Morelli: Ma anche fuori, in nome dei valori si fanno cose non sempre esaltanti. Qualche giorno fa c’era qui un Convegno di avvocati, e ho sentito appunto persone fare dei discorsi…, diciamo così, moralmente belli, e poi so che alcune di quelle stesse persone nella professione, quando spremono i clienti, sono ben lontane dal comportarsi adeguatamente a quello che dicono.

 

Allora, ti dico un’altra cosa, se tu leggi un solo romanzo di Balzac, ti levi ogni dubbio, ogni illusione; sugli avvocati, sui giornalisti, sui professionisti cioè…

Non c’è bisogno di aver letto Machiavelli insomma, per vedere la radice del potere, del desiderio, per cui le persone fanno le cose. Mi ricordo, per esempio, la lettura in classe di Machiavelli, dove in pratica si dice che l’uomo è una macchina di desideri, e questi desideri vengono ottenuti a qualsiasi prezzo, e quindi l’uomo è pronto a scatenare qualsiasi violenza pur di ottenere le cose che desidera: a quel punto i detenuti stessi erano come impauriti, ma chiunque legge Machiavelli dice: "Ma questo è di una crudeltà e di una franchezza terribile…", e infatti non è stato accettato per secoli. Un autore che dice che la radice umana è essenzialmente malvagia e che noi siamo pronti a fare qualsiasi cosa pur di ottenere ciò che vogliamo, e che il principe è colui semplicemente che usa ogni mezzo per ottenere e mantenere il potere: la lettura di Machiavelli è un bagno, come dire, negativo che è molto difficile da accettare, ma una visione così cruda provoca anche in chi legge un po’ di tentennamento rispetto a certe sue convinzioni.

 

Andrea Andriotto (Ristretti Orizzonti): Il fatto di arrivare ad ogni costo ad avere quello che vuoi è una cosa accettata comunque dalla società. Un uomo povero che fa i soldi, non si sa come, pagando alti prezzi, probabilmente sulla pelle di qualcuno, non dico ammazzando ovviamente ma agendo senza grossi scrupoli, è in ogni caso visto bene dall’altro, che pensa: "Cazzo, ci sei riuscito!".

 

Sì, però questo avviene grazie alla produzione di una serie di passaggi intermedi in cui questa lotta per i propri interessi poi viene trasformata attraverso una serie di "falsificazioni ideologiche" in qualcosa di positivo, e quindi nel mito del successo. In generale il potere, il denaro producono per loro capacità spontanea dei "valori" che poi il critico deve smascherare rilevandoli uno alla volta. La cosa che fa Machiavelli è interessante, perché lui dice: prendiamo il potere come è, cominciamo a levargli tutta la bellezza, perché il potere spesso si ammanta di oggetti, di architetture, di simboli che sono attraenti, scintillanti, belli, insomma voglio dire i Papi hanno poi fatto San Pietro, però se noi incominciamo a levare queste croste e andiamo poi alla nuda radice scopriremo che è soltanto un desiderio di dominio. Secondo Machiavelli non c’è altro che questo. In verità la lezione della storia o della letteratura secondo me è in gran parte una lezione che tende a smuovere le nostre convinzioni, non a irrobustirle. Cioè a mettere in dubbio, a fare vacillare ciò che noi pensavamo, non a farci sentire veramente sicuri di quello che siamo e che vogliamo.

Questo lo dico anche perché invece l’insegnamento o le attività all’interno di un carcere vengono viste sempre come attività edificanti: ci sono persone che non hanno valori, arriviamo là e glieli diamo noi. Invece secondo me ci sono persone che hanno pure troppi valori, e dovrebbe arrivare qualcuno che comincia a smontarli, quei valori.

 

Nicola Sansonna: Per me è una proposta forte quella che fai, tu arrivi in carcere, dove ci sono persone che hanno dei valori forti magari limitati, che abbracciano solo il loro ambito famigliare, la loro piccola cerchia di amici, il loro piccolo universo, clan. Tu arrivi lì e cerchi di smontarglieli, creare una crisi, quello che cerchi tu è di creare la crisi nella persona, di portarla a vedere tutto con occhio critico. Non pensi che sia un processo troppo doloroso? Il carcere è un luogo dove hai bisogno di punti di riferimento forti e noi ce li creiamo, se non li abbiamo, quei punti di riferimento. Quando sei qui dentro l’unica cosa che ti rimane, che ti è veramente vicina è la famiglia, ti è vicino il tuo compagno di cella, ora mi sei vicino tu, mi fa piacere parlare con te, sei entrato nel mio universo, capito? Non pensi che destrutturare questo piccolo universo crei una crisi difficilmente riparabile?

 

Ma se a uno non gli viene una crisi andando in galera, dove gli deve venire la crisi?! Se mai ci fosse un’utilità del carcere, della qual cosa dubito sempre di più dopo otto anni che ci lavoro, se mai ce ne fosse una dovrebbe essere quella di procurare una crisi, se non provoco neanche quella allora proprio veramente...

 

Nicola Sansonna: Io sono convinto che è utile quello che dici tu, però la risposta che dai qual è proprio in concreto? Mi fai leggere Machiavelli, non lo so... io mi tengo mia madre piuttosto.

