Franco Floris

 

Giovani e prevenzione primaria

 

Franco Floris

 

Ho provato a dare un titolo alla relazione del gruppo sulla prevenzione e ho scelto questo: "Quale prevenzione in un tempo di esclusione?’.. Le riflessioni che farò partono dal lavoro di gruppo (ovviamente da una mia rilettura delle molteplici e dense riflessioni), ma muovendomi nel contesto complessivo del lavoro di questi giorni, in cui al centro non si trova tanto un singolo problema (il consumo), quanto i processi di inclusioni ed esclusioni in cui questo problema viene a calarsi. Procederò per punti. Da parte degli operatori della prevenzione, dopo una fase di crescita intensa degli interventi nella scuola come nei centri di aggregazione, nel lavoro di strada come nei colloqui e nelle diverse forme di counseling, dopo forse un eccesso di agitazione progettuale e, a volte almeno, un discreto spreco di energie, è intenso il bisogno di fermarsi per chiedersi che cosa si è fatto, dove si è andati, che disegni si sono perseguiti. L’intento non è di buttare insieme all’acqua sporca il bambino, ma anzi di recuperare quel prezioso materiale che nasce da molteplici tentativi e su cui per ora si è fatta poca riflessione collettiva, anche nella politica. In effetti, molte esperienze rimangono sprecate e il disegno stesso della prevenzione rimane troppo frammentato.

Questo momento di pausa ce lo chiede non solo l’esperienza maturata in questi anni, ma quello che ci è sembrato nel nostro gruppo "il mutato scenario sociale e culturale". Negli ultimi dieci anni lo scenario è decisamente mutato, ma spesso gli operatori della prevenzione sono tuttora ancorati a una sorta di accanimento preventivo che rischia di sbagliare i bersagli, anche se muniti di tecnologie raffinate, in assenza di una lettura approfondita dello scenario in cui ogni azione di prevenzione va collocata.

Il bisogno di fermarsi è allora disponibilità crescente a cercare insieme nuove letture di uno scenario in cui i processi di inclusione/esclusione, i problemi della democrazia e del conflitto fra stili di vita, le sfide della giustizia e della coesione sociale, ritornano fortemente a galla. È dentro questo scenario che occorre avanzare nuove ipotesi interpretative e nuove progettualità anche rispetto alle sfide dei vecchi e nuovi stili di consumo, ipotesi e progettualità non meno supportate da una competenza tecnica, ma certo molto più capaci di ragionare in termini politici rispetto alla fase precedente delle politiche giovanili e, soprattutto, delle politiche di prevenzione. L’esito potrebbe essere l’elaborazione di un modello di prevenzione che possa qualificarsi come "culturale", con una robusta analisi ed elaborazione alle spalle.

Come caratterizzare allora lo scenario in cui ci stiamo muovendo? In questi lavori è emersa anzitutto una forte criticità a fronte di stili di vita improntati anche fra i giovani (ovviamente non solo): forme esasperate di narcisismo, di elitismo e di tribalismo, che sembrano affogare ogni tensione all’apertura verso gli altri e chiudono le persone all’interno di mondi caratterizzati da intensi legami fra simili, a forte inclusione interna e ad altrettanto forte esclusione verso ciò che è fuori dai legami fra simili.

L’esito è la compromissione della coesione sociale, con angoscianti esperienze di solitudine e isolamento sia dei singoli adolescenti e giovani che di intere tribù giovanili. In secondo luogo, è emersa una forte reazione a un pensiero (anche giovanile) segnato da un eccesso di semplificazione dei problemi, che accetta facilmente di limitarsi a slogan ed è troppo disponibile a cogliere promesse e sogni che non aiutano a mettere i piedi per terra, mentre contribuiscono alla nascita di nuovi capri espiatori e all’accettazione passiva del principio secondo cui è normale che qualcuno rimanga indietro e si escluda da solo. Se il pensiero semplificato è un rifugio a fronte della complessità, e della finezza dei ragionamenti che questa richiede per muoversi nella selva dei significati, è anche una via di fuga dall’autonomia del proprio pensare e dalla necessità che la libertà delle persone, come dei gruppi, si fondi su analisi oneste delle sfide sociali in gioco e su un concreto accesso alle risorse culturali ed economiche.

