"Prevenire è meglio che imprigionare"

 

Rassegna stampa sulla Giornata Nazionale di Studi

"Prevenire è meglio che imprigionare"

 

Programma Giornata: "Prevenire è meglio che imprigionare" (pdf)

Presentazione Giornata: "Prevenire è meglio che imprigionare"

Abbiamo ragionato insieme su come prevenire davvero i reati

Prevenire è meglio che imprigionare: convegno al "Due Palazzi"

Le vittime dei reati: quando la cattiva informazione ci "ferisce"

I detenuti: abbiamo fatto dei reati ma siamo persone "normali"

Il sociologo: 90% dei detenuti indultati, non ha più fatto reati

Padova: il giorno del convegno, anche la protesta degli agenti

"L’indulto funziona": è un dato emerso nel convegno di Padova

L’indulto infine ha funzionato, adesso lo dicono anche i numeri

Indulto: su 10 detenuti usciti con indulto nove senza più reati

L’indulto funziona... 9 detenuti su 10 non sono tornati in cella

Indulto e le misure alternative riducono drasticamente i crimini

Ristretti Orizzonti: convegno "Meglio prevenire che incarcerare"

Presentazione Giornata di Studi:

"Prevenire è meglio che imprigionare"

Ma quale prevenzione se l’istigazione a delinquere spesso avviene a mezzo informazione?

Venerdì 22 maggio 2009 - Casa di Reclusione di Padova

 

Dare ai ragazzi una idea diversa dei comportamenti a rischio, di come le vite a volte "deragliano", e poi delle pene e del carcere: è un po’ questo forse che ci ha spinto, cinque anni fa, a iniziare un progetto con le scuole. Volevamo insomma non che gli studenti "cambiassero idea" su questi temi, ma che si facessero una loro idea sulla base di una conoscenza diretta di un mondo difficile come quello della galera.

Perché in realtà, bombardati da una informazione che spinge all’irresponsabilità, quello che i giovani (e spesso anche i loro genitori) non sanno, per esempio, è che non è vero che nessuno nel nostro Paese sconta la pena in carcere, semmai il problema è quanto tempo dopo aver commesso il reato la sconterà. Abbiamo visto persone entrare in carcere per una condanna definitiva a distanza di dieci-dodici-quindici anni dalla denuncia.

Ma questo bisogna saperlo, altrimenti scatta nei cittadini un senso di impunità pericoloso, che fa sottovalutare le conseguenze dei reati, e se chi fa informazione tace su questi meccanismi della giustizia, compie a volte una vera, imperdonabile "istigazione a delinquere".

Ma ci interessava anche e soprattutto che i ragazzi capissero i percorsi che possono portare in galera. O che comunque possono far magari solo "sfiorare" l’illegalità. Quando un genitore ci ha obiettato che forse era meglio se la scuola gli studenti li portava a vedere una mostra invece che a visitare una galera, abbiamo provato a ragionarci su, perché in fondo avrebbe anche ragione, se… se le nuove generazioni non avessero una serie di comportamenti che le pone oggettivamente a rischio di entrare in contatto con ambienti illegali. L’uso di sostanze, per esempio.

Certo, ci possono essere gli esperti, qualche scuola ogni tanto fa prevenzione con lezioni sulle diverse sostanze e sulla loro pericolosità, ed è importante, ma non è la stessa cosa che sentir raccontare un’esperienza come quella di un ragazzo, e della lenta distruzione della sua vita ad opera della droga che lo ha portato per un sacco di anni in carcere. Allora a quel genitore, e a chi ha i suoi stessi timori, diciamo che è meglio se i loro figli "il male" lo conoscono accompagnati per mano dalla scuola e invitati a ragionarci su, che non se ci sbattono la faccia contro da soli, come succede a tanti.

