Sani - dentro

 

Quale diritto alla salute per noi detenuti

 

Un malato che denuncia le inefficienze della sanità pubblica richiama, di norma, consenso e simpatia: chi non ha sperimentato i disagi di una visita ambulatoriale affrettata, o di un ricovero in ospedale con poca considerazione per la condizione di ansia del malato?

Mi auguro pertanto che questo articolo non venga catalogato come sterile polemica perché scritto all’interno di un carcere da un utente del servizio sanitario che è anche detenuto. Anzi, il mio è un modo per avviare una riflessione sulla salute in carcere, alla quale tutti noi della redazione abbiamo deciso di dedicare una rubrica fissa nel giornale.

Cercherò di rispondere, sostanzialmente, a due interrogativi:

Il carcere aiuta a guarire, a rimanere sani? Oppure "aiuta" chi è sano ad ammalarsi? La detenzione, per alcuni aspetti, somiglia alla degenza ospedaliera, poi che comporta abitudini salutari: niente eccessi, pasti e sonni regolari, nessuna attività faticosa se non gli sport eventualmente praticati. Inoltre in ogni istituto c’è una nutrita schiera di medici, generici e specialisti, un dispensario farmaceutico ed un reparto "infermeria", mentre i malati più "seri" sono trasferiti nei centri clinici penitenziari (ne funzionano una quindicina in tutta Italia).

A fronte di questi aspetti positivi c’è, in primo luogo, la ricaduta negativa sulla salute della interruzione negli interessi affettivi, professionali e sociali, contraccolpo che è all’origine di ansie e stress nonché di stati depressivi spesso culminanti nell’autolesionismo. Ed è ovvio che, in condizioni di sofferenza psicologica, a risentirne sia anche il corpo; come pure ovvia è l’impossibilità di eliminare le cause "ambientali" di questa sofferenza se non cambiando il concetto stesso della pena.

 

Un paziente-detenuto fin troppo tranquillo?

 

Il rimedio usato correntemente è la prescrizione di psicofarmaci, distribuiti con eccessiva leggerezza tanto da alimentare un fiorente scambio con il vino e le sigarette. Due pastiglie valgono mezzo litro di Sangiovese, oppure un pacchetto di sigarette nazionali: chi non ha soldi ricorre a questi espedienti e trova sempre qualcuno che fa incetta di farmaci con cui stordirsi. Da segnalare anche la consuetudine di consentire l’acquisto diretto di vino a quanti sono in terapia farmacologica, sebbene l’uso delle due sostanze sia incompatibile: evidentemente le ragioni economiche prevalgono su quelle sanitarie. In definitiva, quasi ovunque nelle carceri l’importante è che il paziente - detenuto se ne stia tranquillo e tutto ciò che contribuisce a mantenerlo tale viene tollerato.

Il primo incontro con un medico penitenziario lo ebbi poche ore dopo l’arresto e subito mi avvidi dei metodi sbrigativi ed estremamente formali, che in seguito divennero la normale maniera di trattamento: allora lo notai perché non vi ero abituato, oggi neppure ci bado. Le "visite" si risolvono troppo spesso in uno scambio di battute, ti chiedono il nome e di cosa hai bisogno e, mentre gli rispondi, scrivono la ricetta: durata "dell’incontro" intorno ai quaranta secondi. Gli specialisti, a dire il vero, ti dedicano più tempo anche se usano maniere da addetti ad una catena di montaggio e non vedono l’ora di dire..."avanti un altro!.."

 

Malati - malati e malati simulatori

 

Tutto sommato la differenza tra i medici penitenziari ed i loro colleghi che all’esterno curano i mutuati non è eccessiva: in aggiunta hanno solo la diffidenza, per cui ogni paziente è un probabile simulatore da smascherare. A questo proposito devo riconoscere che la responsabilità è anche nostra: prima di entrare in carcere avevo già incontrato una simile situazione durante il servizio militare, quando molti soldati si fingevano malati per evitare compiti faticosi, o per essere congedati, intuisco perciò che di simulatori ce ne siano veramente tanti tra noi detenuti.

I "malati" veri sono tuttavia molti e particolare attenzione andrebbe dedicata a coloro che hanno mali cronici o trasmissibili per contagio, sia per evitare forme di emarginazione dovute a paure infondate che per tutelare la salute degli altri membri della comunità.

Sul tema dell’AIDS non è stata fatta alcuna opera di informazione specifica per i detenuti, mentre tra gli agenti e gli operatori "civili" circolano opuscoli che spiegano quali comportamenti tenere per non correre rischi. Considerando la rilevante presenza di persone sieropositive, circa il 10% di tutti i detenuti, trovo scandaloso che il Ministero della Sanità non programmi un intervento in tale senso.

Le magiche virtù del denaro Sebbene il "fenomeno" AIDS sia il più sentito non vanno ‘dimenticate altre malattie perfino più diffuse, come l’epatite (nelle sue varie forme) che interessa un elevato numero di detenuti e per la quale non si spende una parola: eppure si trasmette più facilmente dell’AIDS. Anche in questo caso è necessario informare, sensibilizzare al problema e pensare a metodi di prevenzione adeguati ad una comunità dove le occasioni di promiscuità sono numerose.

Come è possibile farlo, mi chiedo, quando non sempre tra gli stessi medici c’è rispetto delle più banali norme sanitarie?

E casi, per esempio, come quelli del dentista che usa gli stessi strumenti su pazienti diversi senza averli sterilizzati non sono nuovi nelle carceri, anche se tutti sanno che questo è più che sufficiente per trasmettere il virus dell’epatite virale! Non c’è da meravigliarsi allora delle periodiche "infezioni" di scabbia, o del ritorno di "mali del passato" come la tubercolosi.

Forse si spiega con il fatto che, una volta informati, dovremmo poter prevenire il contagio e si renderebbe necessario fornire siringhe ai tossicodipendenti e preservativi agli omosessuali, quindi si preferisce "sorvolare" sul problema fin dall’inizio. Da sottolineare anche che i detenuti sieropositivi sono "segnalati" agli operatori, mentre godono del diritto alla riservatezza nella comunità reclusa, dalla quale peraltro non sono respinti se decidono di rendere nota la loro condizione: tutti noi infatti abbiamo ben presente come si può essere contagiati (nonostante la latitanza del Ministero) ed i comportamenti "rischiosi" sono alquanto rari. Tuttavia ribadisco la necessità degli adeguati mezzi di prevenzione, se pure servissero ad evitare un solo caso di contagio.

Infine: come si spiega la trasformazione dei medici specialisti, che diventano attentissimi, premurosi e scrupolosi quando richiedi una prestazione a pagamento? Che il denaro possieda qualche magica virtù?

 

Francesco Morelli

 

Precedente Home Su Successiva