In terzo luogo, è emersa una rilettura fortemente critica del potere del mercato sulle nuove generazioni: un mercato in qualche modo che si è molto raffinato ed è diventato persuasivo, intento a vendere "pacchetti di stili di vita" da consumare senza troppo interrogarsi, pacchetti all’interno dei quali è molto difficile orientarsi sia come adulti sia. soprattutto, come giovani. I mondi del consumare non sono solo diversi tipi di sostanze. ma un insieme dei pacchetti in cui in qualche modo ci si viene a ritrovare, difficilmente smontabili e decifrabili nella loro finezza, eleganza, forza persuasiva, capacità di agganciare domande di un "normale disagio". Come operatori sociali siamo impreparati a ragionare su quel che sta succedendo, al punto che solo confusamente avvertiamo che questo mercato così seduttivo che tende a imporre stili di vita capaci di assorbire ogni consumo minaccia, a volte gravemente, la libertà delle persone, la capacità di salvaguardare la loro autonomia. In realtà, lo avvertiamo dolorosamente, corriamo il rischio che aumenti l’eteronomia delle nuove generazioni. Eteronomia di stili di vita sradicati dalle culture locali, eteronomia di grappoli di concetti confezionati da agenzie raffinate e venduti dai media in modo da rendere dolce una crescente perdita di libertà.

A fronte di questo, tuttavia, va aggiunto che l’esposizione al rischio, indefinibile nei suoi collimi e indecifrabile nei suoi significati, suscita reazioni diversificate. La reazione di alcuni è l’indifferenza e, come dire, l’affidarsi al "Bingo" della vita, alla vita come azzardo e gioco; la reazione di altri è la chiusura narcisistica e tribale a cui si accennava sopra. C’è, tuttavia, una terza reazione, quella che riparte pensosamente se non drammaticamente dalla domanda:

"Ma quale vita vogliamo fare?". In molteplici luoghi della società sta lievitando una domanda intensa che problematizza gli stili di vita attuali e i diversi rischi a cui la libertà delle persone va incontro e si chiede appunto come accrescere gli antidoti a difesa della libertà muovendoci dentro questo tentativo persuasivo di addomesticare le coscienze e piegarle a una passiva accettazione di una perdita della libertà, dei diritti, della cittadinanza nelle sue diverse espressioni. Non ci vuole molto a intuire la dimensione politica di queste sfide e la non riducibilità della prevenzione e della positiva costruzione della salute a questione tecnica, da affidare a specialisti. La questione politica, sovversiva nella sua stessa formulazione, diventa il confronto a cui nessuno, giovane o adulto, può sottrarsi sulla domanda: "Quale stile di vita,

quale vita vogliamo vivere?". La sensazione è che i cittadini, la gente, i giovani si interroghino da capo, in maniera un po’ disincantata, al di là delle facili promesse che non permettono di mettere i piedi per terra e di pensare con un poco di audacia. Com’è che vogliamo vivere? Entro quali spazi vogliamo "fare" i diritti? Come ripensare i rapporti sociali e i legami sociali perché l’habitat sia vivibile per tutti?

Va detto che stiamo ancora uscendo da una stagione in cui soffriamo, per così dire, l’eredità di una reazione soggettiva a problemi difficili da comprendere, ma forse sta per nascere un momento in cui la gente si interroga su democrazia e libertà, sugli affetti e sulle emozioni, sul lavoro e sulla disoccupazione, sull’inclusione e sull’esclusione. Ecco, forse è da questo bisogno di produrre nuove letture della realtà, da questo bisogno di produrre nuova consapevolezza del gioco politico in cui siamo immersi che può riprendere il cammino della prevenzione. In altre parole, la consapevolezza di voler sottrarsi a ritmi di vita segnati dal consumo, a una progressiva aziendalizzazione dell’esistenza, al tribalismo crescente e all’emarginazione di chi non è della tribù in cui ci si avvolge, sta facendo germinare nuovi pensieri e nuove intuizioni.

