La salute appesa a un filo

 

Atti della Giornata di Studi

“Carcere: La salute appesa a un filo”

Il disagio mentale in carcere e dopo la detenzione 

(Venerdì 20 maggio 2005 - Casa di reclusione di Padova)

 

Lucia Castellano

 

Buonasera, io sono il direttore della Casa di reclusione di Bollate, che è una Casa di reclusione a custodia attenuata per soggetti non tossicodipendenti. Volevo partire con una premessa: ringrazio per questa organizzazione bellissima, da direttore penitenziario sono veramente ammirata per il fatto che avete fatto entrare 600 persone, diciamo che la concorrenza è stupita. Per il problema dell’affettività e della sessualità in carcere il mio intervento non è la soluzione, volevo semplicemente far luce sul problema perché, secondo me, è importante a trent’anni ormai dalla riforma nel 1975, e a 5 anni dal nuovo regolamento di esecuzione, fare il punto sulla situazione un po’ anche dal punto di vista normativo e vedere se effettivamente lo Stato, rispetto alle premesse ideologiche normative che ha inserito in tema di affettività, abbia mantenuto le proprie promesse oppure se dobbiamo ricominciare un po’ da capo a ragionare. Se noi guardiamo le fonti normative in tema di affettività in carcere, vediamo che l’ordinamento del 1975 parte con una premessa importante.

L’articolo 28 stabilisce che la legge deve mantenere, migliorare, ristabilire le relazioni dei detenuti con la propria famiglia. Qui non soltanto lo Stato chiede che siano mantenute dalla carcerazione, ma vuole addirittura che siano migliorate, ristabilite. Questa è la premessa di principio da cui il legislatore del 1975 parte ed è una premessa che noi non dobbiamo mai dimenticare, perché, va anche scoperchiato il fatto, che questa premessa-promessa non è mantenuta. L’articolo 30 ter ci parla di permessi premio per consentire interessi affettivi, culturali e lavorativi. L’articolo 1 del regolamento di esecuzione del 2000 ci parla di promozione di un processo di modificazione delle relazioni famigliari e sociali che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale, quindi, addirittura, la pretesa dell’Amministrazione penitenziaria è di migliorare i rapporti e di promuovere tutto quello che c’è da promuovere per ricostituire le famiglie in crisi. Ora chiunque degli ospiti di questo istituto e di qualunque altro istituto d’Italia può testimoniarci il contrario.

Allora è veramente possibile che uno Stato nel 2005 pensi che con sei colloqui al mese e quattro telefonate di dieci minuti si realizzino queste premesse? Allora è tempo che qualcuno scoperchi questa ipocrisia di fondo e inventi delle nuove soluzioni, e già il regolamento del 2000 rispetto a quello del 1976 è un po’ meno “sepolcro imbiancato”, nel senso che ha tolto i colloqui premiali. Cioè, finalmente, si è riconosciuto al detenuto il diritto ad avere relazioni familiari anche se si comporta male e questo mi sembra già una conquista di civiltà, e vale anche per i colloqui telefonici. Finalmente si è capito che il direttore dell’istituto può concedere colloqui anche oltre le ore consentite dall’ordinamento se ci sono situazioni di eccezionale gravità. Ma è chiaro che rispetto alla premessa, cioè quella di mantenere e migliorare i rapporti con la famiglia, mi sembra evidente che con sei, otto, dieci ore al mese, noi tutti sappiamo quanto è difficile avere una relazione sentimentale vedendosi solo nei week end, figuriamoci un po’ vedendosi sei ore al mese. Per questo dobbiamo fare una riflessione sulla penalità, sul senso della pena, bisogna saper dire che rispetto alle premesse che lui stesso si è dato, lo Stato non riesce a mantenerle nella maniera più assoluta.

E questa è una cosa che bisogna sottolineare fortemente, perché bisogna sottolineare fortemente che se è vero che la libertà è terapeutica, l’affettività è ancora più terapeutica e la sessualità è ancora più terapeutica forse, o è altrettanto terapeutica della libertà. E allora, quanto alla sessualità non c’è nessun riferimento alla sessualità nella legge del 1975 e nel regolamento del 2000. È proprio un omissis. La Cassazione dice che naturalmente avere rapporti sessuali all’interno del carcere è un atto osceno in luogo pubblico, perché il carcere è un luogo pubblico. Però al di là di questo nulla dice la legge e l’unico riferimento, questo è anche importante sottolinearlo, per i permessi premio è costituito dagli interessi affettivi, culturali e di lavoro. Per cui chi non ha una famiglia strutturata fuori, è difficile che possa andare in permesso premio, perché tra gli interessi affettivi non sono contemplati i bisogni sessuali. L’altra volta parlavo con un magistrato di Sorveglianza che mi diceva: “Ma che ci fa lui da solo, a girare per Milano?”.

