Susanna Ronconi

 

Le droghe domani, tra controriforme e volontà punitive

 

Milano, 27 giugno 2003

 

 

Susanna Ronconi (Coordinamento della rete "La libertà è terapeutica")

 

Voglio ringraziare la CGIL che ha anche rivisto i suoi programmi per la giornata di oggi dandoci spazio per questo dibattito, che è urgente e non rinviabile, come abbiamo visto tutti, il governo sta tenendo un ritmo molto serrato e, anche se ieri non è stato presentato questo disegno di legge, per le ormai usuali discussioni all’interno della maggioranza, però è una strada già segnata, e quindi speriamo almeno non venga presentato e discusso in agosto, perché questo ci spiazzerebbe, speriamo di arrivare all’inizio dell’autunno e riprendere, un po’ seriamente, anche la nostra iniziativa. Ad ogni modo la strada dal punto di vista del governo è già segnata. L’obiettivo di questa giornata è ragionare insieme sul testo dell’appello nazionale che è stato proposto e quindi confrontarci in maniera concreta e politica su questo testo, e magari uscire da qui anche con qualche idea possibile per il proseguo di questa iniziativa.

Si chiedeva prima Giuseppe Bortone, riguardo alla rete "La libertà è terapeutica", dov’è finita questa rete? In realtà questa rete è carsica, come tutte le reti informali, ha avuto dei momento molto forti e molto affollati, perché la prima volta che noi abbiamo lanciato, come operatori nel sociale, questo appello era la fine del 2001. Io direi che la rete ha stabilizzato un tam tam, oggi la rete discute su internet ove abbiamo una lista di discussione, e in realtà anche questo appello, che stiamo discutendo oggi, è esito di una comunicazione che abbiamo all’interno di questa rete continua. Dico due cose lapidarie su questa rete. Credo che la cosa interessante sia questa: è una rete, in cui ci sono soprattutto operatori del settore delle tossicodipendenze, è una rete in cui ci sono operatori del pubblico e del privato, dove appartenere al pubblico o al privato non fa la differenza e non è assolutamente una discriminante, è una rete che ospita anche alcuni consumatori, alcuni rappresentanti dei consumatori, e questo, secondo me, è un dato caratterizzante, lo sottolineo perché nel nostro paese è ancora difficilissimo includere i consumatori di sostanze tra gli attori sociali che possono permettersi di prendere la parola sulle politiche sulle droghe. Molti di noi stanno lavorando alacremente in questa direzione, ma è ancora una cosa difficile. E’ importante che sia una rete soprattutto di operatori, nata da un senso forte di responsabilità pubblica rispetto al proprio lavoro, qualcuno qualche volta ci dice: "Non facciamo delle ideologie sulle professioni, non portiamo troppa politica dentro le professioni". Chi di noi ha messo in piedi questa rete non è d’accordo, il nostro problema non è di fare delle ideologie dentro le professioni, ma è quello di interpretare il mandato delle nostre professioni anche come un mandato di promozione di cittadinanza.

Io credo che non sia possibile fare lavoro sociale e tanto meno lavoro sulle tossicodipendenze separando un mandato di salute, di benessere, di qualità della vita sociale, da un mandato di cittadinanza. Allora credo che quando tanti operatori si ritrovano e fanno un ragionamento politico, sulle politiche sociali, non fanno solo i cittadini e poi si cambiano il vestito e fanno gli operatori, fanno gli operatori come dovrebbero fare gli operatori sociali, quindi con un senso di responsabilità pubblica molto forte. Ci tengo a sottolineare questa cosa, perché penso che noi come operatori del settore abbiamo in questo momento un necessario protagonismo da esprimere, ognuno con la sua responsabilità da questo punto di vista. Io voglio dire questo in maniera abbastanza lapidaria e sintetica: mi sono chiesta in realtà, siccome nella biografia di molti di noi questa è la seconda volta, perché la prima volta è stata nel ’90 con la discussione sulla Legge Jervolino-Vassalli, poi con la promozione del referendum, che siamo riusciti a vincere, io non me la dimentico questa cosa, perché quando siamo andati, come cartello "Educare non punire" con una serie di alleanze, allora c’erano i Radicali, c’erano alcune alleanze politiche, altri tipi di associazionismo; non abbiamo dormito la notte perché non eravamo assolutamente sicuri che lo strumento referendario ci desse un esito positivo, però abbiamo vinto quella volta, e questa è una cosa che terrei presente per tenere un po’ a bada quel pessimismo da cui possiamo essere attraversati in questo momento. Mi sono chiesta che differenze ci sono da quella battaglia, che apparentemente può sembrare simile, perché i contenuti della Jervolino-Vassalli non erano dissimili da alcuni contenuti di cui stiamo discutendo oggi.