Ma questi pensieri e intuizioni - forse appena sussurrati da adolescenti e giovani, ma certo espressivi di una nuova "generazione in ricerca" - sono purtroppo non visti dagli adulti in genere e dagli operatori sociali e dalle stesse istituzioni educative e politiche e, di conseguenza abbandonati a se stessi. Qui emerge la debolezza vera del disegno attuale della prevenzione.

È come se gli operatori della prevenzione si fossero chiusi nelle discipline e nei loro schemi interpretativi e progettuali, dimenticando le domande attorno a cui le nuove generazioni stanno autonomamente lavorando (non senza regressioni, adattamenti passivi, tradimenti). Può essere eccessivo dirlo, ma a volte si è fatta prevenzione separandola dalle domande attorno a cui adolescenti e giovani stavano lavorando per provare a entrare/uscire (ad appartenere criticamente) a questa società e interrogarsi (distaccandosi dai luoghi comuni) sulla difesa della dignità e della libertà di tutti.

È come se ci fossimo accaniti su un bersaglio preciso: consumo/non consumo e non si fosse più colto il contesto in cui andavano a porsi i fatti e i problemi. Forse vale la pena immaginare, ancora una volta, la prevenzione non come "protezione da", ma come accompagnamento della ricerca che le persone stanno facendo, che i giovani stanno iniziando a intraprendere, in molteplici luoghi/laboratorio della società: la prevenzione è accompagnamento del ricercare.

Questa ricerca trova poche piazze, pochi spazi di confronto, pochi laboratori e vede i giovani, molte volte separati dagli adulti, chiudersi in posizioni marginali, che fanno il gioco del mercato con forme di implosione compiacenti su cui occorre interrogarsi con lucidità. In conclusione non servono nuove ricette pronte all’uso, ma un rinnovato esercizio collettivo di lettura per comprendere da più punti di vista in che tipo di società stiamo vivendo e, di conseguenza, quali ipotesi si possono fare intorno alla prevenzione, in modo che l’esperienza del rischio non porti all’adattamento passivo al "Bingo" della vita, alla chiusura tribale autoprotettiva, ma scateni una nuova immaginazione e azione sociale in cui ricollocare l’esperienza soggettiva.

Terzo punto: ma allora, verso dove?

Anzitutto verso una comunità di prevenzione-ricerca socioculturale. L’accento non può essere messo solo sui giovani in quanto "ricercatori di", ma viene messo su processi più di ordine sociale, comunitario, collettivo che vanno in tre direzioni. Una prima direzione è la sperimentazione di nuovi legami di appartenenza, di riconoscimento reciproco, di patti di convivenza capaci di ragionare sulla libertà e sull’interdipendenza da cui dipende il futuro di tutti, su esperienze emotivamente capaci di farci sentire dentro ambiti, mondi di vita un po’ più sociali e comunitari. In altre parole, qui è in gioco l’appartenenza sociale delle nuove generazioni. La rottura della convivenza sociale ha dissolto i luoghi di quest’appartenenza e, dunque, fare prevenzione è aiutare a sperimentare luoghi dove l’appartenenza sia emotiva, calda, significativa con legami di reciproco riconoscimento. Una seconda direzione della prevenzione-ricerca in una comunità rimanda a tutte quelle forme di conversazione, dialogo, argomentazione critica e metacomunicazione, dove le persone possono trovare spazi per uscire da quel che le avvolge, trovarsi in un qualche pensatoio collettivo dove poter mettersi in gioco con i propri pensieri, prendere atto dei fenomeni esercitandosi a risignificarli da diversi punti di vista fino a decidere un punto di vista significativo, scatenare l’immaginazione soggettiva e collettiva per immaginare mondi altri da quelli che stiamo vivendo. In effetti, l’eccesso di schiacciamento dentro le cose che stiamo vivendo impedisce quello che veniva chiamato il pensare, il pensare con calma, il pensare un po’ forte, il provare a ragionare. In questa direzione la prevenzione è restituire spazi di pensiero dal basso e non schemi disciplinari, facendo si che le persone, provando a ragionare sulla propria esperienza, si interroghino e producano "pensiero", producano significati culturali rispetto all’oggi. La prevenzione ha a che fare molto con questa produzione di culture, di culture che si intersecano, dialogano, generano sempre "terze nuove culture", dove al centro della ricerca c’è l’interrogarsi su inclusione/esclusione sociale, sulla cittadinanza come progetto sempre da costruire, sulla democrazia come pratica di giustizia, sulla resistenza a un mercato persuasivo, sulla libertà di consumare/non consumare intrisa di consapevolezza. Tutto questo porta a restituire la parola alla gente, restituire la parola ai giovani in luoghi dove si possa non solo essere informati, non solo conoscere, ma ri-posizionarsi, mettersi in gioco anche da un punto di vista etico rispetto alla società.

