Alberto Meluzzi

 

Université Européenne Jean Monnet – Bruxelles

Sede di Padova, Istituto ETAI - Scuola di Specializzazione in Criminologia

 

Seminario nazionale "Carcere e salute"

Padova, 17 maggio 2003

 

Alberto Meluzzi, psichiatra

 

Mi sembra che le conclusioni del professor Mosconi rappresentino già quasi l’intero contenuto della mia breve trattazione, nel senso che definire l’istituzione totale è cosa talmente ovvia nella storia della psichiatria forse da non meritate delle notazioni ulteriori. Io credo che però mai come oggi, in un tempo di crescente rimozione dei problemi, nel nome del tecnicismo, dell’efficienza o della pseudo-efficienza e in nome della neutralizzazione del soggetto, che è alla base della formazione delle istituzioni totali, sia il momento di occuparsene.

Io vorrei ricordare che il concetto stesso di istituzione totale, che noi potremmo concettualmente sospendere tra Foucault e Goffman, è un concetto che rappresenta il tentativo estremo del pensiero illuminista di isolare, asetticizzare, ghettizzare, rendere assolutamente razionale e inoffensiva la presenza della anomia, della diversità, dell’alienità. Le opere fondamentali della storia della follia nell’età classica e della storia della clinica di Foucault, in fondo ci ricordano proprio questo: l’idea della anomia della malattia mentale che passa dalla dimensione sacrale e sciamanica dell’età classica e dell’età medioevale, ad una visione demonologica, per poi approdare ad una visione razionalistica e clinica che etimologicamente significa e significava esattamente questo: clinica, da clinomae, cioè stare a letto, cioè prendere la presenza della malattia e del disagio, introdurla e contestualizzarla, denaturalizzandola e inserendola in un contesto del tutto artificiale, asettico e sperimentale, qual è quello del clinomae, dello stare a letto (ma questo vale anche per la clinica medica, non solo per la clinica psichiatrica), e poi dedurre un complesso di osservazioni che diventano la nosografia, da quella osservazione fenomenologica e, nella storia della medicina, dalla patologia visiva di Virkoff, del tavolo settorio e della anatomia patologica.

Se tutto questo è vero nella storia della medicina, cioè come la desoggettivazione della malattia produca un modello che si fonda, come tentavo di dire, sulla clinica e sulla anatomia patologica, cioè sulla scomposizione della morte e sulla descrizione della malattia, che è l’esatto opposto di una medicina della vita. E a questo modello, che ha dato molti risultati nella lotta contro le malattie infettive, o nella lotta contro certe patologie acute, oggi noi scontiamo grandi ritardi, per esempio, su ciò che significa la lotta contro grandi malattie degenerative.

Non posso non citare un bellissimo articolo di Ceronetti, uscito qualche giorno fa, in cui questo straordinario gnostico contemporaneo faceva notare come gli enormi investimenti quantitativi, in tecnologia, in biologia, in ricerca fondata su una visione esasperata e quantitativa del tecnicismo, sull’estremizzazione della scomposizione analitica delle cause, abbiano prodotto negli ultimi 50 anni dei modestissimi risultati nella lotta contro una patologia di enorme diffusione come la patologia oncologica. Forse perché, dice Ceronetti, il metodo applicato nella ricerca delle cause e nella ipotetica conquista di effetti terapeutici, segue lo stesso modello epistemologico che genera la diffusione della malattia stessa. Un po’ come se questo similia similibus curantur non funzionasse, applicato al tempo della ricerca.

Ecco, questo che forse non è vero, nel caso della oncologia, o che può essere visto in modo straordinariamente dubitativo, è invece sicuramente vero laddove noi ci occupiamo di emozioni, di sentimenti, di relazioni interpersonali, di vissuti, quindi esattamente come nel dominio delle scienze dell’uomo, della psichiatria, della cura e della presa in carico dell’uomo sofferente. Il manicomio e la lotta contro il manicomio è stata, forse, l’unica tappa veramente importante della storia della psichiatria italiana di questo secolo appena trascorso.