 

Ci "candidiamo" a parlare seriamente di prevenzione

 

Ecco allora perché pensiamo di poter dire qualcosa di serio sulla prevenzione:

perché siamo consapevoli di quanto è delicato questo lavoro, ai ragazzi spieghiamo che dietro ogni reato c’è una persona, ma sappiamo che c’è il rischio che poi i ragazzi stessi vedano solo la persona, siano umanamente coinvolti dalla sua storia. E non va bene neppure così, perché certo di uomini si tratta, e non solo di reati, ma l’umanità di una persona non cancella la gravità del reato, e questo ci impone di non giocare a "conquistare la simpatia" dei ragazzi, ma di essere spietatamente chiari sulle responsabilità;

perché le persone detenute hanno imparato a raccontare le loro esperienze, a metterle a disposizione dei ragazzi per far capire come sia facile a volte uscire dalla legalità, e come questo non succeda solo ai "predestinati", a quelli che magari sono cresciuti in famiglie e ambienti con scarso rispetto delle leggi o hanno comunque fatto una scelta. All’inizio del progetto eravamo tutti concentrati a parlare di carcere, pensavamo che il senso del percorso che proponevamo fosse quello di far conoscere nelle scuole una realtà di cui nessuno parla, poi ci siamo accorti che forse la strada più interessante era un’altra, era quella di far capire come e dove le vite a volte deragliano. E questo è un atto di coraggio da parte delle persone detenute, perché raccontare i disastri del proprio passato non piace a nessuno;

perché abbiamo imparato l’importanza delle parole, e non le useremmo mai avventatamente. È successo un giorno che un detenuto ha detto di aver fatto una cosa "abbastanza grave", e poi la cosa "abbastanza grave" era aver ucciso una persona. Quell’abbastanza è un avverbio di troppo, dettato dalla difficoltà di raccontare anche a se stessi la gravità delle proprie azioni, quindi le parole vanno scelte con cura, o meglio, vanno discusse, in modo che le persone detenute, ma anche i volontari imparino a vederne le conseguenze, il male che possono provocare, il rischio di diventare delle giustificazioni: parole che fanno soffrire, parole che mascherano o imbelliscono la realtà, parole che non comunicano emozioni;

perché abbiamo capito che, in un mondo in cui tutti si sentono possibili vittime, la lezione più vera la possono dare le persone che hanno subito realmente dei reati, e che però non vogliono farsi strumento di odio. Per questo abbiamo ragionato sul rapporto tra autori e vittime di reato, e abbiamo cercato di dare un’importanza e un ruolo nuovo alle vittime proprio in questo lavoro di prevenzione, che è un po’ quello che Benedetta Tobagi, figlia del giornalista ucciso dalle Brigate Rosse, ha chiamato "rompere la catena dell’odio";

perché la responsabilità rispetto al reato significa anche saper riflettere collettivamente sulle proprie scelte sbagliate e spiegare la devastazione che produce farsi giustizia da sé, in un momento in cui tanta informazione sembra "scherzare" con temi così drammatici, come quel quotidiano che ha chiesto ai suoi lettori "È giusto che chi ha subito uno stupro si faccia giustizia da sé?", raccogliendo il 76 per cento di risposte di persone favorevoli. Che forse avrebbero bisogno di sentir narrare, come fanno tanti detenuti negli incontri con le scuole, che cosa significa vivere per la vendetta, e quante vite escono distrutte da questa follia.

 

Informazione, prevenzione e vittime

 

L’informazione che "istiga a delinquere", quella che invece sa parlare di "responsabilità condivisa". "Quando c’è un castello di menzogne, l’unica possibilità che hanno i cittadini è di smascherarle. Ci vuole un paziente lavoro di ricostruzione dei pezzi di verità": ne hanno parlato Lorenzo Guadagnucci, giornalista, autore di "Lavavetri", un libro sulle nostre ansie quotidiane, dai rom agli immigrati ai lavavetri, e Paola Reggiani, la sorella minore di Giovanna, la donna aggredita a Roma da un cittadino romeno il 30 ottobre 2007 e morta due giorni dopo.

Le vittime usate dai media per incitare l’opinione pubblica all’odio, la vittime che decidono di "rompere la catena dell’odio": è intervenuta Benedetta Tobagi, figlia di Walter Tobagi, giornalista ucciso dalle Brigate Rosse.