Una terza direzione di prevenzione-ricerca è l’esercizio dell’autorganizzarsi, come nuova forma di esercizio del potere dal basso, dove ci si possa sperimentare piccoli e grandi attori politici, dove si possa prendere coscienza della politicità dell’esistenza. Val la pena ricordare quel che diceva don Milani, quando affermava che "dai problemi sortirne da soli è avarizia, sortirne insieme è politica". La prevenzione-ricerca rimanda a una duplice operazione: il disvelamento del potere, spesso sornione e invisibile ma persuasivo. L’esercizio del potere dal basso per costruire spazi di una democrazia partecipata.

Se queste possono essere tre direzioni di uno sviluppo comunitario che innesca nei cittadini e, soprattutto, nei giovani la produzione di antidoti e di anticorpi necessari per vivere in una società del rischio, che dire della prevenzione a fianco dei giovani, in particolare là dove le difficoltà, le fatiche, le contraddizioni si moltiplicano alimentandosi reciprocamente.

Le osservazioni raccolte in questi appunti portano a riaffern1are con forza un vecchio e disatteso principio. secondo cui non si deve fare prevenzione… sui giovani, ma… con i giovani", in quanto i giovani prima che utenti di prevenzione sono attori di prevenzione sociale. sono cittadini che si interrogano sul modello di sviluppo locale e di cittadinanza. In questo senso parliamo di fare prevenzione con i giovani come attori e "ricercatori".

Questo porta a ribadire che la prevenzione non è (non lo è mai stata, forse) "proteggere da": fare prevenzione è accompagnare una ricerca di nuovi stili e modelli di vita. Fare prevenzione-ricerca richiede un accompagnamento appassionante, capace di sottrarsi al compiacimento e alla collusione, critico nell’andare oltre i luoghi comuni e nell’affrontare i paradossi che attraversano la propria storia personale e quella della società in cui si vive, creativo nell’inventare altro rispetto a ciò che si immagina qui e ora, duro a volte nel confronto e nel perturbare equilibri che tendono all’adattamento passivo, non esente da dolore nell’aprire concretamente varchi verso un futuro inedito.

Nel nostro gruppo è emersa più volte la necessità di un accompagnamento che si interroghi in maniera un po’ più critica, un po’ più dura, meno compiacente sui percorsi di vita delle nuove generazioni: altrimenti è difficile che essi possano sottrarsi o almeno contrastare la pressione di conformità e di omologazione culturale in una logica di anestetizzazione dell’esistenza, per renderla disponibile al consumo e distratta dai grandi temi. Questo è un rischio in qualche modo più marcato rispetto al passato e rispetto al quale questa generazione non è ancora attrezzata culturalmente. Il rischio è l’emergere di nuove forme di quella che veniva chian1ata "alienazione".

