Intervista ad Alessandro Margara

 

Giornata di studi "Carcere: salviamo gli affetti"

L’affettività e le relazioni famigliari nella vita delle persone detenute

(La giornata di studi si è tenuta il 10 maggio 2002 nella Casa di Reclusione di Padova)

 Intervista ad Alessandro Margara
presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze

I colloqui, i banconi coi divisori che sopravvivono, gli incontri con i familiari che ancora non permettono nessuna intimità. Ne abbiamo parlato con Alessandro Margara, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze.

Nel 1998, da direttore del DAP, lei collaborò alla preparazione del nuovo Regolamento Penitenziario. Nella prima stesura erano previste importanti innovazioni anche per quel che riguarda il rapporto dei detenuti con le famiglie, novità quasi scomparse nel testo definitivo. È rimasto soltanto l’ordine di togliere i banconi dalle sale – colloqui e, oltre tutto, in diverse carceri le separazioni ci sono ancora. Com’è possibile che ogni istituto applichi il Regolamento alla propria maniera?
Il fatto è che mezzi divisori sono ancora previsti, quando esistano ragioni sanitarie o di sicurezza: ne parla il quinto comma dell’articolo 37. Tutte queste "prudenze" in tema di sicurezza nascevano in un sistema nel quale dovevamo tener conto che questo Regolamento riguardava anche l’Alta Sorveglianza, quindi lo stabilire che tutti i colloqui dovessero essere fatti senza mezzi divisori rendeva poi difficile passare lo stesso tipo di regime a tutte le situazioni di Alta Sorveglianza.

Questo non vuol dire che in tutte le sezioni di Alta Sorveglianza i colloqui si svolgano con i divisori, ma solo quando vi siano ragioni di perplessità sull’uso che la persona potrebbe fare di certe agevolazioni. Tra l’altro ci fu un periodo in cui successero degli episodi, nel 41 bis, come l’uso di un telefonino e, in Alta Sorveglianza, ci fu il caso del detenuto che aveva suggerito alla moglie il modo per farlo evadere. Effettivamente, l’escludere totalmente che per ragioni di sicurezza ci dovesse essere di nuovo un mezzo di separazione era veramente un po’ difficile.

Ma nell’articolo 37 si dice pure che, nelle sale colloqui, i mezzi divisori devono essere utilizzati soltanto in casi eccezionali. Invece sembra che in diversi istituti questa sia la norma e non l’eccezione… mi hanno appena raccontato che a Rebibbia hanno sostituito il bancone con dei tavolacci di uguale larghezza, che non possono essere superati…

In molte sale colloqui, in effetti, hanno rimosso solo il vetro che c’era sopra il bancone ma la separazione di fatto rimane. La regola vorrebbe che i banconi fossero levati, non si può tenere il parlatorio com’era prima giustificandosi con il fatto che il Regolamento preveda questa eccezione. Va attrezzato per dei colloqui che si devono svolgere con modalità diverse. Per quando c’è davvero bisogno dell’eccezione si stabilirà qualcosa: ora, se questo "qualcosa" debba essere un tavolaccio, o qualcosa d’altro, rientra nella flessibilità e nella sensibilità che hanno gli operatori.

Secondo lei com’è possibile conciliare l’esigenza di avere dei colloqui più "umani" con quella di garantire il rispetto delle regole del carcere?
Che i colloqui possano essere transiti di cose che non dovrebbero entrare, è abbastanza chiaro e realistico; che siano un alibi perché entrino, per altre vie, le stesse cose, è pure chiaro e risaputo. Certamente si potrebbe ribadire quello che già mi sembra chiaro, almeno da un punto di vista logico: che in riferimento alla sanità (il che è pacifico) e alla sicurezza (che è già meno pacifico) debba essere richiamata l’eccezionalità di questi interventi.

Poi, un’amministrazione che voglia evitare problemi è bene chiarisca anche quelle che sono le modalità eccezionali del colloquio, cioè che dica chiaramente "se" e "quando" debba esserci una separazione netta, che impedisca il compiersi di quello che è sospettato… perché se si procede in modo eccezionale vuol dire che ci sono dei sospetti verso quel determinato soggetto. E, allora, l’amministrazione deve essere chiara su questo, facendo una circolare, sennò tutto è rimesso all’iniziativa del singolo e… tanti saluti.

Quello che crea maggiore disagio ai detenuti non è la sorveglianza sul possibile passaggio di oggetti proibiti, quanto piuttosto gli impedimenti allo scambio dei più naturali gesti di affetto. Poco ci manca che venga proibito l’abbraccio con i famigliari…

In certe situazioni, effettivamente, si arriva a fare delle valutazioni del gesto affettivo, se superi o meno certi limiti d’opportunità, o di decenza. Anche questa è una valutazione che, rimessa a un singolo che guarda e che ha, in quel momento, il compito di controllare, può tradursi in tutti i risultati immaginabili. Mettere una mano sulla spalla, fare una carezza, dare un bacio, per qualcuno può essere un normale gesto affettivo e, per qualcun altro. diventa chissà che cosa…

Per evitare queste diverse interpretazioni andrebbe detto chiaramente che certe cose non sono irregolari, ad esempio che toccarsi è permesso, ma poi sarebbe anche da definire in quali zone ci si può toccare e in quali non si può (risata… molto divertita).