I detenuti, la tragica esperienza del farsi giustizia da sé. Sono intervenuti

Dal dolore privato all’impegno nelle scuole, ma anche nelle carceri. Dodici storie di familiari delle vittime di mafia che hanno trasformato la sofferenza in denuncia e in lavoro concreto nella società, raccontate nel libro "Lotta civile". Ne ha parlato Antonella Mascali, l’autrice, giornalista di cronaca giudiziaria di Radio Popolare.

L’emergenza è irresponsabile, la prevenzione è responsabile (la logica dell’emergenza, alimentata dalla cattiva informazione, con cui la politica affronta i problemi): Giovanni Torrente, docente di Sociologia giuridica dell’Università della Valle d’Aosta, autore della ricerca "Indulto. La verità, tutta la verità, nient’altro che la verità".

 

Prevenzione e responsabilizzazione

 

Hanno parlato di comportamenti a rischio dei giovani:

Insegnanti e studenti che hanno partecipato al progetto scuola-carcere;

Gianfranco Bettin,

Elena Valdini,

Roberto Merli, padre di Alessandro, ucciso l’8 gennaio del 2000, a soli 14 anni, da un automobilista, è responsabile della sede di Brescia dell’Associazione Italiana Familiari e Vittime della Strada;

Mauro Grimoldi,

Don Gino Rigoldi, cappellano dell’Istituto penale minorile Beccaria e autore di "Un male minore".

 

I mediatori del reinserimento

 

Un ruolo nuovo per il volontariato, che si esprime nel lavoro per "ricucire lo strappo" con la società, coinvolgendo anche le vittime in laboratori di mediazione che operino per "spezzare la catena dell’odio".

 

Ha coordinato i lavori

 

Adolfo Ceretti, Professore Ordinario di Criminologia, Università di Milano-Bicocca, e Coordinatore Scientifico dell’Ufficio per la Mediazione Penale di Milano.

 

Conclusione

 

Il ricorso continuo alle logiche dell’emergenza è irresponsabile, la prevenzione è responsabile. Occorre abbassare i toni, smettere di incitare l’opinione pubblica a farsi giustizia da sé e ragionare su tutte le forme possibili di prevenzione. La nostra proposta è di giungere alla creazione di un possibile tavolo di lavoro che promuova politiche di prevenzione nuove, basate sulle testimonianze dirette degli autori di reato, su un coinvolgimento diverso delle vittime, e su una mediazione sociale intesa come strumento per "ricucire lo strappo" tra la società e chi ne ha violato le regole.

Abbiamo ragionato insieme su come prevenire davvero i reati

a cura della Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 25 maggio 2009

 

Prevenire è meglio che imprigionare: sembra così facile dirlo, e invece nella realtà, spinti da una informazione spesso aggressiva e superficiale, si ricorre sempre più di frequente a punizioni più dure e a tanto carcere, invece di ragionare su come prevenire davvero i reati. Proprio la voglia di ragionare su questi temi ha dato vita, venerdì 22 maggio in carcere, a una straordinaria giornata di studi che ha portato a confrontarsi, con chi in carcere ci vive e ci lavora, cinquecento persone, fra cui moltissimi insegnanti e studenti, coinvolti da anni in un progetto di conoscenza tra scuole e carcere. Raccontiamo tre testimonianze, di un detenuto, di una ex detenuta e di Paola Reggiani, sorella minore di Giovanna, la donna aggredita a Roma da un cittadino romeno il 30 ottobre 2007 e morta due giorni dopo, dalle quali emerge il bisogno che l’informazione sia davvero orientata alla ricerca del senso profondo, vero e preciso di ogni storia, nel rispetto della dignità delle persone e dell’esigenza di cogliere la complessità, l’unicità di ogni vicenda umana, invece di appiattirla in una banale semplificazione della realtà.

 

È difficile fare i conti con i propri reati

 

Cinque anni fa, quando abbiamo cominciato quest’avventura del progetto con le scuole, ero assolutamente convinto che agli studenti dovevamo limitarci a raccontare il carcere, evitando accuratamente di parlare dei nostri reati. Ora, a ragion veduta, ammetto che questa mia convinzione era dettata dal timore dell’idea che gli studenti si sarebbero fatti di me: ebbene sì, ero spaventato dalla reazione e dal conseguente giudizio dei ragazzi davanti alle parole "omicidio ed ergastolo", e temevo che rivelando la ragione della mia detenzione non avrebbero più visto in me una persona ma solo i reati che ho commesso.