Muovendosi entro questo approccio, sicuramente la prevenzione nell’accompagnare la ricerca di nuovi stili di vita incontra anche il consumo di sostanze e su questo lavora - senza troppi sconti o compiacimenti ma nenmmeno con atteggiamenti moralistici e giudizi precostituiti - per far emergere, prima che la quantità o le modalità di consumo, l’insieme dei significati che le persone connettono inconsapevolmente o attribuiscono consapevolmente alloro consumare, visto che per alcune il consumo è solo espressione dell’adattamento passivo a un mercato ben organizzato che offre, come si diceva sopra, pacchetti di stili di vita, mentre per altre è una sorta di luogo "contro-culturale" dai molteplici significati.

Forse siamo di fronte a un fenomeno antropologico, che non è più, come dire, legato solo a scelte di tipo individuale. Occorre cogliere quali sono i significati che persone e gruppi tutt’altro che omogenei fra loro stanno elaborando oggi intorno al consumo di sostanze, in particolare di quelle sostanze che rimandano al bisogno di sciogliere le inibizioni interpersonali, accrescere le prestazioni, uscire dall’angoscia che avvolge il giorno rispetto alla notte e alle sue promesse, i giorni feriali rispetto al week-end, abbandonarsi a una festa in cui si possa inoltrarsi in un’esperienza di senso che l’andirivieni noioso della quotidianità sembra occultare.

C’è bisogno di analisi chimiche delle sostanze per un consumo avvertito sui rischi, ma soprattutto di analisi culturali dei significati che i giovani riconoscono al loro consumare. E allora la prevenzione è produrre significati dentro il consumare, per accrescere la libertà delle persone, per allargare insieme il ventaglio delle opzioni che fa aumentare (anche solo di poco) la possibilità di scegliere, sottraendosi alla pressione del mercato, ma, soprattutto, a un eccesso di esaltazione del consumo come forma di altra cultura.

In questa logica da una parte la prevenzione è accompagnamento della ricerca, dall’altra è accompagnamento della partecipazione. Inoltrarsi in un approccio alla prevenzione che intreccia ricerca culturale e potenziamento della partecipazione, porta a individuare alcuni "gradini" di un’inedita scala di partecipazione o, meglio ancora, alcuni luoghi tra loro connessi in cui si gioca la partecipazione.

Come vedremo, in ogni ambito gli attori sono i giovani con una loro domanda culturale intorno a cui stanno facendo ricerca e con la disponibilità a immaginare e costruire zattere (prima fra tutte il "gruppo dei pari") che permettono il passaggio dall’isolamento individuale alla costruzione di piccoli luoghi in cui riconoscersi socius: ma dall’altra gli attori continuano a essere anche gli adulti che accettano di accompagnare un viaggio facendo da guida, facilitatore, esploratore di culture, senza mai sostituirsi e senza mai decidere da soli verso dove andare.

Accompagnare la ricerca giovanile porta a prendere atto della domanda di senso rispetto a una quotidianità che rischia di affogare nella banalità, ma che, a un esame più attento, è il luogo in cui il senso stesso si genera. Interrogarsi sul senso è, anzitutto, cercare di capire il significato del "mondo a portata di mano". È di quel mondo che la persona vuole sperimentarsi partecipe. Partecipare vuol dire essere partecipi di questo mondo a portata di mano.

Fare prevenzione per gli accompagnatori comporta frequentare e immergersi nella vita di ogni giorno, nella quotidianità dei giovani, esserci rispetto alla domanda di riconoscimento e di conferma esistenziale come persona e come gruppo, abitare dentro la pancia dei mondi giovanili.

Questa è, e sempre rimarrà, la prevenzione prima, quella essenziale in cui, a dispetto della tentazione di attivismo o colonizzazione culturale, accettare di abitare con i giovani, condividere le loro esperienze, ascoltare i loro pensieri e le loro emozioni, non spaventarsi delle ambivalenze e contraddizioni ma non considerarle ineluttabili, è il gesto primordiale per aiutare a partecipare alle cose che vivono, uscendo dalla angosciante scissione o separazione che impedisce loro di riconoscere senso alle cose che fanno e li rende disponibili a "tutto", perché tutto è senza senso e il senso va succhiato compulsivamente moltiplicando esperienze, contatti, relazioni, avventure, consumi. La partecipazione, in secondo luogo, è la possibilità di uscire dalla quotidianità per non esserne schiacciati e subirne la pesantezza, per entrare in quelle che alcuni autori hanno definito le "province del significato" intorno al quotidiano.

