Maurizio Coletti

 

Il sistema dei servizi

 

Maurizio Coletti

 

Credo che possiamo dirci tutti d’accordo sull’esigenza primaria di avere un sistema di risposte terapeutiche che integri competenze, saperi ed esperienze del settore pubblico con quelle del privato sociale. Ma proprio il rischio di autoreferenzialità, che si corre nella discussione sull’integrazione tra pubblico e privato sociale, rischia di farci perdere l’opportunità di un approfondimento sull’evoluzione dei fenomeni - emergenti o stabilizzati che siano - e quindi di una partecipazione attiva nell’evoluzione dei sistemi sanitari e sociali.

Una delle questioni avanzate nel dibattito scientifico e culturale nel nostro settore è il carattere di cronicità presentato da certi problemi droga-correlati. Alcuni esperti americani iniziano a proporci una riflessione incrociata tra i problemi legati alle tossicodipendenze e i problemi legati ad altre situazioni croniche in medicina come, per esempio, il diabete, l’asma, l’ipertensione. Ci offrono una riflessione importante perché ci accorgiamo come la questione legata al mancato rispetto dei consigli da parte dei nostri utenti e alle "ricadute", abbia grandi somiglianze con ciò che accade con i pazienti affetti dalle patologie appena menzionate.

Questi colleghi ci domandano: "Qual è la percentuale dei malati d’asma che non rispetta le dosi di trattamento, che non si adegua? I diabetici si adeguano agli stili di vita e di alimentazione che vengono loro prescritti?".

Tuttavia, credo che possa farci correre molti rischi paragonare la tossicodipendenza alle malattie croniche solo e squisitamente in termini di somiglianze di comportamenti. Il concetto di cronicità lascia mentalmente lo spazio solo per qualche piccolo passo in avanti, perché è troppo spesso legato (a torto) all ‘incurabilità. (:n dibattito autoreferenziale non ci permette di coprire sufficientemente le esigenze di una riflessione scientifica, professionale, clinica.

un esempio: non siamo ancora un "sistema a regime", tuttavia, possiamo vantare un sistema di risposte articolato che ha un quarto di secolo di esperienza nel nostro Paese. Ma se provassimo a rispondere ad una domanda semplice: "Funziona quel trattamento?"., oppure a quella più inquietante: "Come funziona, e perché, quel trattamento?", non so se saremmo in grado di rispondere. Non riusciamo a dare risposte adeguate a queste domande, o meglio, abbiamo risposte specifiche e adeguate solo per alcuni di questi trattamenti (soprattutto per quelli di tipo di tipo farmacologico); invece i trattamenti di tipo residenziale e semiresidenziale, così come i trattamenti di tipo psicosociale e di tipo psicoterapeutico possono navigare in un mare incerto in cui non si riesce a capire perché funzionino. E questa è una grave mancanza. Il problema di cui oggi dobbiamo occuparci non è più solo quello di applicarsi, discutere, dibattere su determinati documenti, ma quello di capire come il contenuto di questi documenti, di queste linee guida sia messo in pratica, rispettato nelle sue conclusioni e nei passaggi che propone. Non c’è un modello di controllo sull’attuazione di questi documenti.

Il problema non sta più, dunque, nel produrre (o solo nel produrre) suggerimenti, raccomandazioni, ma anche e soprattutto nel capire come queste cose vengono poste in essere. È il caso delle piante organiche e, soprattutto, dell’accordo Stato-Regioni. Un altro punto: Luigi Ciotti nella sua introduzione ha sistematicamente sottolineato la priorità che dobbiamo porci: non possiamo pensare ad un sistema che non sia basato sui bisogni dell’utenza. Una discussione autoreferenziale ci porta in continuazione a discorsi tipo: "Chi è titolare dell’intervento? Chi decide la terapia e il trattamento? Come si coprono determinate esigenze di personale?".

Corriamo il rischio di allontanarci dalla centralità dei bisogni dell’utenza: non centri e servizi che si adeguano agli utenti, ma l’esatto contrario. Vorrei poi sottolineare un problema di carattere terminologico di una certa importanza riguardo l’integrazione tra pubblico e privato. Il discorso sui trattamenti integrati o sul sistema integrato dei trattamenti rischia di essere altro, di non essere coperto. Abbiamo ricordato che esiste un sistema di fatto e che alcune nostre discussioni non interessano i nostri utenti. Quali sono allora gli obiettivi che possono essere alla base di una nuova discussione? Una nuova discussione sulle teorie e sulle pratiche condivise di un sistema di trattamenti integrati o un sistema integrato di trattamenti?