Poi però ho capito che il silenzio sui nostri reati, oltre ad una mancanza di fiducia e di apertura verso chi aveva accettato di venirci ad ascoltare, lasciava il progetto quasi incompiuto, come un bel puzzle senza un tassello fondamentale. Ho quindi preso coraggio e man mano che gli incontri proseguivano sono finalmente riuscito a dire - seppur con molto disagio - che sono condannato alla pena più severa, l’ergastolo, per aver commesso il reato peggiore che esista, l’omicidio.

E, almeno per me è così, è estremamente difficile fare i conti con i miei reati, e cioè ammettere di cosa sono responsabile, davanti a persone che con la galera e con la mia quotidianità non hanno nulla a che fare - in questo caso intere scolaresche che ti schiacciano alle responsabilità e che in quanto a domande non fanno tanti complimenti (perché sei in carcere, per quale reato, perché l’hai commesso, non potevi pensarci prima?).

Proprio questo compito, però, mi ha aiutato a prendere una sempre maggior consapevolezza di ciò che ho fatto, tenendo anche conto che nelle sezioni del carcere di tutto si parla meno che delle questioni personali e del perché si è detenuti.

Il progetto con le scuole mi ha poi obbligato ad affrontare anche altre questioni legate al reato, infatti agli studenti, ai loro insegnanti e ai loro genitori, perché a volte entrano anche i genitori, non racconto i "dettagli" della mia storia - che potrebbero solamente soddisfare la morbosità e null’altro - ma piuttosto cosa le mie scelte hanno comportato: la distruzione e la devastazione nelle persone a me vicine, nei miei cari, in altre persone e in altre famiglie.

Racconto cosa vuol dire aver seriamente compromesso l’esistenza delle mie figlie, spiego come ci si sente ad aver miseramente fallito come padre e nella vita, e quanto difficile sia convivere col peso della mia coscienza, e a forza di ripetermelo sono arrivato, pian piano, a provare davvero orrore per quel che ho fatto.

 

Marino Occhipinti

 

Il coraggio di mettersi a nudo di fronte agli studenti

 

"Cara Paola, siamo ormai abituati a sentir parlare di ragazzi o uomini (italiani o stranieri) che finiscono in carcere, ma molto raramente di donne.

Sentire la testimonianza di qualcuno che è finito in carcere per spaccio forse non è così avvincente come sentire la storia di un pazzo omicida, ma forse è la cosa migliore che carcerati o ex carcerati, come voi, possano fare nei nostri confronti, perché a questa età ben pochi di noi uccidono, ma molti di noi si mettono sulla cattiva strada del fumo e della droga.

Inoltre è stato un gesto molto apprezzabile e d’esempio, come tu ti sia completamente messa a nudo di fronte a noi... Grazie! Io penso che non sarei stata in grado di farlo, come forse non sarei neanche riuscita ad affrontare il carcere; e l’ultima cosa che avrei fatto sarebbe stata quella di parlare della mia esperienza! Una volta uscita da lì avrei solo cercato di dimenticare".

Questo è il tono di una bella lettera che una ragazza di 3a media, dopo un incontro con i detenuti nell’ambito del progetto "Il carcere entra a scuola. Le scuole entrano in carcere", mi ha scritto. E l’ha scritta perché ha "sentito" la nostra sincerità, il nostro sforzo nel parlare di un’esperienza, quella del carcere, così devastante.

La scelta di continuare a "vivere" il carcere anche dopo essermene "liberata", perché ho finito di scontare la mia pena, ha un motivo preciso: sono stata arrestata quando mia figlia aveva l’età di questa ragazza e mi sono persa una parte importante della sua vita. Quella con le scuole, oltre a essere un’esperienza di crescita, di arricchimento, di "esame di coscienza" per me, mi permette di capire cosa pensano gli adolescenti, quali sono i loro dubbi, i loro pregiudizi, sui reati, le pene, il mondo carcerario, i detenuti, la giustizia. Questo mi ha aiutato a comprendere, almeno in parte, cosa può essere passato per la testa di mia figlia, ora ventitreenne, che ha visto finire sua madre in carcere. Ed è quasi per sdebitarmi, quasi per dare a qualcuno quello che non ho potuto dare a lei, che racconto la mia storia ai ragazzi, perché un’esperienza negativa, messa a disposizione degli altri, può assumere un senso nuovo.

