Riccardo Gatti

 

Riccardo Gatti

 

Per il mercato della droga siamo sempre stati convinti della non validità di queste regole. Chissà perché lo consideravamo, più che un mercato, come qualche cosa di organizzato in modo raffazzonato: una serie di combinazioni quasi casuali tra domanda e offerta. La mia sensazione è che, invece, questo mercato sia non solo ben organizzato, ma abbia un’ampia strategia vincente. Quale? Trasformare le droghe in beni di consumo associando il prodotto droga (legale o illegale!) con altri tipi di prodotti. Fare in modo che il cliente compri sempre più non solo una sostanza ma un pacchetto completo di cui la sostanza è una delle componenti. Giustificare la sua vendita con la vendita di altri prodotti che sono legali, e viceversa. In modo da confondere l’indotto con l’induttore.

Nel 1989 organizzai a Milano un convegno sull’uso di cocaina negli Stati Uniti e in Italia. La risposta che proveniva dagli esperti di allora era: "Questo vuole parlare di problemi che in Italia non esistono... per farsi notare". Perché organizzai quel convegno?

Semplice: era abbastanza chiaro e prevedibile quello che sarebbe successo negli anni seguenti con la cocaina. L’evoluzione dei fenomeni di abuso è prevedibile, a volte con strumenti anche non sofisticati: basta avere occhi per guardare e orecchie per sentire: basta osservare la realtà per accorgersi della sua evoluzione". Tuttavia, non di rado, chi fa parte di un determinato sistema ha difficoltà ad osservare le mutazioni che lo riguardano, specialmente quando sono radicali. Probabilmente è una sorta di meccanismo di difesa.

Il 1989 precedeva l’anno in cui venne emanata una riforma legislativa che, tra l’altro, istituì il fondo nazionale antidroga. Questo fondo diede ossigeno anche a progetti in campo preventivo: almeno all’inizio degli anni 90 l’attenzione al problema droga era molto alta in Italia e in Europa. Eppure, osservando la situazione attuale, sembrerebbe che i fenomeni di abuso e di diffusione delle sostanze si siano mossi secondo logiche apparentemente indipendenti non solo dalle leggi dei diversi Paesi, ma anche da risorse, servizi e progetti anche di tipo preventivo. I consumi sono aumentati e, soprattutto, si sono diffusi interessando tutte le classi sociali e diverse fasce di età, in modi relativamente simili in luoghi diversi.

Gli studi sulla life time prevalence (uso almeno una volta nella vita) delle droghe stanno perdendo significato: in città come Milano già tra i 18 e i 24 anni sono più le persone che hanno provato sostanze illecite di quelle che non lo hanno mai fatto. Probabilmente questa osservazione non è generalizzabile in modo assoluto, ed il ristretto ambito di un articolo odi una relazione congressuale obbliga alla sintesi, ma il fatto che, in ambito mondiale, non esista un modello preventivo di riferimento avrà pure un significato. È, pertanto, interessante porsi alcune domande inerenti l’assenza di questi modelli e l’attuale diffusione dei fenomeni di uso (ed abuso?) di droghe. Dagli anni 80-90 ad oggi, c’è stata un’evoluzione della situazione relativa alle droghe: un salto evolutivo fondamentale realizzatosi in un tempo non superiore ai dieci anni. Non è successo nulla di strano, di "esoterico" o di incomprensibile: è semplicemente avvenuto che il mercato delle sostanze di abuso ha seguito la stessa evoluzione di tutti gli altri mercati. In sintesi: "dal piccolo dettaglio alla grande distribuzione".

Si tratta di una grande distribuzione evoluta caratterizzata da: presenza in tutti i luoghi di aggregazione; organizzazione di modalità distributive alternative attente, riservate, dedicate e rispettose delle esigenze del cliente; interessamento per il consumatore più che per il tossicomane; ingaggio di distributori della stessa classe, fascia culturale, età ed ambito sociale dei consumatori.

È uno scenario distante anni luce dal commercio sulla "piazza", frequentata e controllata soprattutto da tossicomani che si conoscevano tra loro e che si rivolgevano al loro spacciatore di fiducia (spesso tossicomane anche lui): un rapporto che ricorda molto la relazione tra casalinga e commerciante al dettaglio, nella quale "andare da un altro" era una specie di tradimento; un mercato con pochi prodotti e con clienti riconoscibili e stabili, in cui l’arrivo di un nuovo cliente non presentato comportava la necessità di chiedersi chi fosse. Non per nulla questo tipo di mercato, meno evoluto e di nicchia, sembra oggi indirizzarsi sempre più verso determinate etnie e fasce di popolazione marginali (nel senso della non completa integrazione culturale), per le quali mantiene un significato esattamente come lo mantengono i negozi caratterizzati etnicamente per la popolazione dell’etnia di riferimento oppure i negozi di quartiere o di paese molto vincolati alla popolazione locale. Quando incominciai a lavorare nel settore (una ventina di anni fa) la mia sede era in un Comune della cintura milanese, Rozzano.