Credo che parlare di trattamenti integrati, di sistema di trattamenti integrati o di sistema integrato di trattamenti non sia la stessa cosa e che occorrerebbe identificare obiettivi differenti a seconda di quello di cui stiamo parlando. Ma già da subito un primo punto di un incontro tra operatori del servizio pubblico e del privato sociale è la questione (anche questa troppo ricordata) delle procedure diagnostiche comuni. Un secondo punto è la necessità di andare verso trattamenti standard, integrati ma riconoscibili. Ma come si possono tradurre queste esigenze in pratiche correnti e conosciute? Ho provato a capire cosa succede in questo settore specifico anche in altri Paesi.

I.:unico modello riconoscibile e applicabile è quello del cosiddetto Case - management; tradotto in pratica, significa che un operatore è il referente diretto dell’utente, mentre gli altri sono i suoi collaboratori (i suoi interlocutori professionali, i suoi esperti) e che spesso questo manager è un infermiere particolarmente preparato o comunque una figura professionale adeguata.

Immaginiamo cosa significherebbe trasferire questo modello nei nostri servizi, cosa significherebbe se un infermiere (pur particolarmente preparato) andasse adire al medico, allo psichiatra, allo psicologo e all’assistente sociale quello che devono fare, quello che è utile fare per un paziente, quello che ci si aspetta che essi facciano. Non ci vuole particolare fantasia per capire l’assoluta impraticabilità di questa operazione. Un altro punto che dovrebbe essere alla base di questa nuova discussione è il problema dei criteri di inclusione ed esclusione dei pazienti. Abbiamo ascoltato tante volte, in una sorta di rimbalzo di utenti da una struttura ad un’altra, frasi del tipo: "Ci hai mandato questo paziente sapendo che non è adeguato al nostro tipo di trattamento!". Gli utenti di lingua anglosassone chiamano questo processo "maching", che significa tentativo di avviare il paziente al miglior trattamento disponibile, al trattamento più adeguato per le sue esigenze. Criteri di inclusione e di esclusione, quindi, chiari per ogni trattamento. Un’ulteriore questione è quella della documentazione generale, il problema delle cartelle cliniche. E poi ancora il problema della terminologia. Parliamo delle stesse cose quando usiamo i termini "uso, abuso, consumo"? Parliamo delle stesse cose quando diciamo "cliente, utente, paziente" oppure quando parliamo di "riabilitazione, reinserimento, recupero" oppure "trattamento, terapia, intervento, cura"? Stiamo parlando stessi linguaggi, abbiamo gli stessi retro-pensieri?

La questione della terminologia è uno degli elementi fondamentali per un nuovo approccio all’integrazione tra centri di trattamento collocati in maniera differente. Un’ultima questione che mi sta a cuore è quella di un nuovo rapporto con gli utenti, che sia basato anche su una rappresentanza organizzata degli stessi verso i centri di trattamento. Non si tratta qui di discutere con loro sulle terapie o di avere una rappresentanza sindacale. Ci sono molti aspetti che potrebbero essere discussi ed in altri Paesi esistono delle esperienze magnifiche. Si può discutere l’adeguatezza degli orari di apertura o dei locali, insomma tutti quegli aspetti che possono migliorare il rapporto tra gli utenti e il centro di trattamento. Credo che si tratti di un intervento plausibile, ragionevole e necessario, sia per i centri di trattamento pubblici sia per quelli del privato sociale, funziona, e perché, quel trattamento?", non so se saremmo in grado di rispondere.

Non riusciamo a dare risposte adeguate a queste domande, o meglio, abbiamo risposte specifiche e adeguate solo per alcuni di questi trattamenti (soprattutto per quelli di tipo di tipo farmacologico); invece i trattamenti di tipo residenziale e semiresidenziale, così come i trattamenti di tipo psico-sociale e di tipo psicoterapeutico possono navigare in un mare incerto in cui non si riesce a capire perché funzionino.

E questa è una grave mancanza. Il problema di cui oggi dobbiamo occuparci non è più solo quello di applicarsi, discutere, dibattere su determinati documenti, ma quello di capire come il contenuto di questi documenti, di queste linee guida sia messo in pratica, rispettato nelle sue conclusioni e nei passaggi che propone. Non c’è un modello di controllo sull’attuazione di questi documenti. Il problema non sta più, dunque, nel produrre (o solo nel produrre) suggerimenti, raccomandazioni, ma anche e soprattutto nel capire come queste cose vengono poste in essere. È il caso delle piante organiche e, soprattutto, dell’accordo Stato-Regioni. Un altro punto: Luigi Ciotti nella sua introduzione ha sistematicamente sottolineato la priorità che dobbiamo porci: non possiamo pensare ad un sistema che non sia basato sui bisogni dell’utenza.