 

Ma non ti ho detto che devi rinunciare alla mamma o alla figlia, intendo parlare di quelle sicurezze, quelle certezze che prima di tutto dal punto di vista della loro efficacia ti hanno portato in galera, quindi sicuramente non sono state particolarmente funzionali, e anche dal punto di vista pratico comunque andrebbero riviste. E poi in generale quello che conta è la mancanza di certezze assolute e di valori assoluti, perché è nel nome poi dei valori assoluti che si commette il male. La gran parte del male nel mondo è commesso nel nome di qualcosa, non è commesso gratuitamente, cioè apparentemente è commesso gratuitamente, in realtà si sta obbedendo a qualcosa d’altro. Il ragazzo che ammazza il papà e la mamma, il crimine dei crimini, in realtà sta obbedendo ciecamente a un altro valore, il denaro forse, lo fa per prendergli i soldi. Quella è una fedeltà cieca, lui sembrerebbe l’uomo più infedele del mondo, invece è fedele ad un’ altra cosa. La gran parte dei crimini commessi dalle persone giovani che io conosco nel carcere di Rebibbia è commessa per un’ideologia assolutamente rigidissima, che è il culto del denaro.

 

Francesco Morelli: La mia critica principale è che secondo me questa necessità di mettere in crisi le certezze viene sempre tirata fuori quando voi esterni avete a che fare con noi detenuti. Mentre invece nel mondo libero c’è tanta gente che fa come noi, peggio di noi, solo in maniera più raffinata, più pulita, così, e nessuno va a dire... che so, ti ho fatto l’esempio della categoria degli avvocati, nessuno va a dire: guardate che dovete essere più onesti, meno esosi, nessuno si sogna di fare queste cose.

 

Ma io ora lavoro con i detenuti, però ho insegnato per sette anni in un istituto di periferia e anche lì ho lavorato per distruggere i luoghi comuni, in quel caso dei sedicenni italiani...

E poi, non è che noi risolviamo con le nostre scoperte i problemi della società, però dovremmo anche cominciare a cercare di risolvere i nostri, lavorando proprio con se stessi, cioè quello che sono io, che ho fatto io, la mia vita, quello che ho sbagliato. Anche se poi dobbiamo ricordarci che non è che questa operazione critica garantisca che, una volta finita la pars destruens, ci sia la pars costruens, di solito la parte ricostruttiva è piuttosto debole perché comunque in una ricostruzione serviranno altri dogmi, altre certezze, che se vogliamo criticarli anche loro sono criticabili quanto quelli che abbiamo spazzato via.

In realtà sotto questa distruzione di valori poi si arriva a uno zoccolo duro che secondo me è impenetrabile ma è forte, quindi non è che si rimane soli, vuoti, nel nulla. Si rimane soli con la propria vita, col voler essere vivi.

E secondo me nel carcere, devo dire la verità, quello che io ammiro di più è il fatto che ci sono delle persone che sono costrette ad azzerare tutto quanto, e poi sotto quello zero emerge una continuità esistenziale. Emerge il fatto che l’uomo è più importante, anche se viene messo in un campo di concentramento, soggetto a disumanizzazione totale, per quanto umiliato, per quanto tartassato, per quanto finito in tutte le sue possibilità umane, sotto quello rimane, permane qualcosa.

Ma questo non è un valore, i valori sono le costruzioni sopra questo puro essere. Allora, quello là avrà il valore della compassione, quell’altro avrà il valore dell’istruzione, noi abbiamo parlato delle civiltà dove il massimo valore era ammazzare il nemico. Io sono professore di italiano, e ogni anno a dei ragazzini di quindici anni, di tredici anni leggo l’Epica, cioè gli leggo l’Iliade e l’Odissea, quindi gli sto dicendo che il massimo valore della vita è morire uccidendo l’altro, questo è il messaggio dell’Epica, è il messaggio del mondo omerico, dove il massimo valore è sgozzare il nemico, vendicarsi. Quindi tu stai scoprendo che la letteratura, cioè quella che dovrebbe essere il patrimonio edificante, non è altro che una lunga serie di ammazzamenti, tradimenti, adulteri, dove si mostra però una radice umana. Allora tu stai facendo in realtà una scuola di trasgressione, che fa crescere però le persone, le fa crescere mettendole di fronte alla verità, non mettendole di fronte ai valori, del tipo: noi siamo buoni, ci vogliamo bene, dobbiamo rispettarci, c’è il pluralismo, ma il pluralismo nel mondo omerico dove sta? Eppure si tratta di Omero, parliamo del più grande autore dell’antichità, cioè non parliamo di un bandito...

E la storia ti insegna anche che le società ragionano in modo diverso. E’ stupenda secondo me in tal senso la lezione che si può fare sul cambiamento di una sola parola, che è la parola virtù. Se tu fai la storia della parola virtù, che deriva dal latino virtus, ti accorgi che virtù nel mondo greco-latino deriva da forza, da virilità, è virtuoso l’uomo forte. Achille, cioè, un uomo che è in grado di usare la forza. Passando dal latino all’italiano, che è una lingua che si crea in un’epoca cristiana, la virtù non può essere altro che la bontà, la lealtà, la fede, quindi sono due mondi contrapposti, assolutamente contrapposti, e questo ti dimostra che gli uomini considerano buone nel tempo cose che sono molto diverse, assolutamente diverse.

 

A cura della Redazione 

 

 

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