Fra Beppe Prioli

 

Giornata di studi "Carcere: salviamo gli affetti"

L’affettività e le relazioni famigliari nella vita delle persone detenute

(La giornata di studi si è tenuta il 10 maggio 2002 nella Casa di Reclusione di Padova)

Fra Beppe Prioli (Coordinatore volontariato penitenziario del Veneto)

 

Sono Fra Beppe, coordinatore del Volontariato delle carceri del Veneto. Io credo nella presenza del volontariato, grazie a voi, però devo fare una lamentela: aldilà della presenza di qualche suora, di me che sono frate, la Chiesa è assente.

Io speravo proprio di vedere in questo momento, su un problema così importante, salvare gli affetti e la famiglia, la presenza di chi è responsabile della Chiesa di Padova. Almeno qualcuno.

Aldilà del Cappellano non ho visto nessuno. Per salvare gli affetti bisogna fare meno carcere: cosa bisogna fare allora? Noi, della Fraternità di Verona, abbiamo fatto un appello a tutte le Cooperative di Verona e provincia per un posto di lavoro.

Io come frate, noi religiosi, facciamo un grosso peccato: come in chiesa, dove abbiamo degli spazi vuoti, abbiamo paura di accogliere uno straniero, dare una stanza, dare un domicilio e pagare un posto di lavoro. Io parlo di Verona: se domani mattina Verona si svegliasse e ogni convento facesse l’accoglienza di una singola persona, chiunque sia, senza fissa dimora, straniera, tossicodipendente, quella che è prossima ad avere la semilibertà ma non ha un domicilio, o che è in affidamento. Verona è ricca di queste strutture e sono chiuse. Ecco, io faccio questa lamentela, mi sento in colpa come Chiesa perché la rappresento anch’io. Voi ci date un esempio, oggi la Chiesa, qui, mi ha dato questo esempio.

Riguardo al seminario che facciamo quest’anno, il ventiquattresimo, "Unica città", se guardate ci sono le famiglie, ci sono i detenuti e ci sono i volontari. Il prossimo anno, le lo annuncio già, saranno venticinque anni che noi ci incontriamo. Il prossimo anno noi volontari stiamo seduti e ascoltiamo i detenuti. Poi, un grazie alla Polizia Penitenziaria, perché quest’anno nel seminario che faccio a luglio ho chiesto al Provveditorato di avere un agente per ogni carcere del Triveneto, perché è giusto anche questo confronto. Ecco, il prossimo anno, il venticinquesimo seminario sarà fatto dai detenuti e noi volontari ascolteremo finalmente loro. Grazie.

 

Intervento dal pubblico

 

Riallacciandomi all’intervento fatto stamattina da una suora, mi chiedo se sia giusto portare all’interno delle strutture carcerarie, per i colloqui, i bambini da zero a tre anni. Però preciso una cosa: dal momento in cui si nasce la vita è gioia, ma si deve imparare anche ad affrontare le difficoltà, se no non si cresce.

 

Ornella Favero (Coordinatrice di Ristretti Orizzonti)

 

Credo che qui possa rispondere uno psicologo. Io so solo che abbiamo parlato molto di questi temi, soprattutto con le donne detenute, e ho sentito anche l’esperienza francese al riguardo.

I francesi, molto spesso, sostengono che bisogna dire ai figli, anche piccoli, che il padre è in carcere, perché il bambino subisce molto di più il trauma quando scopre che gli hanno detto una bugia, tipo che il padre è via per lavoro: il bambino non si spiega il motivo per cui questo lavoro gli impedisce di vedere il proprio padre.

Se invece il bambino capisce che è veramente qualcosa che di insormontabile, a separarlo dal padre, in un certo senso vive meglio il trauma. Me lo sono chiesto, quale sia il modo giusto. Ne abbiamo parlato molto con le donne alla Giudecca. Una cosa, che è venuta fuori, è la difficoltà di dirlo ai figli. Da noi manca totalmente una rete di sostegno: perché una madre deve essere lei a dire al figlio: "Tuo padre è in carcere"? Non può essere aiutata ad affrontare questo problema?

Ma c’è anche un altro problema, quello di trovarsi soli a chiedersi: "Devo dirlo, o non devo dirlo, a mio figlio? Come glielo devo dire? E se poi non glielo dico e lo viene a sapere dai compagni di asilo, o di scuola quando diventa un po’ più grande?"

Io conosco l’esperienza di una detenuta madre della Giudecca che non ha detto niente a sua figlia; per due anni non l’ha vista, ora con la legge sulle detenute madri è tornata a casa, ma è terrorizzata perché la bambina vede i Carabinieri arrivare, sente i bambini a scuola e, quindi, sta cercando in tutti i modi di dirglielo ma da sola non ce la fa. Ha bisogno di essere aiutata. Anche per questo servirebbe la Rete per le famiglie di cui parlavamo.

 

 

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