Senza estremizzazioni e senza accenni polemici credo di poter dire che se, nel XXII, nel XXIII secolo, verrà scritta una storia della psichiatria italiana, certamente vi troveranno posto, in una dimensione planetaria, soltanto due autori, che hanno dato un contributo significativo alla storia della psichiatria, partendo dalla nostra meravigliosa penisola gettata a ponte tra l’Europa e l’Africa. Uno è certamente Ugo Cerletti, l’inventore dell’elettroshock, che aveva fatto questa ipotesi di lavoro partendo da osservazioni fatte nel macello di Roma, al Testaccio, dove vedendo delle mancate esecuzioni di maiali, che cadevano a terra scossi da crisi tonico-cloniche e che si rialzavano in piedi dopo qualche momento di morte apparente, aveva avuto la brillante intuizione di provare a sottoporre anche gli ospiti del regio manicomio a questo tipo di trattamento.

L’altro è Franco Basaglia, che ha fatto sicuramente (lasciamo stare gli aspetti politico-sociali ed etici della questione) la più straordinaria sperimentazione della storia della medicina delle cause, avendo provato, con effetti incerti (perché questo va detto) che cosa accadeva al cosiddetto primo volto della follia, cioè quello delle cause prime degli eventi del disagio mentale, eliminando il secondo volto della follia, cioè gli effetti della istituzionalizzazione.

E oggi, a circa 25 anni dalla approvazione della legge 180, noi possiamo anche tracciare qualche bilancio: ma non è questo l’oggetto della mia relazione, è semplicemente quello di tentare di farvi osservare come, mentre la lotta antistituzionale ha i suoi effetti e oggi, dopo un quarto di secolo, la psichiatria può misurare delle valutazioni critiche, che ci dicono che certamente il manicomio era un male peggiore del male che diceva di curare, che certamente quanto è stato fatto non poteva ridursi soltanto alla pax destruens, ma era necessario pensare a una pax costruens articolata, che oggi si è tradotto in una situazione bicorne, in cui da una parte sono sorti e stanno sorgendo mille nuovi micro-manicomi privati, dall’altra però si sono percorse anche strade più originali e più creative ed efficaci, che hanno prodotto quello che più ottimisticamente gli autori ed i protagonisti delle lotte antistituzionale degli anni 70 e 80 potevano pensare.

Quindi, mentre questo bilancio sulla lotta antistituzionale in psichiatri è sub judice, nel caso invece della istituzione carceraria, che nell’assunto di questo breve intervento viene definita come l’ultima istituzione totale, noi siamo all’anno zero. Perché noi possiamo dire che il carcere è l’ultima istituzione totale, nel senso di Goffman, o di Foucault?

Perché il carcere, come il manicomio, rappresenta una risposta indifferenziata, uniforme, livellante, mortificante la soggettività, ad una gamma infinita di storie, di casi, di situazioni, di problemi, e come le istituzioni totali, muovendo pure da un assunto illuministico, che sconfina nell’utilitarismo benthaniano, che sconfina nel panottico, che sconfina nella possibilità illusoria di controllare con il controllo e la ragione degli eventi processuali, come quelli che si realizzano negli istituti di pena e che, guardacaso, appaiono anche esistenzialmente immensamente sbilanciati rispetto alla causa che li ha prodotti. Perché, mentre la pena è un processo, il reato che l’ha prodotta è un evento, questa è la ragione per cui in carcere tutti stanno male, per definizione. Perché, per quanto grave possa apparire, anche alla soggettività, l’evento che ha prodotto il processo, evento e processo non sono mai tra di loro commisurabili, per cui, considerata la durata dei processi e considerata la durata delle pene, si finisce con il produrre degli effetti esistenziali su soggetti che non sono più in nessun modo e in nessun caso coloro che avevano così agito.

Questa sfasatura fenomenologica, proprio, è alla base, secondo me, della prima dimostrazione della ontologia patologica del carcere, anche in senso filosofico, quindi noi abbiamo in carcere soggetti che, come chi frequenta l’istituzione carceraria sa bene, quasi mai hanno granché a che vedere con il soggetto che aveva compiuto il reato. O in meglio, o in peggio, sia ben chiaro. Perché l’evento processuale che si realizza in carcere, nella stragrande maggioranza dei casi, è un evento che produce effetti negativi, non soltanto sul piano della patologia individuale, ma anche sul piano della patologia sociale, perché il carcere diventa, nella stragrande maggioranza dei casi, università della devianza, luogo di diffusione di modelli comportamentali patologici, e poi, per rifarci a quella triade di Klemer, della cosiddetta prisonizzazione, questa dimensione di continua esposizione a espressioni contaminanti: la mancanza di intimità, la presenza pervasiva della autorità, questo tempo livellato e questo livellamento comportamentale si traduce in quella sindrome di spersonalizzazione che il concetto di prisonizzazione di Klemer riprende con forza e che è la cotè carceraria della istituzione totale di Goffman.

