Giuseppe Mosconi

 

Université Européenne Jean Monnet – Bruxelles

Sede di Padova, Istituto ETAI - Scuola di Specializzazione in Criminologia

 

Seminario nazionale "Carcere e salute"

Padova, 17 maggio 2003

 

Giuseppe Mosconi, docente Università di Padova

 

Mi riferisco a un paradigma che è necessario assumere quando parliamo di salute e che pone una distanza problematica e sistematicamente riscontrabile tra un modello di salute semplicemente inteso come assenza di sintomi patologici evidenti e, quindi, assenza di malattie conclamate e un modello di salute che invece è inteso come benessere complessivo della persona, quindi come una armonia, come una sintonia armoniosa tra una persona e le persona che la circondano, il contesto sociale, la possibilità di trovare forme di auto-realizzazione, di auto-identificazione soprattutto, di integrazione della persona in relazione ai contesti in cui si trova, in un modello sociale in termini ottimali orientato a soddisfare i bisogni sostanziali degli individui.

È evidente che tra questi due termini, quello minimale e quello massimale, c’è una tensione sistematica, dialettica, direi quasi una ricerca continua per prova ed errore, da un certo punto di vista, ma anche per auto-affermazione, per contrattazione, per ridefinizione, che nel corso del tempo si dispiega con varie modalità.

Ed è in questo spazio, ritengo, che possiamo parlare di costruzione sociale della salute, o di costruzione sociale della malattia, cioè l’altro lato della medaglia, come di qualcosa che anche in assenza di sintomi patologici evidenti, quindi in un soggetto fondamentalmente sano, la definizione sociale del suo stato di salute e la accettabilità del livello di benessere che viene a conquistare, fa sempre parte del contesto socioculturale in cui il soggetto è collocato. E questa collocazione, questa definizione, si riflette inevitabilmente nella percezione che il soggetto ha del proprio benessere.

Quindi la cosa, evidentemente, si drammatizza e si rende più problematica nel momento in cui emergono dei sintomi e delle sindromi patologiche chiaramente individuabili, anche perché, se da un lato noi potremmo risalire, attraverso la storia personale, soprattutto attraverso il senso del sé, attraverso il sistema di relazioni umane nel quale la persona è cresciuta, ai motivi che in qualche modo hanno indotto l’insorgere della malattia, a maggior ragione poi potremmo analizzare come il soggetto percepisce il suo problema e come la società percepisce il suo problema. E, quindi, in questa interazione tra individuo e società potremmo focalizzare il modo in cui il problema, pur presente fisicamente, risulta culturalmente percepito e, quindi, socialmente costruito.

La costruzione sociale della malattia precede, quindi, l’insorgere della malattia stessa, in quanto si sostanzia di una serie di significati, di esperienze, di auto-rappresentazioni e di etero-rappresentazioni che, in modo graduale, spesso sotterraneo, subliminale, s’insinuano nel soggetto fino ad esplodere. Così come rappresenta un paradigma utile, poi, per capire come la malattia viene percepita e socialmente definita e, ancor più ovviamente, come viene curata, verso quali obiettivi viene curata.

Se assumiamo, quindi, questo riferimento epistemologico nell’affrontare il problema della salute, della malattia, del rapporto tra malattia e salute, ma per le persone in genere, non per le persone recluse, è inevitabile poi collocare questi riferimenti e queste definizioni nel contesto specifico del quale ci stiamo occupando, quindi nella realtà carceraria.

A me sembra che questo tipo di problema, in carcere si collochi in un intreccio di paradossi e di ambivalenze. Il primo ha a che fare con il fatto che il soggetto detenuto viene, ad un tempo, considerato come sano e come malato. Come sano, perché altrimenti non sarebbe colpevole: se non viene considerato come soggetto integro, come soggetto in pieno possesso delle sue facoltà umane, mentali, emotive, non potrebbe essere giudicato come condannabile. Come malato, perché in realtà è considerato così un soggetto deviante, un soggetto con tratti a volte di maniacalità, o di mitomania, o di ossessività attorno a determinate forme di comportamento, determinate scelte di vita. Quindi questa prima ambiguità, che si riferisce al giudizio stesso intorno alla persona che verrà reclusa, è inconsciamente presente nel modello culturale che porta alla condanna.