Cos’è successo in questi 10? Molto semplicemente vorrei dire che sono successe alcune cose molto negative, che ci mettono in una situazione di grave difficoltà, e alcune cose molto positive. Le cose negative le dico solo per titoli, sono un cambiamento drastico culturale e pratico in quello che è il governo di alcuni gruppi sociali. Stamattina si è ragionato sullo stesso titolo del nostro documento "Dal penale al sociale", significa che in questi ultimi dieci anni noi siamo stati portati molto dal sociale al penale, allora il tipo di governo di controllo di alcuni gruppi sociali ha utilizzato in questi dieci anni sempre di più strumenti penali, di contenimento, di controllo a carico, mi verrebbe da dire, rispetto a quelli che sono altri strumenti più sottili di controllo sociale che abbiamo conosciuto in questo decennio. Però la cosa interessante è che questi aspetti arcaici convivono in buona armonia con gli aspetti più post-moderni, non sono in contraddizione, ma convivono. Questo concetto, che ci siamo detti più volte fra di noi,del nemico perfetto, cioè del gruppo sociale da contenere e guardare a vista, in questi dieci anni è andato molto avanti questo tipo di cultura e credo si siano allenati molto con gli immigrati, e poi abbastanza bene anche con i tossicodipendenti. Rispetto a dieci anni fa da questo punto di vista la situazione è molto più difficile, e anche dal punto di vista del processo di smantellamento del Welfare. Su questo non mi dilungo, credo che sia un patrimonio comune qui dentro.

Forse questa situazione è ancor più difficile di dieci anni fa anche dal punto di vista generale, ampio e vasto della globalizzazione, e penso che lo scenario della globalizzazione dei rapporti internazionali, dei rapporti nord e sud etc., tocchi la questione delle droghe in maniera significativa. Il dominio delle politiche dell’ONU sotto l’egida della guerra alla droga degli Stati Uniti è un dominio molto forte e credo si avvalga dello scenario mondiale più complessivo.

Detto questo non credo si debba morire dentro il pessimismo di questo scenario, come diceva Maisto oggi. Troviamo allora anche degli elementi positivi, io trovo un elemento positivo molto forte, in questo ultimo decennio, che noi abbiamo fatto molta esperienza, alludo soprattutto a tutte le pratiche di riduzione del danno e non solo quelle, perché in questo decennio si sono moltiplicate e innovate con forza tutte le pratiche, anche quelle dei trattamenti terapeutici, quelle della prevenzione primaria, abbiamo prodotto una cultura diversa e oggi possiamo fare delle affermazioni che dieic anni fa non potevamo fare. Io credo cioè che noi siamo complessivamente oggi in grado di fare una proposta sostanzialmente davvero alternativa per quanto riguarda il governo del fenomeno del consumo e dell’abuso di droghe.

Lo dico con una battuta, e spero di non essere fraintesa, che in realtà noi potenzialmente siamo molto più bravi di loro a governare un fenomeno così variegato, perché abbiamo imparato il vocabolario della "normalizzazione". Preciso subito questo termine, perché questa parola non piace a molti, nel senso che qualcuno vede nella parola normalizzazione qualcuno vede qualcosa di statico, qualcosa che si ferma al dato di fatto. Non fermiamoci però alle parole e proviamo a condividere i significati. Io penso che come nel ’90 lo slogan è stato "Educare e non punire", oggi, dato il decennio di esperienza, di pratiche e di innovazioni, il nostro slogan potrebbe essere "Normalizzare e non punire".