Ora, è chiaro che queste riflessioni dovrebbero portarci e, direi, inevitabilmente ci portano, ad un punto di vista che io, come dire, sostengo, ma che è un punto di vista da proporre in maniera problematica e che, in ogni caso, richiede, come nel caso dell’abolizione degli ospedali psichiatrici, di pensare in modi e in tempi ragionevoli a delle alternative possibili: ci porta ad una logica abolizionista, rispetto all’istituzione carceraria.

Certo, il carcere rappresenta il male necessario, il luogo del contenimento del disagio, il luogo dell’arginamento della anomia e della devianza, il luogo da agitare anche come spauracchio sociale e di inibizione di comportamenti devianti, però se noi facciamo un’analisi, in questo caso sì razionalista, del rapporto costo – rischi – benefici dell’istituzione carceraria, noi ci troviamo di fronte oggi, e lo sa bene chi vi opera all’interno, che i costi dell’istituzione carceraria sono, per mille e una ragione, credo, abnormemente alti, per i risultati che producono. Io non so se i presenti sanno che un detenuto costa allo stato oltre 300 euro al giorno, o anche di più, in certi istituti di massima sicurezza, ed è ragionevole chiedersi, da un punto di vista di economia pubblica e di economia sanitaria, se questi denari dei contribuenti non potrebbero essere spesi meglio. Cioè io mi chiedo se, con 600.000 lire al giorno, non si possa pensare di mettere in moto un processo riabilitativo più efficace e, magari, anche meno costoso.

E se poi noi analizziamo la realtà della popolazione carceraria, noi vediamo che oggi il carcere è diventato l’ultimo manicomio, non soltanto in senso statistico epistemologico, perché ultima istituzione totale, perché effettivamente in carcere oggi finiscono anche una quantità, o vorrei dire buona parte dei pazienti psichiatrici con problemi di psicosi acuta. Cioè, oggi di fronte ad evento anomico violento pubblico, un soggetto che faccia un’azione violenta, che in uno stato di alterazione mentale prenda una sbarra di ferro e demolisca una Gazzella dei Carabinieri, finisce in carcere. E, prima di uscirne, transiterà in carcere e passerà in carcere un tempo spesso non breve.

Io ho avuto l’avventura, negli ultimi tempi delle mie esperienze parlamentari, di trascorrere in carcere, in diversi Istituti penitenziari, una giornata di Ferragosto: ebbi l’avventura di vedere, in alcune carceri, e Torino era tra queste, che se noi nel giorno di Ferragosto avessimo fatto la somma di tutti i casi francamente psichiatrici, con una possibile diagnosi di psicosi, contenuti nell’istituzione carceraria in quel momento, e li avessimo confrontati con la somma di tutti i casi di psicosi acuta contenuti in tutti i Servizi di Diagnosi e Cura dello stesso territorio, ci sarebbero stati più pazienti psichiatrici in carcere di quelli che c’erano in ospedale.

Questo vuol dire che il carcere è anche una straordinaria, per quanto impropria, istituzione psichiatrica. E oggi lo è più che mai, e di questo passo lo diventerà sempre di più, perché in carcere sempre di più finisce oggi una popolazione che io faccio fatica a definire con vecchie categorie nosografiche, così com’è difficile applicare categorie nosografiche rigide, come quelle dell’ECD10 o del DSM4 agli esordi di crisi che oggi noi vediamo negli ambulatori psichiatrici, nei Servizi di Diagnosi e Cura, nelle strade. È sempre più difficile trovare un paziente che possa essere classificato come psicotico in modo pulito, è molto difficile trovare un paziente che possa essere definito tossicodipendente, è molto difficile trovare un paziente che possa essere definito portatore di un puro disturbo di personalità, è molto difficile trovare un soggetto che possa essere definito deviante e criminale senza che vi siano inferenze anche di queste altre due categorie dello spirito.

Ci troviamo di fronte a quello che, con una provocazione, io chiamerei, visto che gli acronimi vanno di moda, un PTE, un psico-tossi-emarginato, cioè un soggetto che ha problemi psicopatologici, assume sostanze, e che produce azioni che inevitabilmente ad un certo punto finiscono col collidere col sistema di norme della società e quindi lo portano nella zona dell’anomia e, quindi, verso i tribunali e poi verso il carcere.

