Intervista ad Anna Maria Pensa

 

Giornata di studi "Carcere: salviamo gli affetti"

L’affettività e le relazioni famigliari nella vita delle persone detenute

(La giornata di studi si è tenuta il 10 maggio 2002 nella Casa di Reclusione di Padova)

Intervista ad Anna Maria Pensa

Responsabile del "Progetto carcere" di Telefono Azzurro

 

Anna Maria Pensa è una pedagogista, responsabile nazionale per il Comitato per il Telefono Azzurro, progetto "Bambini e Carcere". Con lei abbiamo parlato di spazi, di quelli tristi in cui avvengono di solito i colloqui, di quelli vivaci e che sanno poco di carcere, che Telefono Azzurro gestisce in alcuni istituti di pena.

 

Da dove è nata l’idea che Telefono Azzurro cominciasse a occuparsi anche dei figli dei detenuti?

Allora, la nostra attività è iniziata in risposta al disagio che è pervenuto alle nostre linee telefoniche da parte di tanti bambini, che comunque chiamano ogni giorno Telefono Azzurro, ed è emersa così la necessità di avvicinarci anche a questa realtà che ha a che fare con il carcere..

 

In base all’esperienza fatta in carcere, quali proposte pensate di dover segnalare agli organi competenti per migliorare lo stato delle cose, proposte che siano concrete e realizzabili in una realtà così complessa?

Noi intanto siamo presenti con questo progetto, e abbiamo capito che è un’opportunità molto grande quella di essere dentro al carcere, con uno spazio speciale mirato ai colloqui, quando necessariamente i colloqui devono avvenire all’interno. Certo che noi riusciamo a sviluppare il nostro progetto dove abbiamo dei comitati di volontari che possono poi operare, perché si tratta di un progetto che non riguarda soltanto l’allestimento dello spazio, ma anche della presenza dei volontari che possano accogliere i bambini e giocare con loro.

 

Ecco, a proposito di volontari, come avviene la formazione di coloro che si occupano dell’intrattenimento dei bambini, sia quelli che vivono ristretti con le madri che quelli che negli istituti entrano in occasione dei colloqui? Vi avvalete anche di figure professionali?

Io sono la responsabile nazionale di questo progetto e sono la pedagogista che si occupa anche della formazione dei volontari, e poi ogni due mesi i volontari che operano in carcere hanno anche un incontro di supervisione per verificare un po’ lo stato delle cose, e anche per migliorare il loro impatto.

 

Si, perché poi la teoria, a volte, è molto diversa dalla pratica, ci si trova a fare i conti con difficoltà ben lontane da quelli che sono i criteri ed i canoni della formazione.

 

Esattamente, infatti di volta in volta parliamo degli imprevisti e cerchiamo di essere sempre più "giusti" per quelle che sono le richieste autentiche dei bambini e dei loro genitori.

 

La vostra è quindi una attività di animazione e sostegno ai bambini quando arrivano per le visite ad uno dei genitori, affinché il trauma sia il meno dannoso possibile.

 

Si, il nostro progetto infatti prevede la possibilità che i bambini attendano giocando il momento del colloquio, laddove non è proprio possibile fare il colloquio all’interno della ludoteca, per poi andare a colloquio con il genitore detenuto e tornare alla fine anche in ludoteca per poter continuare un po’ a giocare. Aiuta anche a staccarsi dal genitore, che rimane inevitabilmente dentro, in maniera meno traumatica.

 

Nel carcere di Monza avete avviato un progetto pilota che pensate di estendere ad altri istituti, oppure la situazione è stagnante?

No, anzi, il progetto si sta notevolmente estendendo, tant’è vero che dal ‘98 siamo a Monza con il progetto pilota, ma poi a Monza è seguito Torino, Bologna, siamo anche a S. Vittore ma soltanto nell’area del nido, mentre invece siamo a Prato, Firenze, Roma, e prossimamente saremo qui a Padova e anche a Napoli. Ah, dimenticavo che Bologna ha un’altra realtà nata negli ultimi mesi, con una ludoteca organizzatissima, anche all’interno del femminile.

 

Come vi impegnate per organizzare e favorire la comunicazione tra operatori, detenuti e familiari, così da agevolare sempre più i rapporti dei detenuti con i figli, che in fin dei conti, in molti casi, sono le prime vittime della detenzione dei genitori?

Noi, quando entriamo in ludoteca, non entriamo se non con la collaborazione di tutti quelli che sono gli operatori del carcere, quindi c’è un coinvolgimento generale; non lavoriamo in maniera autonoma, ma lavoriamo e cerchiamo, lì dove è possibile, di avere un tavolo dove ci sia la presenza del direttore o chi per lui, dell’équipe del trattamento, degli agenti ma anche dei detenuti, perché noi, quello che tentiamo di fare, è di favorire una relazione affettiva da parte dei detenuti dentro lo spazio della ludoteca, e là dove questa relazione si instaura, sono i detenuti che tengono tantissimo a questo spazio.

 

Incontrate parecchi ostacoli nella messa in opera dei vostri progetti, oppure il delicato argomento dei bambini riesce a spalancare più facilmente le porte della burocrazia?

Diciamo che la difficoltà maggiore è quella di individuare uno spazio all’interno del carcere che possa essere data in uso a questo servizio, perché poi alla fase organizzativa provvediamo noi. Purtroppo gli spazi per la socializzazione sono sempre pochi, e quindi darne uno a questo progetto diventa difficile, bisogna magari toglierlo a qualcun altro o a qualche attività. Però, a volte, ecco, com’è accaduto a Monza, gli avvocati e i magistrati hanno rinunciato alla loro sala, hanno ceduto il loro spazio.

 

Ci sono detenuti che non vedono i figli da anni, non per mancanza di volontà di una delle parti in causa, ma magari per l’impossibilità economica o per altri problemi di natura strettamente organizzativa, come il fatto che i familiari abitano lontano: ci sono interventi ed iniziative che vi impegnano in tal senso?

Noi abbiamo notato che, per quanto riguarda l’assenza dei figli ai colloqui, non è la lontananza la causa principale, la causa principale è il non voler vedere i figli all’interno di spazi non adeguati, anche perché molti bambini vengono non sapendo che il papà è in carcere, il papà spesso preferisce non dirlo, quando ha un bambino molto piccolo e sa che può uscire prima che il bambino lo venga a sapere. Invece abbiamo visto, che avendo a disposizione questo tipo di spazi, è aumentata tantissimo la presenza di bambini, che tornano a rivedere il papà o la mamma dopo molto tempo.

 

L’impegno, anche economico, che avete per realizzare questi progetti sarà senz’altro notevole. Con quali forme di finanziamento vi sostenete? Enti pubblici o privati?

L’impegno è forte, ma riusciamo sempre a far fronte a tutti i problemi grazie alla solidarietà di alcuni partner, che ci aiutano a creare poi i nostri spazi all’interno del carcere, che sono estremamente costosi. Comunque sono più i privati che sostengono tutta l’attività di Telefono Azzurro, soprattutto, ovviamente, chi ha a cuore i bambini.

 

Intervista a cura di Marino Occhipinti

 

 

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