Le persone che usavano droghe si trovavano in una piazza, dove avevano il loro spacciatore di fiducia: quello che (secondo loro) dava la roba "buona" perché fornitore personale e, quindi, interessato a non imbrogliare. Questo meccanismo, poco per volta, a partire dagli anni 90 si è andato modificando ed oggi, probabilmente, la maggior parte delle persone che comprano droga non sono fidelizzate ad un determinato dettagliante. Il mercato, probabilmente, in questo momento guadagna maggiormente con i consumatori che con i tossicodipendenti. Sui consumatori investe. Perché si è compiuto questo percorso? Perché è stato cambiato il meccanismo di distribuzione? Per le stesse ragioni che in altri campi hanno portato dal piccolo dettaglio alla grande distribuzione: vendere di più, movimentare una quantità maggiore di merci e di danaro, guadagnare di più.

Qual è stata la grossa intuizione del mercato della droga? Capire che bisognava uscire dal mercato di nicchia, che collegava quasi necessariamente la droga e gli ambienti della droga, alla devianza ed alla microcriminalità per passare alla droga come bene di consumo per tutti: ad un "prodotto come un altro". Le porte erano già aperte.

Siamo allevati, fin da piccoli, nell’ottica che il buon cittadino è il "buon consumatore". Il buon consumatore è il consumatore acritico, cioè quello che compra quello che gli viene proposto da coloro che pianificano il marketing. Una buona pianificazione è in grado non solo di prevedere i bisogni ma anche di indurli. Si può decidere che tra un paio di anni tra i bambini andranno di moda i dinosauri e, se tutto funziona, nel tempo previsto, i nostri figli ci chiederanno i pupazzetti dei dinosauri, la cartella coi dinosauri, e, ancora, i film, i cd, i programmi per la Play station, il diario con i dinosauri.

Per il mercato della droga siamo sempre stati convinti della non validità di queste regole. Chissà perché lo consideravamo, più che un mercato, come qualche cosa di organizzato in modo raffazzonato, una serie di combinazioni quasi casuali tra domanda e offerta. La mia sensazione è che, invece, questo mercato sia, non solo ben organizzato, ma abbia un’ampia strategia vincente. Quale? Trasformare le droghe in beni di consumo associando il prodotto droga (legale o illegale!) con altri tipi di prodotti. Fare in modo che il cliente compri sempre più non solo una sostanza ma un pacchetto completo di cui la sostanza è una delle componenti. Giustificare la sua vendita con la vendita di altri prodotti che sono legali, e viceversa, in modo da confondere l’indotto con l’induttore.

Si tratta di un fenomeno che è facile osservare ed analizzare relazionandosi con un certo tipo di intrattenimento notturno. Per una mirata fascia di clientela è disponibile un determinato tipo di organizzazione della notte che comprende flussi "migratori" in locali definiti, che forniscono particolari tipi di musica in particolari ambientazioni. Uno stile di attraversamento della notte che rende naturale, se non quasi necessario, l’acquisto e l’uso di una serie possibile di sostanze illegali (droghe) e legali (alcol). Del "pacchetto" acquistato solo la droga è la componente illecita. Tutto il resto è il risultato di una serie di attività imprenditoriali assolutamente lecite. Certamente, però, questo tipo di prodotto complessivo diventa invendibile o poco vendibile in mancanza di qualcuna delle sue componenti.

E questo poiché ciò che il consumatore compra non è più la sostanza ma il "pacchetto", il livello di criticità possibile è assolutamente abbassato e la stessa percezione di illiceità viene stemperata. Come accade al supermercato, si comprano più cose di quanto previsto e ci si mette più tempo di quanto si prevedeva necessario all’interno di circuiti apparentemente liberi (in realtà obbligati). I percorsi dei nostri cartelli, i dati delle carte sconti e dei questionari correlati, le nostre risposte ai colori dei cartelli, alle posizioni dei prodotti negli scaffali, all’illuminazione del negozio sono stati attentamente costruiti studiando le nostre caratteristiche personali e comportamentali.

Anche per la droga esiste una sorta di insieme di "supermercati": ovunque si va, si può trovare quello che serve, ma, siccome i luoghi sono diversi, anche i fornitori sono diversi. Il mercato punta sempre meno sul concetto che una persona si rivolga sempre al medesimo fornitore con lo scopo di acquistare il prodotto scelto apposta per lui: l’importante è che si rivolga alla grande distribuzione e che compri.

L’esempio notte-droga e il paragone con la grande distribuzione sono, a mio parere, esemplificativi della situazione. Purtroppo una nostra tendenza culturale, unita ad una certa ignoranza dei fatti, ci impedisce un corretto dimensionamento del problema spingendoci alle solite equazioni droga = problema giovanile (leggi adolescenziale) oppure droga = devianza.