Tutto ciò ha avuto una conseguenza insperata: mia figlia ha capito. Ha capito il mio sforzo per "espiare", ha capito che sua madre forse non è poi così "malvagia", ha capito che quello che le ho portato via non potrà più riaverlo, ma che forse qualcun altro potrà ricevere un piccolo aiuto proprio attraverso quello che invece a lei ha tolto tanto. Certo, me lo chiedo tutti i giorni: è giusto che mi perdoni? È giusto che mi "rimetta" il debito che avrò sempre nei suoi confronti? Se sia giusto o no non lo so. Quello che so è che lei si sta riavvicinando a me, con molta prudenza come è nel suo carattere, ma lo sta facendo e questo è ciò che mi riempie di felicità più di qualsiasi altra cosa.

 

Paola Marchetti

 

Giornalisti, rispettate la dignità del dolore

 

La cosa che mi ha ferito di più e su cui ho espresso il mio disagio dopo l’aggressione a mia sorella è come il fatto è stato raccontato dai media. L’informazione non capiva la nostra scelta, il desiderio di poter vivere, come persone e come famiglia, il nostro dolore senza parlare pubblicamente, e il bisogno di poterlo fare senza doversi giustificare. Perché come famiglia non avevamo voglia di parlare, e quindi abbiamo dovuto affrontare la difficoltà di dover in qualche modo arginare l’intervento dei media. Ma la domanda che mi veniva spontanea a proposito dei giornalisti è "Sono tutte persone laureate, non dovrebbero conoscere determinati linguaggi e comprendere che cosa significa un no?". E da lì allora veniva la rabbia di non poter vivere con riservatezza questa cosa, e poi di dover subire l’imprecisione con cui vengono raccontate vicende come questa, perché è importante raccontare con precisione ed evitare la superficialità e la strumentalizzazione, e invece quello di mia sorella è stato un caso strumentalizzato dai media e dalla politica. E poi ancora ricordo la difficoltà di dover difendere i mie genitori da una notizia così grave, visto che il primo annuncio che è stato fatto alla televisione, alle tre del pomeriggio, quando i miei fratelli erano appena arrivati in ospedale e non sapevano assolutamente niente, era che mia sorella era morta. È morta invece due giorni dopo. Questo ferisce, ferisce tanto quanto l’aggressione a mia sorella.

Ma sono state dette altre cose non vere, che mia sorella è stata vittima di uno stupro, e grazie a Dio non è successo. Quello che mi piace sottolineare è l’importanza del rispetto delle persone coinvolte in vicende come queste, il rispetto nel raccontare cose vere e documentate, il rispetto della dignità del dolore. Ricordo anche che quando doveva esserci il funerale di mia sorella, prima ne è stato celebrato un altro ed è stato detto dal sacerdote che si doveva fare una liturgia più breve, perché poi bisognava lasciar spazio all’altro funerale, quello di mia sorella, che era molto importante. Si torna sempre lì, anche in questo caso: la dignità, il rispetto che non ci sono. Perché un’altra cosa che contava in quel momento, e che non c’è stata, è proprio il rispetto di mia sorella. I giornalisti insistevano, ma come potevamo andare lì davanti ai microfoni a dire qualcosa? Noi avevamo il diritto di vivere questa cosa come famiglia, come persone colpite da un dolore, avevamo solo la necessità di curare le nostre ferite.

 

Paola Reggiani

Prevenire è meglio che imprigionare: convegno al "Due Palazzi"

 

Il Mattino di Padova, 21 maggio 2009

 

Convegno domani alla Casa di Reclusione di Padova dal titolo "Prevenire è meglio che imprigionare" sui dell’informazione, della prevenzione e delle vittime".