Io non è che potevo specificare, però me l’immaginavo che poteva avere dei bisogni suoi, delle cose sue da fare, ma purtroppo l’ipocrisia generale non contempla questa esigenza, che è un’esigenza dell’essere umano. Quindi l’amore e la sessualità sono questioni private, secondarie e separate che nel carcere non entrano, o meglio non entrano dalla porta principale, perché poi il carcere, in maniera anche un po’ subdola, invita invece ad una sessualità perversa. Quindi quello che non entra dalla porta principale nel carcere, cioè un riferimento ai bisogni sessuali che fanno parte della vita di tutti, entra però in maniera perversa dalla finestra, per cui noi Amministrazione penitenziaria in qualche modo conduciamo con il nostro “non detto” verso un modo anche perverso di esercitare la propria sessualità. Allora noi ci dobbiamo dire, ma non perché io voglia fare la rivoluzionaria o voglia fare quella che scopre l’acqua calda, che abbiamo fallito nel nostro scopo dichiarato, che è quello di mantenere, rinsaldare, rinforzare i legami, ed invece siamo stati perfetti nella funzione non dichiarata che il carcere svolge, cioè la separazione degli uomini dalle donne. In questo siamo efficacissimi, non siamo efficaci nella funzione che abbiamo dichiarato.

Forse partendo da questa premessa che è anche una forte autocritica, noi forse possiamo immaginarci delle soluzioni per affrontare questo problema e per affrontare soprattutto la situazione di quelli che gli americani chiamano forgotting-victims, le vittime dimenticate, che sono i parenti dei detenuti. Io per fortuna dirigo un carcere maschile, non ho mai diretto un carcere femminile perché probabilmente non reggerei al problema dei bambini in istituto, però vivo quotidianamente il problema dei bambini che vengono a trovare i loro papà, per cui una volta che noi ci siamo detti, e ce lo dobbiamo dire fortemente, perché ogni riforma seria secondo me parte dalla presa di coscienza del fallimento di una riforma precedente, se noi partiamo da questo presupposto, probabilmente, possiamo cominciare a ragionare su quello che si può fare. Le porte delle prigioni sono restie ad aprirsi, come diceva qualcuno stamattina, anche per i parenti, probabilmente la soluzione che noi in carcere a Bollate ci siamo inventati, è una soluzione che naturalmente tende semplicemente a interpretare quanto più estensivamente possibile le norme sui colloqui e sulle telefonate, perché il ragionamento in tema di affettività non spetta a noi, spetta alle forze politiche e agli intellettuali. Manca una riflessione seria su questi temi, ma purtroppo noi siamo semplicemente degli esecutori delle norme, quindi possiamo limitarci a tirarle come un elastico e cercare di farci entrare dentro quanto più affetto, quanti più sentimenti è possibile.

Allora, a Bollate, per esempio, abbiamo creato una sorta di monolocale all’interno dell’istituto dove i detenuti possono stare una mezza giornata, sfruttando la norma sui colloqui che dice che il direttore in eccezionali circostanze può concedere più colloqui. Facciamo stare il detenuto una mezza giornata insieme ai familiari in una struttura che però non è carceraria, cioè ha i bicchieri di vetro, non ha il fornello ma il forno. Possono cucinare, possono fare quello che credono, possono avere la televisione, giocare con i loro bambini e “simulare” un ambiente domestico. Questo può essere una buona prassi per cercare, non voglio dire di cambiare il mondo ma favorire quanto più è possibile l’affettività. In questo monolocale che noi abbiamo creato, i detenuti possono ritrovare un minimo d’intimità domestica. Ci sono delle telecamere perché naturalmente il colloquio, la vigilanza visiva è obbligatoria, però ci sono delle telecamere non visibili ad un occhio di bambino per cui il bambino può avere la dimensione di una vita familiare.

Ancora abbiamo costituito delle ludoteche, completamente autogestite dai detenuti, per cui i detenuti possono giocare con i loro bambini, hanno un angolo morbido, possono stare con loro, possono fare i compiti. Queste sono delle buone prassi che noi cerchiamo di mettere in atto, prendendo però coscienza di essere fallimentari. Questo è importante, cioè prendendo coscienza del fatto che il carcere non aiuta, non solo non aiuta, ma aiuta a dividere le persone dai propri affetti, e quindi non possiamo parlare di diritto costituzionale immediatamente esigibile, quello all’affettività, ad avere una famiglia, il diritto di avere una rete di affetti, non possiamo parlarne in carcere ancora meno di quanto possiamo parlare di diritto alla salute. Chiaramente l’istituto dei permessi premio è un istituto che andrebbe potenziato, ovviamente per chi è nei termini.

Io non so, e lascio aperto il dibattito, se sono favorevole alla storia dell’affettività all’interno, o se è pensabile invece la possibilità di dare ai detenuti uno spazio affettivo al di fuori delle mura del carcere. C’è un dibattito aperto a Bollate con il comune e la CGIL e con i detenuti. Stiamo cercando d’immaginare una via di mezzo tra la preclusione normativa che impedisce la sessualità in carcere e la possibilità di fruire di permessi premio. E questo è il progetto che i detenuti stanno pensando di mettere su: una sorta di bungalow che dovrebbero sorgere tra il muro di cinta e la portineria per consentire ai detenuti di stare un week end, due-tre giorni, con la propria famiglia. Anche per i detenuti che non hanno il permesso di soggiorno o anche per i detenuti che non possono fruire di permessi premio, quindi una sorta di via di mezzo che noi stiamo inventando per rendere possibile l’impossibile. Noi ci auguriamo di riuscire a realizzarlo e ci auguriamo veramente che qualcuno nel frattempo, mentre noi troviamo delle soluzioni minimaliste, anche di basso livello, proprio per organizzare una quotidianità dignitosa, ci auguriamo che qualcuno più alto di noi, che i politici, che il governo si renda conto del fatto che lo Stato ha fatto una premessa ideologica importante e che ha una promessa non mantenuta.

 

 

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