Cosa intendo per normalizzare? intendo il fatto che le nostre pratiche in questo ultimo decennio hanno mirato a portare il fenomeno droghe e anche abuso di droghe e quindi gli aspetti problematici di questo fenomeno nell’alveo dell’esperienza umana e sociale che appartiene a una società complessa, cioè per noi normalizzare vuol dire riportare questo fenomeno dentro strumenti di controllo leggero, di governo e di autogoverno che appartengono normalmente alla società. Vuol dire far fare un passo indietro alle specialità, vuol dire non usare più i vocabolari della devianza, della criminalizzazione, ma usare con accortezza anche i vocabolari della chimica, della medicina, della patologizzazione. Questo è anche un altro aspetto importante, noi abbiamo imparato soprattutto rispetto ai consumi giovanili, che sono poi quelli che questa legge andrà a toccare penalmente, abbiamo imparato ad usare un altro linguaggio. Quando diciamo: "Guardate, sono i consumi della normalità, sono consumi ludici, sono consumi sporadici, che durano solo un piccolo periodo nella vita di un adolescente", noi diciamo questo, facciamo un passo indietro, non abbiamo bisogno di patologizzare per trattare, non abbiamo bisogno di criminalizzare per trattare questo fenomeno. Secondo me questo è il valore grandissimo di questo decennio, e noi dobbiamo imparare a spenderlo come si deve, e non siamo abbastanza bravi su questo, siamo timidi. Dico queste cose anche perché così possiamo davvero ragionare insieme sul taglio da dare alla battaglia che si apre oggi, ma andrà avanti, perché se è vero che il documento giustamente l’abbiamo tenuto su un livello di mediazione accettabile per molti, è anche vero che su alcune cose ci dobbiamo capire. Io lo dico qui un po’ provocatoriamente, mi sono sempre chiesta per esempio se le forze di sinistra, che su una serie di proposte di lavoro sulla tossicodipendenza sono sempre stati più che prudenti, mi sono sempre chiesta se le forze di sinistra che sono state a lungo nostri interlocutori, condividono o meno lo slogan dell’ONU.

Vorrei sapere se l’orizzonte è quello di un mondo senza droghe, però è un obbiettivo che vogliamo raggiungere senza reprimere; oppure mi piacerebbe sapere se si ritiene che questo slogan dell’ONU è insensato e invece il nostro orizzonte è quello della convivenza con l’uso delle droghe, che fa parte di tutte le società umane, e della normalizzazione delle modalità per trattare queste droghe. Questo è l’elemento forte che dobbiamo porre all’ordine del giorno. Molto spesso poi siamo troppo prudenti; sotto l’invito ad essere pragmatici parliamo troppo di prevenzione terziaria, invece di riduzione del danno, per esempio, cioè togliamo carica e paradigma alle cose che facciamo. Però attenzione, io credo che questa non sia una buona mediazione, perché in questo contesto o noi andiamo a fare una proposta forte, un altro paradigma, cioè c’è un altro modo di governare questi fenomeni, oppure noi siamo abbastanza destinati all’insignificanza, non riusciamo a produrre un reale movimento d’innovazione.

Questa tematica, questa proposta di slogan che è venuta fuori "Normalizzare non punire" so che non può essere uno slogan, perché normalizzare è una parola orrenda, che non può stare, e nessun pubblicitario la userebbe mai. Troviamone un’altra, ma il concetto è: sottraiamo la questione consumi di droghe e abuso di droghe a una serie di vocabolari specialistici e restituiamoli alla società e a una serie di meccanismi leggeri, di autoregolazione, di controllo leggero laddove è necessario e la società è in grado di produrre.

Solo ancora un paio di cose lapidarie: mi sono chiesta perché la proposta di legge sulla psichiatria, che pure è stata presentata da Forza Italia molto tempo fa, giace e nessuno se la fila perché non piace nemmeno alla maggioranza. Perché quella legge sta lì nel senso comune e non passerà e perché invece questa legge sulle droghe, temo invece che sia destinata a passare abbastanza velocemente? Cosa fa la differenza, perché in realtà tutte e due propongono un paradigma simile rispetto alle diversità, pongono al centro la pericolosità del soggetto, negano una serie di diritti, parlano di trattamento obbligatorio e non sono due leggi molto diverse dal punto di vista dello spirito di fondo. Io credo che possiamo rispondere che sulla psichiatria un movimento, e anche i tecnici che vi hanno lavorato, hanno prodotto un senso comune. Ci sono psichiatri con la tessera AN in tasca che dicono: "Questa legge non si tocca perché ormai alcune cose sono assodate". Allora ci tengo a dire questo: nella battaglia che noi stiamo preparando, credo, dobbiamo avere una grande attenzione a far cultura e a promuovere un nuovo senso comune sulle droghe, per questo è importante che lavoriamo sì sulle concretezze, ma anche sulla proposta più ampia e culturale di un paradigma diverso.

 

 

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