L’informazione che "istiga a delinquere", quella che invece sa parlare di "responsabilità condivisa": ne parlano Lorenzo Guadagnucci, giornalista, autore di "Lavavetri", un libro sulle nostre ansie quotidiane, dai rom agli immigrati ai lavavetri, e Paola Reggiani, la sorella minore di Giovanna, la donna aggredita a Roma da un cittadino romeno il 30 ottobre 2007 e morta due giorni dopo.

Ed ancora le vittime che decidono di "rompere la catena dell’odio": interverranno Benedetta Tobagi, figlia di Walter Tobagi, giornalista ucciso dalle Brigate Rosse. E sul tema dei detenuti e la tragica esperienza del farsi giustizia da sé interverranno i detenuti della Redazione di Ristretti Orizzonti.

Sul dolore privato all’impegno nelle scuole, ma anche nelle carceri, e le storie di familiari delle vittime di mafia raccontate nel libro "Lotta civile" parlerà Antonella Mascali, l’autrice, giornalista di cronaca giudiziaria di Radio Popolare.

Sull’emergenza irresponsabile e prevenzione responsabile interverrà Giovanni Torrente, docente di Sociologia giuridica dell’Università della Valle d’Aosta, autore della ricerca "Indulto. La verità, tutta la verità, nient’altro che la verità".

Parleranno poi di comportamenti a rischio dei giovani: insegnanti e studenti che hanno partecipato al progetto scuola-carcere; Gianfranco Bettin, sociologo, autore di "Eredi. Da Pietro Maso a Erika e Omar"; Elena Valdini, autrice di "Strage continua.

La verità sulle vittime della strada"; Roberto Merli, padre di Alessandro, ucciso l’8 gennaio del 2000, a soli 14 anni, da un automobilista, è responsabile della sede di Brescia dell’Associazione Italiana Familiari e Vittime della Strada; Mauro Grimoldi, psicologo, autore di "Adolescenze estreme"; Don Gino Rigoldi, cappellano dell’Istituto penale minorile Beccaria e autore di "Un male minore".

I mediatori del reinserimento, un ruolo nuovo per il volontariato, che si esprime nel lavoro per "ricucire lo strappo" con la società, coinvolgendo anche le vittime in laboratori di mediazione che operino per "spezzare la catena dell’odio". Il convegno inizia alle 9.30 e si conclude alle 16.30.

Le vittime dei reati: quando la cattiva informazione ci "ferisce"

 

Redattore Sociale - Dire, 23 maggio 2009

 

La sorella di Giovanna, uccisa nel 2007 dal romeno Mailat: "Il mancato rispetto del diritto al dolore fa male quanto la perdita". La figlia di Tobagi: "Conoscere chi commette delitti serve a spezzare la catena del male".

Sul clima di emergenza e insicurezza dilagante in Italia quanto influiscono le spettacolarizzazioni e l’allarmismo dei media, quanto le speculazioni dei politici? È su questo che oggi a Padova ci si è interrogati nel corso dell’annuale giornata di studio organizzata da Ristretti Orizzonti "Prevenire è meglio che imprigionare". Un convegno che riportava un sottotitolo inquietante: "Ma quale prevenzione se l’istigazione a delinquere spesso avviene a mezzo informazione?".

Quella stessa informazione che lascia passare il messaggio che in Italia non si vada in carcere mai, che ci sia un"impunità diffusa. Un contrattacco a questa logica per il team di Ristretti sono il confronto con le scuole e i progetti avviati per parlare con i giovani e per far sì che loro parlino con i detenuti scoprendo anche, come dice una studente, che "il carcere è più vicino di quanto si pensi. C’è chi ha iniziato con una sigaretta, poi le canne e poi…".

Esempio dell’informazione-spettacolo e della politica-speculazione è Paola Reggiani, che davanti a centinaia di persone ha parlato della scomparsa di sua sorella, Giovanna Reggiani, uccisa nel 2007 a Roma da un rom rumeno. Paola ha riferito di una doppia ferita: quella per la morte della sorella, certo, e quella per l’aver visto calpestato il diritto di una famiglia al dolore. "Per anni ho lavorato in una casa di riposo e ho imparato che la morte fa parte della vita e che talvolta può essere un atto d’amore dopo un lungo periodo di sofferenza.