Con l’iniziativa di questa Giornata di Studi sul tema "Carcere: Salviamo gli affetti" vogliamo rilanciare il dibattito sul tema dell’affettività per le persone detenute. Secondo lei riusciremo a ottenere il riconoscimento di questo diritto?
Io sono ancora dell’idea che questo si poteva fare, a suo tempo, con il nuovo Regolamento di Esecuzione. Probabilmente quel progetto è stato scartato per una scelta politica, perché se fosse stata una scelta giuridica inoppugnabile l’avrebbe sollevata l’Ufficio legislativo del Ministero di Grazia e Giustizia. Invece l’ha sollevata il Consiglio di Stato, con una valutazione un po’ politica e un po’ giuridica… insomma, non avevano il coraggio di adottare quella soluzione in concreto e subito.

Perché è vero che ci sono dei grossi problemi per rendere possibili gli incontri affettivi, che mancano le strutture, la preparazione culturale del personale, etc., ma queste sono cose sempre fattibili, una volta che c’è una norma a cui doversi adeguare. Insisto a pensare che il riconoscimento del diritto all’affettività per i detenuti dovrebbe risultare abbastanza semplice da un punto di vista culturale e, quindi, anche sotto il profilo politico.

Ne sono convinto perché quando si studiò questa possibilità si vide che era già prevista da anni in regimi culturalmente anche molto lontani da noi: dall’Irak, all’Armenia, all’Albania e, in Europa Occidentale, dall’Olanda alla Spagna. Possibile che noi si debba sempre essere in ritardo? sempre nella situazione di dover recuperare un distacco in termini di civiltà?

Il filone giusto, però, è sempre quello di riuscire a pensare che un carcere in cui si riconoscono spazi di vivibilità più ampi sia migliore, più gestibile, rispetto a quello in cui s’impone l’autorità e il controllo asfissiante.

Qui subentra un altro problema, perché se l’esercizio dell’affettività diventa una misura premiale, anziché essere un diritto riconosciuto a tutti, creiamo un ulteriore strumento di controllo e un elemento di discriminazione in più…

Il progetto del nuovo Regolamento, così com’era impostato, superava questa obiezione, almeno dal punto di vista logico, se non da un punto di vista reale. Nel primo progetto di riforma era prevista la cosiddetta progressione nel trattamento, quindi la possibilità di avere degli incontri affettivi dipendeva da come si sviluppava il trattamento, questa cosa che in qualche modo la struttura deve all’interessato, al detenuto, che poi è il destinatario di tutta l’attività della struttura.

Una selezione in base alla correttezza del comportamento non era prevista anche se poi, nei fatti, è probabile che ci sarebbe stata ugualmente.

Bisogna anche dire che sarebbe stato molto più difficile presentare un diritto all’affettività che fosse al di fuori del trattamento, mentre mettendolo all’interno di un "intervento scientifico" sulla persona si presenta meglio, è più ascoltabile anche per chi non conosce bene il carcere come lo conosciamo noi.

In questa ipotesi che cosa succederebbe ai detenuti giudicabili, per i quali non è previsto alcun "trattamento"? Quasi la metà dei detenuti presenti nelle carceri italiane è rappresentata da persone in attesa di giudizio… e non sarebbero contente se fossero escluse dal riconoscimento del diritto all’affettività!

Per i giudicabili si prevedeva, come accade per l’accesso al lavoro e ad altre cose, che vi fosse l’autorizzazione del magistrato e (richiamandosi all’articolo 15 dell’Ordinamento Penitenziario) che poi potessero avere un trattamento facendone loro stessi la richiesta. Quindi non ci sarebbe stata nessuna esclusione automatica dall’affettività, soltanto una prassi diversa per accedervi.

Riconoscere ai detenuti il diritto all’affettività rappresenta, in ogni caso, un passaggio culturale molto difficile. Che cosa si potrebbe fare per renderlo meno "indigesto" all’opinione pubblica e, di riflesso, al mondo politico?
Si potrebbe partire con una sperimentazione e prevedere una relazione annuale al Parlamento sull’attuazione della legge, in modo da capire se ci sono dei problemi e studiare le possibili messe a punto.

Poi bisogna impostare bene le caratteristiche dello strumento perché, ad esempio, se prevediamo degli incontri di tre ore probabilmente la scelta è quella della sessualità, non è quella dell’affettività. Che via scegliamo, allora? Quella dei colloqui intimi, oppure quella dell’affettività? La seconda si presenta meglio, anche considerando l’ambiente con cui abbiamo a che fare. Seguendo questa strada è possibile affrontare anche la discussione se l’affettività debba essere un diritto, oppure una possibile parte del trattamento. Nel progetto del nuovo Regolamento Penitenziario, fatto a suo tempo, il permesso era di 24 ore, prevedeva un’intera giornata trascorsa in queste unità abitative, dentro il carcere e accessibili anche ai familiari.

Un altro aspetto importante è di riuscire a prevenire i contrasti dentro il carcere, perché sappiamo che il discorso dell’affettività non è molto ben visto dagli agenti, ai quali dà fastidio di dover fare comunque un controllo su queste situazioni. Ricordo che qualcuno disse: "Dobbiamo anche entrare a cambiare le lenzuola!?".

Allora facemmo l’ipotesi che queste unità abitative fossero gestite dal volontariato. Il personale di polizia penitenziaria non entrava; poteva entrare solo se veniva chiamato… Però anche dal volontariato arrivarono delle forti obiezioni, sicché si fece un po’ di riflessione e, alla fine, decidemmo di togliere tutte queste specificazioni, semplificando al massimo la normativa. In questi casi bisogna lasciare che i problemi emergano, quindi intervenire per cercare di risolverli. Sennò stiamo sempre a misurare le cose con il bilancino e non si fa un passo avanti.

Intervista a cura di Francesco Morelli

 

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