Allora, io mi chiedo se il trattamento sociale di questo PTE non debba essere pensato in una dimensione in qualche modo integrata, non per fare un ulteriore swich verso forme di tecnicismo ancora più esasperato e ancora più razionalista, anzi direi che semmai noi dovremmo entrare, o tentare di entrare, in una fase post-razionalista della cura sociale della devianza, cercando di privilegiare, invece, tutto quello che dalle lotte antistituzionali, per esempio, la psichiatria ha imparato. E certamente una cosa che la psichiatria ha imparato è la legge universale della reciprocità, una legge che governa tutti i comportamenti umani e, vorrei dire, anche i comportamenti etologici, è che, alla base del comportamento umano, ci sta inevitabilmente la relazione e che, la relazione, è un fenomeno auto-poietico ed auto-determinantesi, che fa diventare, o in una prospettiva diadica, o in una prospettiva collettiva e gruppale, o in una prospettiva corale o sociale, un individuo e una relazione una certa cosa a seconda del contesto in cui viene calata.

Questo è un dato che sembra l’uovo di Colombo, sembra una banalità, ma non è affatto una banalità, e se volete che ve ne dia una prova provata di tipo esperienziali, meglio di tanti discorsi mi viene un aneddoto di vita vissuta in questa ultima settimana di professione.

Io mi occupo, professionalmente, soprattutto di comunità terapeutiche e, tra queste comunità terapeutiche, ce n’è una in particolare, che rappresenta il centro della mia azione e che è quella di Albugnano, che è una cooperativa sociale nella quale anche io vivo, con la mia famiglia. In questa comunità è stato ospitato, per un certo tempo, un ragazzo monzese con una diagnosi originaria di schizofrenia paranoie molto gravata da storie psichiatriche pesanti, con ricoveri e trattamenti sanitari obbligatori.

Questo ragazzo è stato per un anno lì, ha lavorato, si è dato da fare, è migliorato molto, poi una serie di vicende lo ha riportato per alcuni periodi a Monza, dove ha ripreso a frequentare vecchi giri, a rifare canne in abbondanza aggirandosi per il parco, a rientrare in una situazione di crisi. Ad un certo punto di questo momento di caduta, lui lancia un messaggio di aiuto, ritorna ad Albugnano, mi chiede di poter essere riaccolto nella comunità e sta lì 48 ore. In queste 48 ore, che erano straordinariamente delicate, lui assume una serie di pattern comportamentali, emozionali e relazionali del tutto adeguati, rispetto alla situazione. Non solo, ma di fronte alla minaccia di poter essere un elemento di perturbativa di fronte alla vita del gruppo e della comunità, decido di portarlo con me, come faccio spesso, per tutto il giorno.

Allora, nella giornata di giovedì, lui parte con me al mattino alle sette e un quarto, per venire al Alba alla scuola di umanizzazione, gli chiedo se se la sente di guidare la macchina, guida la macchina in maniera perfettamente coerente, senza problemi; avevo una colazione di lavoro, lo lascio nel mio ufficio, lui legge, inanella perline, fa le sue cose, risale in macchina con me il pomeriggio, guida perfettamente, torna a casa, cena. Dopodiché, il giorno successivo, chiede di poter tornare a Monza, perché la madre lo ha chiamato. Essendo impossibile evitarlo, Enrico rientra a Monza e la madre mi riferisce che, non più di 24 ore dopo, nella sera di venerdì, Enrico arriva a casa, visibilmente agitato, con in testa un mantello nero, dicendo "sono diventato islamico, adesso vi uccido tutti, chiamate i carabinieri…" e viene ricoverato, in TSO, all’ospedale di Monza.

Che cosa è successo nella sua testa, nel frattempo? Che cosa è successo nella sua testa è irricostruibile, ma quello che invece è ricostruibile è che fra il profilo psicopatologico del 22enne che guidava la mia macchina e che mi seguiva in ufficio e che teneva un comportamento perfettamente coerente e il 22enne che 24 ore dopo appariva alla diagnosi psichiatrica come uno psicotico acuto pericoloso, incoercibile, tanto da dover essere cinghiato, legato e sedato nel Centro di Diagnosi e Cura, non c’era alcuna rottura psicopatologica sostanziale, se non legata a una cascata di eventi di reciprocità.