Il secondo tipo di paradosso e di ambivalenza mi sembra si dispieghi intorno all’esperienza stessa della afflizione punitiva, nel senso che da un lato il soggetto deve essere considerato sano, per poter capire il carattere afflittivo della pena, tant’è che se viene considerato infermo o seminfermo di mente in carattere afflittivo della pena, almeno concettualmente, giuridicamente, viene a ritenersi in tutto o in parte inapplicabile, perché prevalga invece la dimensione terapeutica e, d’altra parte, il soggetto è considerato invece malato, è considerato come fragile, più esposto a forme di induzione patogena, appunto perché è collocato in una situazione di sofferenza e, questa sofferenza, logora, determina somatizzazioni, quindi crea delle conseguenze negative. Anche su questo punto, quindi, non solo sulle motivazioni al delitto, ma sul vissuto della pena, culturalmente il modello che porta a questa determinazione nasconde dei paradossi e delle ambiguità.

Il terzo paradosso è individuabile nelle prospettive che si aprono alla persona reclusa, alla persona punita, cioè il soggetto sarà sano, pur nei suoi limiti, nelle sue cadute, nelle sue deformazioni, è collocato istituzionalmente in un’esperienza che lo deve portare a un risanamento, ma nello stesso tempo il soggetto che è stato in carcere, che è in carcere, è un soggetto stigmatizzato, è un soggetto etichettato come diverso, è un soggetto che farà una enorme fatica a rimontare la china della stigmatizzazione sociale, per tornare a livelli accettabili di normalità, su un piano di pura umanità, e quindi l’itinerario in cui è collocato, anche in termini proiettivi, verso il futuro, è una prospettiva che si presenta ancora una volta culturalmente ambigua. Non è affatto acquisito socialmente che il soggetto curato nell’istituzione ne uscirà più affidabile, più sano, più accettabile di prima: siamo molto lontani, ovviamente, da questa prospettiva.

Se noi consideriamo la presenza di queste ambiguità e di questi paradossi nel gap, nella distanza che separa la salute in senso minimale dalla salute in senso ottimale, così come dicevo prima, è evidente che ci troviamo di fronte a una concretizzazione di questa costruzione sociale del rapporto salute – malattia all’interno dell’istituzione, che solleva rilevanti problemi. La domanda che ci dobbiamo porre è: a che salute si rieduca o, a che salute si media, istituzionalmente? A che tipo di salute (in linea di principio, ma ancora di più nei fatti, perché poi sono i fatti, che in termini inconsapevoli e indiretti forse, ridefiniscono i principi, diventano socialmente accettabili, in quanto entrano a far parte della coscienza diffusa o della disattenzione collettiva) si educa?

Qui io vedo tre definizioni, che mi sembrano tutte limitanti, dal punto di vista della costruzione sociale, che la salute stessa assume nel contesto carcerario. La prima è quella di carattere istituzionale, lo ha detto chiaramente il Provveditore nel suo intervento: i limiti entro cui è possibile gestire il problema salute all’interno dell’istituzione sono dettati da ristrettezze economiche, molto spesso da scarsa motivazione istituzionale nel portare avanti delle scelte di riforma univoche, chiare, precise, dalla scarsità di risorse strutturali, di competenze professionali di carattere specialistico, almeno immediatamente raggiungibili. D’altra parte, la salute che viene ritenuta accettabile all’interno, è quella che sostanzialmente si sintonizza con l’auto-referenzialità dell’istituzione, cioè con la possibilità che l’individuo si adatti ai ritmi, agli orari, agli spazi, ai significati, alle attività, ai riferimenti recepibili, alle definizioni di sé e dell’altro che l’istituzione in quanto tale, e non potrebbe fare altrimenti, in quanto istituzione totale e quindi che mira all’auto-tutela, impone.

