Duccio Scatolero

 

Duccio Scatolero

 

La domanda che mi sono posto a partire dal titolo di questa sessione è se le città siano ancora compatibili con il carattere dell’umano. Sembrerebbe sempre di meno, e delle due l’una; o si ferma il processo di deterioramento delle condizioni di vita urbana o non resta che sperare nelle capacità di adattamento dell’organismo umano anche a situazioni proibitive. Se questa ipotesi fosse vera, è certo che qualcuno non ce la farebbe e, in questo processo di selezione, verrebbe scartato. Ogni anno si accende il dibattito ambientale, ma ciò che mi propongo di sviluppare è invece la questione sociale legata alla città, Per evocarla, partirei dal cinema e da quei film che negli ultimi vent’anni. da Blade Runner a Matrix, passando per Fuga da New York, hanno rappresentato la città del futuro. Spesso dandone immagini cupe, buie, caotiche, dense di fumi; città in rovina, degradate e devastate. I personaggi sono sempre violenti, soli, arrabbiati, devastati dentro e minacciosi. Si tratta sempre di un’immagine che fonde degrado ambientale e sociale, spesso trascuriando, guardando le città di oggi, le sue componenti di tipo sociale.

Parliamo di degrado ambientale, ecologico, ma non di degrado sociale. Ce ne curiamo poco anche perché non sappiamo bene come leggerlo e dunque qua, li risposte dare. Le nostre nozioni di politiche e azioni sociali sono ancora inchiodate al concetto di "lotta all’esclusione", che non basta a comprendere i fenomeni sociali e urbani. Il legame sociale in città è malato da tanto tempo e noi "addetti ai lavori" non ce ne preoccupiamo abbastanza. A forza di vedere marginalità, non riusciamo più a vedere gli altri, gli inclusi che vivono in questo spazio sociale malato e che mandano da tempo segnali di disagio. Sempre più spesso i fenomeni di grave disadattamento arrivano da classi sociali insospettabili. I disagi psichici, le tossicodipendenze, ma anche la criminalità stessa, arrivano da contesti inattesi.

I segnali sono tanti e un’altra ragione per preoccuparsene è il fatto che gli esclusi si integrano solo se gli inclusi fanno spazio. Gli ultimi della fila vanno avanti se i primi avanzano, ma rimangono bloccati se noi, dai lati, li spingiamo e li trasciniamo via. La questione dell’integrazione coinvolge direttamente inclusi ed esclusi e quindi non possiamo illuderci di continuare a lavorare sull’integrazione ignorando questa componente e di pensare che tutto dipenda da noi, dalla nostra azione. dal nostro modo di lavorare.

Il segnale più forte che ci è arrivato dagli inclusi è la richiesta di sicurezza. Credo che essa non sia affatto un diritto, come molti credono. Se fosse tale, la società ideale sarebbe una società ferma e impermeabile a qualunque cambiamento. L’essenza della sicurezza sta nell’assenza di cambiamento perché esso rende insicuri. La sicurezza è un bisogno, un interesse forte della comunità organizzata, ma io la considero più come un urlo, un grido di chi non vuole più avere paura, che si indirizza sul più facile degli obiettivi, la criminalità. È una paura riposta nel luogo sbagliato.

Mentre esplode l’intolleranza al crimine, molte altre incertezze e insicurezze attraversano la quotidianità degli inclusi. Sono le insicurezze di cui non si parla quasi mai, come quella della circolazione e della vita domestica, quella alimentare, del lavoro, dell’economia, della salute, etc.. Questa è la miscela che pulsa attorno all’insicurezza che parla anche di criminalità. È ovvio che qualcuno marcia in questa direzione, e se il semplice cittadino non ha strumenti per analizzare in modo raffinato quello che sta accadendo è più facile orientarsi sulla soluzione più evidente.

I mass - media sfruttano quelle immagini di città violente. Sembra quasi di vivere contemporaneamente in due città, una piccola dei nostri riferimenti quotidiani che è un pezzo di città rassicurante, e poi c’è la "città", tutto quel pezzo che fa paura ed è minaccioso. I cittadini non conoscono più questa parte per esperienza diretta, la vedono attraverso i finestrini come se fosse un film ma non la toccano, non la sentono, non la vivono.