Questa è una cosa che, chi fa psichiatria degli acuti, conosce bene. Così come la conosce bene chiunque sappia che le dinamiche del rapporto con la famiglia sono straordinariamente scatenanti eventi acuti, rispetto a dinamiche non contenitive ma di reciprocità rassicurante.

Allora, io voglio dire che, di fronte a questa visione delle cose, il carcere, così com’è, rappresenta rispetto alla devianza in un certo senso l’esatto opposto di quello che servirebbe. Laddove occorrerebbe ricostruire legami e relazioni che diano sensazioni di confidenza, di affidabilità e di progettualità, il carcere fa, per ovvie ragioni, esattamente l’opposto. Laddove occorrerebbe trasmettere dei sistemi valoriali solidi, sicuri, per citare Jaspers legati ad una trascendenza immanente, quindi a qualche cosa che, partendo dalla intimità della soggettività della relazione sa guardare verso una luce che la trascende, quindi sa guardare verso orizzonti non tautologici, il carcere propone l’estremo della tautologia, della chiusura della autoreferenzialità. Laddove servirebbe proporre una dimensione di ricerca del sé, il carcere invece livella il sé, lo spiana, lo obnubila.

Allora, io concludo anche qui con una battuta ed una provocazione. Voi ricordate il Discorso della montagna, da cui discendono poi i temi della salvezza, citati nel Vangelo di Luca. "Andate, maledetti, nella dannazione, perché ero affamato e non mi avete dato da mangiare, ero assetato e non mi avete dato da bere, ero ignudo e non mi avete rivestito, ero ammalato e non mi avete curato, ero carcerato e non mi avete visitato", traduce malamente dall’aramaico la vulgata di San Girolamo. Quel concetto, "visitato", è quello su cui etimologicamente occorre appuntare l’attenzione, perché è lo stesso verbo usato per la Trinità delle querce di Mamre, quando i tre angeli che rappresentano la Trinità nella esegesi corrente, si presentano ad Abramo, sotto le querce di Mamre. Quella è l’azione della visita che, nei popoli semitici, che sono popoli migranti, che sono popoli pastori del deserto, equivale alla nostra idea della ospitalità reciproca: più che "visitato", noi dovremmo forse tradurre "accolto"… "voi che non avete accolto i carcerati". "Ero carcerato e non mi avete accolto", tradurrei, perché il concetto di "visitato" rimanda a un luogo altro, a cui ci si reca per fare un atto di pietà, o di pietismo.

Ero carcerato e non mi avete accolto significa, invece, ero in una condizione nella quale ero posto in vincoli, ero in catene, per ragioni diverse, e voi non mi avete accolto. Accolto dove? Accolto come? Questo dovrebbe essere l’oggetto del prossimo convegno, cioè quali sono le alternative concrete e possibili all’istituzione carceraria. Secondo me ve ne sono molte. Ci sono due linee di tendenza, in questo, per quel che riguarda la psichiatria. C’è chi dice che si può portare la psichiatria dentro al carcere (e c’è un’esperienza molto interessante, molto bella e molto efficiente, a Torino) e c’è anche un altro punto di vista, che sostiene, invece, che bisogna prendere il disagio e bisogna portarlo fuori dal carcere, verso altre prospettive e verso altre strade.

Probabilmente le due cose non si escludono a vicenda, anzi necessariamente si integrano, così come si integrano i diversi momenti della presa in cura della accoglienza e della assistenza psichiatrica. Però, certamente, il momento extracarcerario della accoglienza del cosiddetto deviante è un momento che deve saper fare i conti con le leggi universali della reciprocità, con quella dinamica "io – altro", che è la dinamica che i grandi studiosi della relazione ripropongono con una forza assoluta, cioè la dimensione di un altro da sé, in una irriducibile ed incomprensibile alterità che non rappresenta la ricerca onnipotente di un alter ego che sia una marionetta bamboleggiante o un fantoccio delle nostre aspettative, ma una alterità irriducibile rispetto alla quale porsi con una dinamica di intersoggettività forte, in senso jaspersiano, proprio. La dinamica di un incontro con ciò che è incomprensibile, ma che nella sua incomprensibilità, però, non esclude la possibilità di una comune progettualità di vita. Questo è il tema di un comunitarismo forte, con il quale noi ci dovremo misurare.

 

 

 

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