Una discussione autoreferenziale ci porta in continuazione a discorsi tipo: "Chi è titolare dell’intervento? Chi decide la terapia e il trattamento? Come si coprono determinate esigenze di personale?". Corriamo il rischio di allontanarci dalla centralità dei bisogni dell’utenza: non centri e servizi che si adeguano agli utenti, ma l’esatto contrario.

Vorrei poi sottolineare un problema di carattere terminologico di una certa importanza riguardo l’integrazione tra pubblico e privato. Il discorso sui trattamenti integrati o sul sistema integrato dei trattamenti rischia di essere altro, di non essere coperto. Abbiamo ricordato che esiste un sistema di fatto e che alcune nostre discussioni non interessano i nostri utenti. Quali sono allora gli obiettivi che possono essere alla base di una nuova discussione? Una nuova discussione sulle teorie e sulle pratiche condivise di un sistema di trattamenti integrati o un sistema integrato di trattamenti?

Credo che parlare di trattamenti integrati, di sistema di trattamenti integrati o di sistema integrato di trattamenti non sia la stessa cosa e che occorrerebbe identificare obiettivi differenti a seconda di quello di cui stiamo parlando. Ma già da subito un primo punto di un incontro tra operatori del servizio pubblico e del privato sociale è la questione (anche questa troppo ricordata) delle procedure diagnostiche comuni. Un secondo punto è la necessità di andare verso trattamenti standard, integrati ma riconoscibili. Ma come si possono tradurre queste esigenze in pratiche correnti e conosciute? Ho provato a capire cosa succede in questo settore specifico anche in altri Paesi.

L’unico modello riconoscibile e applicabile è quello del cosiddetto Case - management; tradotto in pratica, significa che un operatore è il referente diretto dell’utente, mentre gli altri sono i suoi collaboratori (i suoi interlocutori professionali, i suoi esperti) e che spesso questo manager è un infermiere particolarmente preparato o comunque una figura professionale adeguata. Immaginiamo cosa significherebbe trasferire questo modello nei nostri servizi, cosa significherebbe se un infermiere (pur particolarmente preparato) andasse adire al medico, allo psichiatra, allo psicologo e all’assistente sociale quello che devono fare, quello che è utile fare per un paziente, quello che ci si aspetta che essi facciano. Non ci vuole particolare fantasia per capire l’assoluta impraticabilità di questa operazione. Un altro punto che dovrebbe essere alla base di questa nuova discussione è il problema dei criteri di inclusione ed esclusione dei pazienti. Abbiamo ascoltato tante volte, in una sorta di rimbalzo di utenti da una struttura ad un’altra, frasi del tipo: "Ci hai mandato questo paziente sapendo che non è adeguato al nostro tipo di trattamento!". Gli utenti di lingua anglosassone chiamano questo processo "maching", che significa tentativo di avviare il paziente al miglior trattamento disponibile, al trattamento più adeguato per le sue esigenze. Criteri di inclusione e di esclusione, quindi, chiari per ogni trattamento.

Un’ulteriore questione è quella della documentazione generale, il problema delle cartelle cliniche. E poi ancora il problema della terminologia. Parliamo delle stesse cose quando usiamo i termini "uso, abuso, consumo"? Parliamo delle stesse cose quando diciamo "cliente, utente, paziente" oppure quando parliamo di "riabilitazione, reinserimento, recupero" oppure "trattamento, terapia, intervento, cura"? Stiamo parlando stessi linguaggi, abbiamo gli stessi retro-pensieri? La questione della terminologia è uno degli elementi fondamentali per un nuovo approccio all’integrazione tra centri di trattamento collocati in maniera differente.

Un’ultima questione che mi sta a cuore è quella di un nuovo rapporto con gli utenti, che sia basato anche su una rappresentanza organizzata degli stessi verso i centri di trattamento. Il on si tratta qui di discutere con loro sulle terapie o di avere una rappresentanza sindacale. Ci sono molti aspetti che potrebbero essere discussi ed in altri Paesi esistono delle esperienze magnifiche. Si può discutere l’adeguatezza degli orari di apertura o dei locali, insomma tutti quegli aspetti che possono migliorare il rapporto tra gli utenti e il centro di trattamento. Credo che si tratti di un intervento plausibile, ragionevole e necessario, sia per i centri di trattamento pubblici sia per quelli del privato sociale.

 

 

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