Forse sarebbe meglio considerare che lo stesso meccanismo di acquisto del "pacchetto lecito - illecito" non riguarda solo l’ambito giovanile ed il modo di organizzare la notte di alcune fasce di clientela. Esiste una particolare confluenza di interessi diversi attorno a questo sistema di vendita. La grande distribuzione è aperta ai mondi della finanza, dell’informazione, della politica, della moda, dell’imprenditoria, esattamente con gli stessi meccanismi di base. Ciò che cambia è il "pacchetto" che viene venduto, non il senso complessivo dell’operazione.

Esiste una straordinaria assonanza tra queste considerazioni ed alcune affermazioni di Pier Luigi Vigna su "Per Aspera ad Veritatem" (n. 19/2001): "Sta prendendo campo una più moderna- e pericolosa - forma di impresa mafiosa, quella definibile come "legale - illegale". Si tratta di un’impresa nata come legittima, ma che, ad un certo momento del suo percorso, entra in affari o meglio in rapporti cointeressenza e di compartecipazione con la mafia ed i suoi capitali".

Rimane valida la considerazione del summit dei Paesi del G8 del 17 maggio 1998 a Birmingham: "È evidente che quando gruppi criminali riescono ad impossessarsi di porzioni dell’economia reale o della finanza essi possono condizionare - e certamente non in una prospettiva democratica - lo sviluppo della società". Il grande investimento in marketing e distribuzione del mercato della droga si spiega così non solo perché può garantire un alto reddito ma anche e soprattutto perché, attraverso la droga "bene di consumo" e grazie al legame di ricattabilità che unisce il consumatore al fornitore, le organizzazioni criminali possono esercitare decisionalità ed influenze in campi e territori un tempo preclusi. Si tratta di un controllo sofisticato ed efficace perché si interconnette direttamente e contemporaneamente con diversi gangli e diversi livelli del tessuto sociale. Il punto di arrivo è una moderna forma di "sottomissione socialmente compatibile" (non del tossicomane ma dell’intera società!).

Purtroppo, all’evoluzione del mercato e delle sue strategie non è corrisposta l’evoluzione del sistema di intervento terapeutico riabilitativo ed anche, e soprattutto, preventivo. Questo è un fatto cruciale di cui, a mio av-viso, non abbiamo tenuto conto: perciò abbiamo pochi strumenti per affrontarlo. È possibile (ancora) fare prevenzione.? E, se sì, a quali condizioni?

La prevenzione è un atteggiamento ottimista: la posizione di chi pensa che, agendo oggi, è possibile cambiare in meglio il futuro. L’ottimismo proiettato in avanti su di un tempo medio lungo, tuttavia, non basta se chi ha la funzione di strutturare interventi preventivi non si rende conto di quale sia il pericolo e di dove si collochi: se non è in grado di comunicarlo ad un più ampio contesto sociale. Nessuna aggregazione sociale è, infatti, in grado di organizzarsi rispetto ad un problema se non lo riconosce come tale. Quando parliamo di prevenzione, ad esempio. Ci riferiamo quasi sempre ai giovani, ma i fenomeni di abuso non sono fenomeni che riguardano solamente (o forse principalmente) i giovani.

Un mercato di questo tipo, non è costruito per rivolgersi ai giovani: è costruito per rivolgersi a tutti. Si incomincia a introdurre il consumo, magari non problematico in gruppi di persone sempre più ampi, e li si accompagna per tutto il percorso della loro vita. Si dedicano particolari investimenti a quanti svolgono ruoli decisionali perché costituiscono vie di penetrazione per interessi di organizzazioni parallele a quelle che reggono la distribuzione di droghe. I pericoli connessi all’uso di droghe, quindi, non riguardano solo la salute fisica e mentale di chi la usa ma anche la possibilità di "colonizzazione" di un territorio o di un ambito sociale.

Ecco un esempio per capire perché parlo di colonizzazione. Cambio alcuni particolari per rendere irriconoscibile l’episodio. Pochi giorni fa si presenta da me una persona che mi chiede una visita privata: evidentemente non vuole venire al servizio pubblico. Ha circa quarant’anni, è molto ben vestita, elegante, intelligente. Ha iniziato ad usare cocaina e vuole avere informazioni aggiuntive rispetto a quelle che ha trovato navigando in internet. Sul sito che gestisco, www.droga.net, ha trovato, appunto, il mio nome e mi ha rintracciato. Mi chiede quali rischi corre usando cocaina, come può evitare di diventare dipendente, che cosa può succedere alla sua età, e tutta una serie di cose correlate molto sensate. Gli fornisco le informazioni, ma anche ne chiedo: di cosa si occupa, ad esempio. Questa persona è, supponiamo, una di quelle che decide grandi investimenti finanziari.