Di colpo, a partire dalla metà degli anni 90, il crimine comincia a fare paura. Accade perché a un certo punto arriva il momento in cui si fanno i conti con molti errori accumulati nel tempo. Il più grave di questi è la distrazione e la trascuratezza con cui per anni si è guardato alle vittime dei crimini e in questa paura del crimine c’è anche l’abbandono di questo soggetto che subisce, che patisce. E si paga l’errore di non aver parlato abbastanza alla gente di quello che c’è attorno al discorso della pena. Un sociologo aveva analizzato gli esiti della "Casa di giustizia" francese, un tentativo di costruire una giustizia di prossimità. Molti quartieri francesi hanno la loro piccola casa di giustizia composta da due camere in una casa qualunque. Lo studioso affermava che il vero, grande risultato di questa operazione è stato che la gente ha visto e ha parlato direttamente ai giudici e poteva raccontare le proprie inquietudini quotidiane.

Questo manifestare per la sicurezza arriva in un momento in cui nuove inquietudini attraversano l’Occidente. È una stagione in cui si vive la più profonda crisi tra cittadini e istituzioni. Non ci si fida più, non si investe più reciprocamente l’uno sull’altro. Gli indicatori di questa crisi sono tanti. Un secondo punto di questa stagione è un impoverimento economico, progressivo, delle classi medie, da cui è sempre venuta la più grossa disponibilità nei confronti degli esclusi alla solidarietà.

C’è un’ampia fascia grigia di inclusi che vive su un piano inclinato che la fa scivolare verso i limiti della marginalità. Questa lotta quotidiana non fa più trovare il tempo alla disponibilità, alla solidarietà e all’impegno. C’è un deterioramento grave di questo periodo nella relazione tra inclusi ed esclusi. Gli inclusi non sopportano più di vedere gli esclusi attorno a loro, vorrebbero allontanarli. In alcune città francesi, ad esempio, per accontentare i cittadini i sindaci si sono organizzati per allontanare i barboni.

A partire da un certo periodo, l’esclusione ha rotto i confini delle riserve in cui era stata chiusa. L’immigrazione è forse stata la goccia che ha provocato questa rottura: gli inclusi hanno dovuto fare i conti con una vicinanza fisica. Si è perso il senso dell’altro: ripetiamo ai nostri figli di farsi i fatti propri e poi la paura diventa inevitabile. Il sociale è sempre più ridotto nelle sue dimensioni, l’unico sociale rimasto e considerato è quello domestico, il resto è un mare da attraversare. C’è l’illusione, che ha sempre un triste risveglio, che i diritti siano un bene disponibile su cui si può negoziare (si pensi alla ne1c-economy) L’epoca in cui scoppia il fenomeno sicuritario è quello del disordine, in cui tutti hanno perso i propri riferimenti. Il disordine attraversa il sociale e in esso è difficile vivere senza costruirsi una domanda di ordine che rassicuri e tranquillizzi. Eppure nel disordine bisognerebbe imparare a vivere cercando di costruire qualcosa di nuovo, di muoversi in esso per incontrare nuovi volti- Bisognerebbe "danzare nel disordine" anche se è difficile perché avere delle certezze fa vivere meglio, C’è ancora l’illusione di una tranquillità costruita da nuovi carceri, ma non è una promessa rassicurante. La città più vivibile ha una funzione di accompagnamento. con meno certezze. È questa una stagione di passaggio in cui, da un lato.

c’è la modernità che continua a promettere e, dall’altro, la post-modernità che dice che occorre far convivere la verità di tutti- In questo momento il riconoscimento della nostra fragilità renderebbe la città più vivibile, il che significa anche fare i conti con le emozioni che la circondano e la riempiono. Bisognerebbe dare dignità politica alle emozioni. Oggi l’uomo emozionato è l’uomo nuovo, Ulisse mentre viaggia, smette di essere eroe e diventa uomo, viaggia solo per tornare a casa e quando sente i Feaci cantare le sue gesta, si mette a piangere.

 

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