Quindi questo è un primo grosso problema: il soggetto che sta steso per buona parte della giornata nel proprio letto sicuramente non crea problemi di equilibrio e di disciplina all’interno dell’istituzione. Certamente attraversa dei grossi problemi personali, certamente una politica sanitaria illuminata, o rieducativa aperta, cercherà di farlo alzare da quel letto, ma il modo in cui si renderà accettabile questa assunzione di comportamento, diverso magari rispetto a un atteggiamento regressivo e auto-afflittivo, qual è quello rappresentato dall’assunzione abbondante di psicofarmaci, che stordiscono per buona parte della giornata, si aprirà allora a delle domande, si aprirà a delle aspettative, a delle richieste di possibilità, e non è detto che questo atteggiamento più attivo possa facilmente trovare soddisfazione.

La seconda dimensione problematica mi sembra quella che riconduce la salute semplicemente ad un diritto alla cura, magari ad una cura in termini adeguati rispetto ad una definizione media di salute e di benessere, quindi rivolta soprattutto a patologie conclamate e all’analisi dei sintomi e all’attivazione di terapie. Anche questa definizione, pur giuridicistica, pur legata a un’idea della salute come diritto e, quindi, che ha i suoi aspetti evidentemente positivi, quanto più questo diritto fosse giudiziabile, cioè esistessero degli strumenti, oggi peraltro mi sembra piuttosto deboli, di auto-tutela nella protezione di questo diritto, tuttavia verrebbe a collocarsi in un punto della costruzione sociale abbastanza condizionato dal fatto che il soggetto, nel momento in cui denuncia il sintomo e rivela il proprio stato patologico da un lato ha già subito, a livello subliminale, dei processi di alterazione del proprio equilibrio e, dall’altro, le possibilità di cura verranno sempre e comunque compresse dentro le coordinate del contesto istituzionale.

Il terzo aspetto è che, in questo stato di cose, mi sembra che ci sia la tendenza a considerare la salute come già in linea di principio limitata, già in linea di principio come qualcosa che comporta l’accettazione, da parte del soggetto, di una buona dose di sofferenza. E, quindi, un implicito invito al soggetto a ridefinire i propri concetti di benessere e di salute ad un contesto che non potrà che assumere delle forti limitazioni che fanno già parte di un orientamento collettivo inconsciamente aperto all’accettabilità sociale delle stesse.

Con questo tipo di riferimenti, noi non possiamo non considerare il fatto che, sullo sfondo di questa accettazione di salute limitata, ci sta una normatività, un concetto di normalità, un concetto di necessaria accettabilità di ciò che è socialmente normale, che ridefinisce insomma un piano di anormalità quasi costitutivo dello status di detenuto, avente a riferimento tre definizioni molto rigide.

La prima è la normalità intesa in senso giuridico, cioè questo status si radica in un itinerario che parte dalla descrizione del soggetto come colui che ha violato una norma, una norma che deve andare riaffermata in modo rigoroso e che pertanto getta sul soggetto un alone di alterazione soggettiva, di avvenuto processo alterativo rispetto a ciò che è la normalità della media delle persone. Questa normalità giuridica si traduce in una normalità sociale intesa come modello da ricostruire, come modello da raggiungere nuovamente attraverso la punizione e, in terzo luogo, una normalità personale come necessità di ricostituire un proprio equilibrio, che sarà quello che rende di nuovo la persona giuridicamente e socialmente adeguata.

È evidente che questi riferimenti, nella misura in cui non vengono articolati, non vengono calati nella complessità dei processi all’interno dei quali si rivela il comportamento deviante, non vengono specificizzati nella concretezza dell’esperienza del singolo, rappresentano una specie di cappa plumbea molto solida, rispetto alla quale il soggetto è chiamato in linea di principio ad adeguarsi, ma noi sappiamo che ogni norma crea una sua devianza e, quanto più una norma è rigida, tanto più proietterà una forma di violazione o di alterazione rispetto alla rigidità di una norma definita in linea di principio e non facilmente arrivabile.

In questo senso, è ovvio che le proiezioni di questa normalità, che viene prima di tutto giuridicamente definita, e poi culturalmente, come conseguenza della definizione giuridica, la anormalità che così inevitabilmente si riproduce è quella della colpa, della sofferenza, e della limitatezza dello spazio fisico e sociale in cui il soggetto è collocato.