Può, a sua discrezione e all’interno di limiti abbastanza ampi comprare e/o vendere per centinaia di migliaia di euro. Svolge, quindi, un lavoro abbastanza importante il cui risultato, direttamente o indirettamente, riguarda molte altre persone. Alla fine della nostra chiacchierata, sui rischi e sui problemi che sono collegati alla droga, gli faccio una ulteriore domanda: "Si rende conto che esiste un problema in più, che lei ha?".

"Quale? - mi risponde - me ne ha detti già abbastanza rispetto alla cocaina". Gli faccio, allora, notare la sua potenziale ricattabilità. Lo vedo sbiancare. Questa persona, che vive tra Milano, New York e Londra, che anche nei consumi "voluttuari" vuole mantenere un alto livello di informazione e consapevolezza, non aveva mai pensato di poter essere ricattabile proprio da coloro che conoscono questo suo "consumo". Non aveva mai pensato che gli potessero essere chiesti dei favori. Magari indirettamente, magari proprio mediante indicazioni o informazioni riservate.

Non si era mai reso conto che, se la fornitura di droga avveniva tramite amici - clienti all’interno di situazioni di vita particolarmente piacevoli - e quasi gratuitamente, un motivo doveva pur esserci. Allo stesso modo, quando amici giornalisti mi dicono: "Ma lì (e si riferiscono a luoghi dove si costruisce l’informazione, n.d.a.), c’è un mucchio di gente che usa coca", mi rendo conto perché parlare di cocaina in un certo modo sia così difficile e perché la popolazione non sia sufficientemente informata di cosa sta accadendo in tema di consumi di droghe. Allo stesso modo si potrebbe ragionare per altri ambiti la cui decisionalità è fondamentale per le sorti di un Paese.

Circa dodici anni fa il contrasto alla diffusione di droghe era uno dei temi prioritari nei Paesi occidentali. Oggi non lo è più, anche se, proprio in questi anni, il sistema di distribuzione e vendita ha operato un deciso salto di qualità espandendo ulteriormente la sua penetrazione nella società. Come mai? È possibile che si stia già attuando il sistema di "sottomissione socialmente compatibile" che ho descritto e che, di conseguenza, la risposta sociale alla diffusione di droghe sia stata disattivata?

Di fronte all’attuale situazione complessa, combinata, progettata e organizzata, non possiamo più pensare che la prevenzione sia un giocoso insieme casuale di simpatici progetti. È necessario un passo avanti: comprendere che, probabilmente, abbiamo le tecnologie, la capacità ed anche lo spirito e l’ottimismo per poter fare prevenzione, ma anche che tutto ciò non serve se non è inserito all’interno di una strategia complessiva di medio - lungo termine. Questa strategia complessiva, in questo momento, nel nostro Paese, non esiste. Per realizzarla occorrono alcuni presupposti che andrebbero sviluppati:

ricercare motivazioni che uniscono lasciando perdere quelle che dividono: una strategia complessiva non presume il fatto che tutti facciano la stessa cosa, ma presume che si riesca a calibrare il che cosa fare, il dove, il come e in quali tempi ed a quale fine in modo sinergico;

avere un approccio etico nell’individuazione delle priorità, pur in un’organizzazione sociale che sembra all’apparenza tutelare soprattutto l’interesse del singolo, senza riuscirci, perdendo contemporaneamente il senso della collettività;

mettere a disposizione risorse (uomini, mezzi, idee, ricerca, soldi) che non ci sono;

non credere ingenuamente che i fenomeni di oggi siano uguali a quelli di ieri e che anche le generazioni passate hanno avuto le loro droghe e se la sono cavata, dimenticando il prezzo pagato, sia a livello personale dai singoli che a livello di collettività, in termini di disaggregazione sociale complessiva, e di sottomissione di uomini ad altri uomini e di Paesi ad altri Paesi;

l’evoluzione tecnologica e la capacità di penetrazione del nuovo mercato, in grado di produrre danni ben maggiori di quelli ricordati al punto precedente all’interno di un contesto (all’apparenza) socialmente compatibile e, quindi, ancor più pericoloso;

la difficoltà che già oggi si ha a livello politico nei momento in cui si tenta di tracciare una linea di intervento sul fenomeno: la conseguente difficoltà, che a volte appare impossibilità, di trovare una posizione condivisa.

È proprio nella difficoltà di trovare una posizione sinergica e condivisa che si giocheranno le sorti di una situazione la cui pericolosità, sino ad oggi, sembra sfuggire alla percezione comune. Proprio su questa inconsapevolezza lavora un nuovo mercato che ha bisogno non solo di consumatori inconsapevoli ma anche di una società poco reattiva da sottomettere.

 

 

 

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