Proprio la pesantezza del quotidiano e il rischio di vivere una profonda separazione fra se e il mondo circostante, rilancia la necessità di una più intensa produzione di significati da parte dei giovani. Siamo di fronte a una "domanda di cultura", se per cultura si intende l’elaborazione delle angosce, dei limiti, delle contraddizioni e l’inventare nuove mappe prendendo le distanze da quelle esistenti ed esplorando mondi culturali altri, modi altri di vivere che permettano di delineare nuovi significati e nuovi ipotesi per il futuro. Solo la possibilità di frequentare mondi contigui al quotidiano permette di ritornarvi con un diverso sentire e ardire, fermo restando che il ritorno al quotidiano è più duro di quel che spesso si immagina, come ben sanno quelli che delle province di significato fanno il 10ro rifugio, impedendosi di rientrare nella quotidianità. E così non pochi giovani sono troppo schiacciati o appiccicati alla quotidianità e non riescono a vedere altro, pensare o immaginare altro, interrogarsi sui grandi temi dell’epoca. Altri invece sembrano aver abbandonato la quotidianità per vivere in mondi ricchi di significazioni, ma in cui si rifugiano rendendosi assenti.

I mondi o le province di significato a cui le nuove generazioni hanno diritto sono il gioco e la festa, l’arte e la poesia, la musica e la letteratura, le grandi narrazioni e il dialogo fIlosofico, l’esperienza mistico - religiosa e la meditazione, la scienza nelle sue diverse elaborazioni. La partecipazione culturale è la possibilità che le nuove generazioni, elaborando nuovi testi e narrazioni o entrando in contatto con i grandi testi letterari, musicali, religiosi, fIlosofici, apprendano a far cultura per sottrarsi all’angoscia, alla passivizzazione, all’ espropriazione, all’ alienazione del consumo imposto dal mercato. Fare prevenzione, in altre parole, è produrre cultura con le nuove generazioni, perché la cultura allarga il ventaglio delle opzioni, allarga gli spazi di libertà individuale e collettiva.

È facile intuire che per gli operatori della prevenzione è un’impresa decisiva diventare "mediatori culturali" prima che dispensatori di ricette o prescrizioni morali. In questo spazio culturale .anno affrontati anche i grandi temi del consumo e dei significati culturali che le sostanze alimentano, come i grandi temi del mercato della droga, delle mafie.

L’essere partecipi porta a un incontro sempre più ravvicinato con gli altri esseri umani a livello individuale come a livello di gruppo. Che fame degli altri? E chi è l’altro per me? Sono domande in cui emerge la necessaria decisione fra "passare oltre" e "farsi carico di", a cui rimanda, in termini antropologici prima che religiosi, la parabola del buon samaritano.

La prevenzione non può non affrontare il problema dell’alterità, perché frequente è il rischio di sostituire a un significativo rapporto con l’altro un sospetto consumismo, non solo delle cosiddette sostanze. Forse ogni eccesso di consumo ripropone il problema cruciale del rapporto con l’altro, con l’alterità. la l’altro non è anzitutto chi appartiene a una cultura altra: a ben guardare, per questa generazione, la sfida dell’alterità sembra porsi anzitutto con chi è vicino, in quanto proprio questo rapporto sembra faticoso, a volte distruttivo a causa di un esasperato narcisismo personale e di un altrettanto forte narcisismo di gruppo. Forse per un problema di mancanza di pelle protettiva, e dunque di un’eccessiva esposizione al dolore che gli altri possono infliggere, di fatto sembra che il rapporto con l’altro sia più faticoso.

