Spazio libero

 

Donne fuori uomini dentro

 

Gli amori a parte

 

Il fascino dell’uomo in cattività, e non solo del delinquente di grido ma anche dell’anonimo prigioniero, sembra davvero inossidabile, a giudicare dalla costante folla di donne che corrispondono con detenuti e dalle variazioni sul tema, che cinema e letteratura continuano a produrre. È un successo ancora relativamente recente il romanzo Follia di Patrick Mac Grath, la cui protagonista, moglie del dirigente di un manicomio criminale, s’innamora di uno scultore efferato omicida. Anche Jiuliette Binoche, nel film di Patrice Leconte "L’amore che non muore", dove è la consorte del capitano di una piccola isola francese, è fatalmente attratta dall’umanità (a dire il vero solo da quella, perché il vero amor fou è per il marito) di Emir Kusturica, ravveduto omicida in attesa di essere ghigliottinato.

Passando dal dramma alla commedia, incontriamo la responsabile dell’unità di terapia drammaturgica attratta da James Nesbitt, detenuto con progetti di fuga, in Lucky Break di Peter Cattaneo, mentre nel genere thrilling fa il suo effetto l’assassina di "Letters from a Killer", una donna che ha relazioni solo con detenuti, e quando scopre che uno la tradisce, sia pure solo per lettera, elimina fisicamente le sue avversarie.

Personaggio femminile quest’ultimo che, con le esagerazioni richieste dal genere, potrebbe somigliare un po’ alla corrispondente epistolare tipica, quella da una lettera al giorno con foto e dediche alla radio. Qualcuno si interroga sull’integrità psichica di queste donne (soggetti abbandonici, persone con fantasie di possesso e onnipotenza, donne che amano troppo…?), ma più spesso si tratta dell’incontro di analoghe solitudini ed emarginazioni.

Sarebbe un errore pensare che ad attrarre questa moltitudine silenziosa sia il fascino del maledetto, che si esercita piuttosto in casi di crimini eclatanti, che portano adolescenti dai tratti angelici alla ribalta della cronaca. Nella maggior parte dei casi, la donna che scrive al detenuto anonimo scrive ad un uomo pieno di virtù e doti morali, protettivo, traboccante di valori e di voglia di mettere su casa. Ho letto molte lettere tra donne fuori e uomini dentro.

E mi sono chiesta: possibile che gli uomini "davvero speciali" (complimento ricorrente nelle missive) siano tutti in galera? La risposta, naturalmente, è nel come loro, gli uomini, si descrivono: "Tutti un po’ tarocchi", come dice con efficace espressione un ragazzo che, dopo aver messo un annuncio su un giornale, ha risposto per un periodo a 300 lettere al mese.

Il rischio è quello di scriversi molto e di non conoscersi per niente, e qui l’analogia con la comunicazione in rete viene naturale: il carcere, però, è ambiente ancora più congeniale alla mancanza di autenticità e produce propositi, pentimenti, sentimenti fasulli e figure maschili altamente improbabili.

 

Ma è possibile una relazione tra operatrice e detenuto?

 

All’ultima Mostra del Cinema di Venezia Lucky Break ha provocato un’inevitabile curiosità: diverse persone ci hanno chiesto se una relazione tra operatrice e detenuto è possibile, se è frequente, praticabile e magari come va a finire.

Una relazione del genere è impossibile, inammissibile, impraticabile, ma non rara. È vero che, a differenza della donna fuori, l’operatrice, volontaria o istituzionale, è in carne e ossa, ha la possibilità di incontrare o frequentare l’oggetto del suo sconveniente amore, ma è difficile immaginare una storia con maggiori elementi di "impossibilità": clandestina, condannata alla segretezza, senza nemmeno il conforto di un bacio o di una carezza, che spettano alle storie legittimate ai colloqui con mogli e conviventi.

Cosa succede se una relazione del genere viene scoperta? Le "sanzioni" oggi sono moderate: nessun trasferimento nelle isole per lui, ma revoca dell’articolo 17 (N.d.R.: articolo che ti consente di entrare in carcere come operatrice volontaria), se lei è una volontaria, o trasferimento in una sede vicina se si tratta di un’operatrice (questo almeno risulta dalla casistica nota).

In questi casi mi stupisce lo stupore con cui reagisce l’Istituzione quando qualcuna di queste storie viene alla luce, come se l’immagine di un detenuto, magari nel fiore dell’età, immerso solo nei suoi impegni trattamentali in un’atmosfera monastica, sia una figura naturale e credibile.

Impossibili, inammissibili, impraticabili, eppure queste tensioni segrete danno un senso di vitalità, e chi frequenta il carcere impara ad essere rispettoso anche di quelle più improbabili. Delle storie tra persone che si amano e si lasciano senza mai essersi incontrate o quelle che finiscono senza passare neppure attraverso un abbraccio.

Ma c’è anche chi, a quanto pare, riesce a costruire rapporti che sopravvivono al carcere, con la consapevolezza che un rapporto tra una donna libera e un detenuto, soprattutto con una lunga prospettiva di pena, non può essere l’imitazione di un rapporto tra persone libere, ma richiede risorse di inventiva non comuni.

Come la storia che in "Quasi tutto ancora da vivere" racconta Stefania Chiusoli, tutt’altro che una pasionaria, ma donna equilibrata e consapevole che, attrezzata di determinazione e letteratura (poesia, in particolare: una miniera di citazioni) ha coltivato, per ventidue anni, una relazione con un ergastolano - ora suo convivente - organizzando tutta la sua vita attorno a questa presenza - assenza. Masochismo comunque? Lucida follia? O qualcosa di peggio? Chissà.

D’altra parte l’amore - tanto per citare un verso di Erich Fried citato dalla stessa Chiusoli - è quel che è.

 

Antonella Barone, Educatrice nella Casa di Reclusione di Padova

 

 

 

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