Fabrizio Ravelli

 

Società senza informazione

I media, i diritti e gli esclusi

Venerdì 21 giugno 2002 - Milano

Fabrizio Ravelli, di "Repubblica"

 

Io volevo dire soltanto un paio di cose. Mi sembra che il discorso riguardo alla superficialità dei grandi mezzi di comunicazione, dei grandi giornali e delle televisioni, sia fondamentale non soltanto per quel che attiene all’emarginazione sociale o a determinati fenomeni. Cioè, il prodotto di quello che noi facciamo tutti i giorni, il prodotto giornalistico, è un prodotto che ha delle caratteristiche che contengono vari elementi. Una di queste caratteristiche è la velocità e la fretta con cui il prodotto viene confezionato, mentre l’altra caratteristica conseguenza, ma non solo, della fretta, è la superficialità.

A me sembra che queste caratteristiche, poi, producano un’insoddisfazione (da parte dei lettori, ma anche da parte di chi lavora all’interno dei mezzi di comunicazione), che non è limitata al mondo dell’informazione ma anche della dimensione sociale. Quindi mi sembra che il tema del mancato approfondimento sia difficilmente imputabile ai grandi mezzi d’informazione, che non sono fatti per approfondire. Molte volte c’è un’aspettativa forte, da parte dei lettori e dei consumatori dell’informazione, così com’è anche da parte degli attori dell’informazione, un’aspettativa di approfondimento, di maggior serietà e complessità, forse anche ingiustificata nel senso che attribuisce ai grandi mezzi d’informazione un compito che probabilmente non è il loro.

Le complessità vengono trattate con altri strumenti, più profondi e a loro volta complessi, quindi, per non perdersi in un discorso in gran parte fuorviante, bisogna tener presente, secondo me, che questi difetti hanno a che vedere con tutti i temi trattati dalla grande informazione. È ovvio che se noi lasciamo da parte il difetto, credo fondamentale, che è quello della superficialità, se andiamo a vedere lo spazio che i grandi mezzi d’informazione offrono in vari argomenti e vari settori, lì le differenze sono pesanti.

Certi temi, come quello dell’informazione sociale, penso alla cosiddetta emarginazione, al carcere, al lavoro, alla sanità, sui giornali hanno uno spazio limitato: su questo siamo tutti d’accordo. Bisognerebbe lasciar perdere il discorso sullo scarso approfondimento, che forse non si può pretendere dai mezzi d’informazione, ed esercitare tutta la propria capacità di persuasione e di connessione, da parte di chi si occupa professionalmente di quei settori, nei confronti dei grandi mezzi di comunicazione e dei suoi attori, per far sì che questi spazi si amplino, non tanto cercando un approfondimento che probabilmente i giornali non possono dare, ma facendo sì che lo spazio si allarghi e si allarghi in modo che chi manovra i grandi mezzi d’informazione, i direttori, possano ritenere appetibile un determinato prodotto giornalistico.

Questa può sembrare una cosa anche insultante, stare a pensare se un tema forte, importante, decisivo, come può essere il lavoro, la scuola, può essere appetibile, sembra un discorso un po’ pubblicitario, ma io credo che sia fondamentale, perché anche i professionisti dell’informazione sociale, sempre più mi sembra, (è giusto quello che diceva prima Magnaschi a proposito di "Vita"), hanno modificato il proprio linguaggio. È più svelto, più capace d’infilarsi nell’attenzione di tutti, rispetto a un’informazione specialistica come ce n’è tante.

La capacità di rendere appetibili questi temi passa, in gran parte, attraverso la conoscenza profonda di un determinato argomento, conoscenza che raramente è patrimonio di un giornalista, se non di giornalisti che hanno un campo di esercizio specifico nella loro professione. Un giornalista di un grande giornale, uno che fa informazione come fanno quasi tutti i giornali italiani, ha bisogno di qualcuno che lo metta in relazione con quel che succede in ambiti che lui, per limiti suoi, ma anche per limiti di tempo, non può seguire costantemente e non può conoscere costantemente.

Il linguaggio: ovviamente non bisogna essere forbiti, non è che bisogna adeguarsi per forza ad un linguaggio che a noi a volte sembra stupido. Il linguaggio dei grandi mezzi d’informazione a me personalmente non soddisfa per niente, e tanto meno soddisfa un sacco di lettori, quindi non bisogna essere forbiti se quel linguaggio non ci piace, però bisogna capire quali sono determinate caratteristiche, per far sì che si abbassi e si allarghi lo spazio all’interno di un giornale.

La conoscenza profonda che i professionisti del sociale hanno degli argomenti che seguono, deve essere, secondo me, come una banca dati intelligente. Le banche dati sono stupide per loro natura, cioè sono dei grandi agglomerati, spropositati agglomerati di notizie, all’interno dei quali è poi difficile discernere quali sono quelle valide. Serve molto, invece, una banca dati intelligente, che mi fornisce una quantità d’informazioni con un linguaggio che le rende utilizzabili.

Per quanto riguarda le caratteristiche dei grandi giornali, diceva Sergio prima che è un po’ umiliante vedere che nel momento in cui che c’è la partita di calcio dei campionati mondiali, i grandi giornali danno 12 o 20 pagine sul calcio e, magari, una questione importante come il Medio Oriente, non conta più. Però bisogna anche capire come sono i giornali italiani. I giornali italiani sono, per loro natura, nella stragrande maggioranza dei casi, dei giornali generalisti, che vogliono tenere tutto assieme, che vogliono andare a prendere sia i milioni di persone che guardano la partita dell’Italia, come pure i lettori più sofisticati e "meno pesanti" dal punto di vista dei conti del giornale.

Questo fa sì che spesso i giornali diventino un calderone con identità piuttosto indefinite, però questa è la realtà, la storia. Per i giornali italiani è un po’ difficile buttare all’aria tutto questo, se non con qualche rara eccezione. Bisognerebbe fare un giornale completamente diverso, ma questo lo possono fare soltanto i piccoli giornali. L’informazione dei piccoli numeri si può fare, ma sempre in funzione dei piccoli numeri, perché non è un’informazione numericamente soddisfacente.

Se poi vogliamo dire che i giornali italiani sbagliano ad avere questo tipo di struttura generalista, quindi andare a pescare tutto, possiamo anche dirlo, perché probabilmente è una cosa vera. Le prime 20 pagine di un giornale per notizie sportive sono una cosa che forse non va bene, però è più facile fare così, si rischia di meno e, siccome rischiare non è un’abitudine frequente nei grandi mezzi di comunicazione, è più facile fare in questo modo. Io al momento mi fermerei qui.

 

Sergio Segio

 

Prima di passare la parola a Bianconi, del "Corriere della sera", volevo, anche per tenere vivo il mio spirito provocatorio, provare a dire una cosa, nel senso che io ho l’impressione che, a volte, come nei casi di polemiche e fraintendimenti, i politici danno sempre la colpa ai giornalisti. A volte mi sembra che i giornalisti abbiano un po’ un meccanismo di difesa autoriflesso nel dare la colpa ai lettori, all’opinione pubblica, a questo fantasma. Anche questo però è un punto di riflessione, ad esempio nel convegno berlinese che vi citavo prima, un direttore di un quotidiano francese individuava, autocriticamente, come errore il fatto che i giornali, specie i quotidiani, spesso inseguono, piuttosto che informare, l’opinione pubblica.

 

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