Da questo punto di vista il rapporto con l’alterità e la decisione di averne cura, rimanda a una gruppalità che sa articolarsi tra riconoscimento in un noi e autonomia dell’io, a un volontariato spicciolo o organizzato, all’aver cura dell’ambiente la cui distruzione sta producendo profonda angoscia nelle nuove generazioni, a percepirsi responsabili dentro la società. Ancora una volta la prevenzione non prescrive ricette magiche o divieti rispetto al consumo, ma inventa spazi relazionali e mentali in cui cogliere sguardi che sanno aprire a orizzonti sempre più vasti e reti di concetti sempre più raffinate il senso dei propri gesti dentro l’attuale scenario sociale, culturale, economico, politico.

La partecipazione, per ritornare ancora una volta alle parole di don Milani, rimanda alla capacità di auto organizzarsi per sortire insieme dai problemi in quanto si intravede che la risposta alle sfide non è nelle mani di un qualche esperto o di un qualche decisore politico, ma piuttosto in una discussione in piccole e grandi pubbliche piazze, nelle quali ci si interroga sul futuro e si fa pressione sui luoghi in cui vengono prese le decisioni che influenzano la qualità della libertà nelle comunità in cui si abita. L’esperienza di politicità non è certo un punto di arrivo, come del resto le altre esperienze precedenti, ma è un tassello decisivo del puzzle che è la libertà come insieme di consapevolezza e responsabilità dei propri gesti.

Due appunti per concludere. Il primo è che la prevenzione, di fatto, la si esercita in luoghi e modi molteplici, spesso ignorati dalla manualistica. In questi anni la prevenzione è diventata un problema troppo riservato agli esperti. Come è essenziale nel far crescere la prevenzione l’auto aiuto fra giovani, così sono essenziali quei molteplici luoghi sociali e culturali in cui, occupandosi delle sorti dell’uomo, si osserva con uno sguardo diverso anche il proprio modo di consumare, fino a decidere con rinnovata consapevolezza in quali opzioni riconoscersi.

Forse si potrebbe uscire dall’esperienza di isolamento, che segna oggi i tanti professionisti della prevenzione, se essi guardassero ai giovani come attori della prevenzione, alla loro ricerca come luogo di lavoro sulla prevenzione e vedessero come preziosi alleati del loro lavoro coloro che cercano modelli di vita alternativi, facendosi direttamente carico di sfide come la giustizia locale e globale, la legalità, la cittadinanza, la partecipazione dal basso, l’economia civile e la difesa dell’ambiente, oppure attivando laboratori di discussione critica e costruttiva intorno ai nodi cruciali della società del rischio, permettendo ad adulti e giovani di riappropriarsi, almeno un poco, di un pensiero non omologato alla cultura liberistica dominante.

Il secondo appunto si richiama alle riflessioni appena svolte e rimanda alla considerazione che una prevenzione capace di rispondere alla domanda giovanile di ricerca e partecipazione fa comodo proprio ai giovani nei diversi contesti. L’attenzione alla ricerca-partecipazione delinea una proposta che fa leva sulla capacità di produrre sempre nuovi significati in cui ridefinire il proprio stile di vita dentro una società del rischio, e sulla politicità in quanto disponibilità ad aver cura dell’altro da se, come luogo di esaltazione suprema, non più narcisistica o tribale del proprio sé.

Forse molte delle cose dette possono essere riassunte in un duplice slogan. Il primo: "Giovani si diventa. Inventando un Paese". Il secondo: "Paese si diventa. Facendo spazio ai giovani". Abbiamo bisogno di una prevenzione che faccia un pezzo di strada insieme alle nuove generazioni fino a che scoprano la soddisfazione di inventare, se non un Paese, pezzi di Paese. E a partire da tale soddisfazione che si può apprendere a vedere le vicende del tempo e le proprie scelte personali in uno sguardo che relativizza il consumare, sottraendosi alla sua pressione e smascherando i luoghi comuni che vedono il consumo in se, senza rendersi conto che questo avviene in una società segnata dal rischio e da processi raffinati di esclusione sociale, ma, soprattutto, riaprendo continuamente il ventaglio delle opzioni tra decisione di consumare e libertà di non consumare.

 

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