Queste tre articolazioni, che descrivono la conseguenza della rigidità normativa, rappresentano in realtà il contesto concreto, fisico e culturale, in cui il soggetto si trova materialmente collocato. Questo processo non è estraneo, rispetto alla dimensione media di salute nella quale tutti noi, cosiddetti normali, siamo collocati. C’è una contiguità evidente tra il modello di benessere che normalmente noi recepiamo e questo modello di benessere, ipotetico, rigido, inarrivabile, che viene costruito attraverso l’afflizione penale. È semplice, basti capire quanto ad esempio il modello di benessere che si riconduce, nella nostra società, al puro consumo di beni materiali e al raggiungimento di livelli di consumo soddisfacenti anche dal punto di vista della loro invidiabilità sociale, quindi status symbol che creano accettabilità e rispettabilità attraverso l’utilizzo dei beni, molto spesso rappresenta, nel depauperamento culturale che caratterizza lo status iniziale di molte persone che arrivano in carcere, una suggestione ancora più potente rispetto a quella che noi mediamente subiamo.

Ci siamo dentro tutti, da questo punto di vista, basti considerare come l’esperienza del tempo, nella dimensione temporale che viviamo quotidianamente, e il modo in cui questa dimensione viene rovesciata nell’esperienza carceraria. Nel senso che quotidianamente, ad esempio, noi viviamo una tensione sistematica tra un tempo che riempiamo di mille cose e l’aspirazione a un tempo tranquillo, un tempo in parte svuotato, che non riusciamo mai a raggiungere, come dimensione del benessere, e invece una dimensione in carcere in cui la percezione del tempo è talmente rarefatta e svuotata da riempire completamente l’esperienza della persona.

E quindi questo rovesciamento riflette specularmente quello che è il tempo sociale esterno e, soprattutto, nel tempo del carcere e della pena oggi, c’è un rovesciamento di ciò che è il tempo affrettato e frammentario che viviamo al di fuori, ma questo rovesciamento è proprio complementare e rafforzante, nella sua rarefazione e nel suo svuotamento, del tempo che viene sviluppato all’esterno dell’istituzione.

Il secondo aspetto che voglio sottolineare è che, come ben scrive Pavarini nell’introduzione di questo importante libro della metà degli anni 90, cioè "Il corpo incarcerato", di Gonin, in cui si descrivono in modo direi quasi raccapricciante la quantità e la qualità delle forme patogene connesse allo stato di detenzione, nel carattere patogeno dell’esperienza detentiva si consumi il rovesciamento e il fallimento di un mito, di un’aspirazione propria del pensiero liberale, del pensiero classico che sta a fondamento della pena, cioè della pena "dolce", l’opposto del supplizio fisico. Invece la pena trasforma in modo subdolo, corrispondente a un logorante stillicidio quotidiano, l’esperienza del soggetto detenuto in un’esperienza patogena, tant’è che poi le patologie si rivelano in modo evidente.

Quindi, nella pena, nella sua razionalità e moderazione, dovrebbe rivelarsi il rispetto e la maturazione complessiva del soggetto, invece essa si traduce in una forma di sottile e continua alterazione dello stato psicofisico della persona. E qui vediamo un parallelo con quello che descrive Foucault nella conclusione del suo ormai mitico testo e cioè il carcere che dovrebbe rieducare in realtà è un carcere che produce disadattamento e, soprattutto, parla per chi è fuori, non per cambiare chi è dentro, quindi induce un modello di normalità esterno.

Ma è proprio qui che siamo chiamati in causa, nella definizione di un modello di normalità che non sia accettazione, complessivamente, di assenza di sintomi, che non sia un salutismo rituale che recita delle formule comportamentali come degli antidoti rispetto a potenziali malattie, ma che lascia ampio spazio ad una percezione esistenziale inconscia, che altera il nostro equilibrio psicofisico giorno per giorno e che, a partire da questa riflessione critica sul concetto di salute, si capisca che cosa possa essere la salute, qual è il modello socialmente accettabile di salute da proporre a chi ha gia rivelato nella sua esperienza dei problemi in più.

Se si sono rivelati dei problemi in più, mi sembra minimo, in una società civile, in una società scientificamente ispirata in modo razionale, cercare di prevenire che quei sintomi già di malessere si traducano in ulteriore malattia, così come l’esperienza della pena molto spesso oggi purtroppo produce.

 

 

 

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