Quello che mi ha ferito e tuttora mi ferisce è il modo in cui la morte ha preso mia sorella, che non è stata un gesto d’amore. Provo anche molto disagio per il modo in cui la vicenda è stata trattata dai media, che non hanno rispettato il nostro desiderio di restare in silenzio e di vivere il dolore da soli. Dover tenere lontani i giornalisti dalla famiglia è stata la cosa più difficile da fare in quel lungo periodo".

Paola Reggiani è ancora amareggiata dall’ingerenza dell’informazione, che "ferisce tanto quanto l’aggressione di mia sorella, bisogna avere rispetto per le persone coinvolte, rispetto per la dignità del dolore". Ma un modo per andare avanti c’è: Paola ha avviato con la chiesa valdese di Firenze un dialogo con la comunità rom tanto criminalizzata in quei giorni. Adesso infatti è in piedi un progetto di "adozione a distanza" di un bambino rom che in Romania potrà studiare e sarà primo della sua famiglia ad avere questo privilegio.

Un dolore vivo e presente è anche quello di Benedetta Tobagi, figlia del giornalista Walter ucciso quando lei era una bimba: "Sono cresciuta pensando a come sia possibile che un essere umano uccida un altro essere umano - ha spiegato - e questo pensiero gettava un’ombra scura sul mondo in cui viviamo". Poi l’incontro con Ristretti Orizzonti e la mediazione indiretta, che punta a mettere in relazione vittime e autori di reato: una svolta. "Aver parlato e conosciuto persone che hanno commesso delitti è servito per spezzare la catena del male".

I detenuti: abbiamo fatto dei reati ma siamo persone "normali"

 

Redattore Sociale - Dire, 23 maggio 2009

 

Giornata di studi al Due Palazzi di Padova. Le testimonianze: "A commettere certi reati sono persone assolutamente normali, come loro, che magari hanno avuto un momento di leggerezza e incoscienza".

L’opinione pubblica li considera criminali con la faccia da criminali e, quando escono, ex detenuti con la faccia da carcerati. In realtà si tratta di persone che prima di delinquere per un motivo o per un altro avevano una vita loro, spesso erano padri e madri, figli e fratelli. La barriera che separa il carcere dal mondo esterno è più labile di quello che si pensi ed è questo il messaggio che i reclusi tengono a far passare, anche e soprattutto facendo capire ai giovani che sono le scelte sbagliate che possono portare in cella, non un destino o un’illegalità innata. "Siamo persone normali" spiega infatti Andrea intervenendo al convegno odierno nella casa di reclusione Due Palazzi di Padova.

Nel corso della giornata di studi si è parlato anche della strage continua sulla strada, delle vittime causate da autisti ubriachi, drogati o semplicemente incoscienti. Ed è riferendosi a questo che Andrea spiega: "La maggior parte delle persone quando sentono di un fatto grave si mettono nei panni della vittima o dei suoi parenti, ma non si rende conto che a commettere certi reati sono persone assolutamente normali, come loro, che magari hanno avuto un momento di leggerezza e incoscienza". Andrea faceva uso di sostanze stupefacenti ed era convinto che niente gli sarebbe successo, di avere pienamente il controllo su di sé, ma sbagliava: "Solo dopo mi sono reso conto di quante volte ho rischiato".

Ma non sono solo le sostanze a poter rovinare la propria vita e quella degli altri: anche la difficoltà a chiedere aiuto e la convinzione di farcela da solo possono portare a scelte errate, come spiega un altro detenuto rimasto anonimo: "Quando si è abituati a fare una vita agiata non si vuole rinunciarvi e se arrivano difficoltà - nel mio caso economiche - si pensa di poterne uscire da soli. Invece bisogna chiedere aiuto. Quando parlo con i ragazzi delle scuole cerco di far capire che anche da percorsi di vita regolari si può arrivare a commettere qualcosa di grave".

Marino è un altro recluso che sta imparando a guardare in faccia il dolore negli occhi dei familiari delle vittime: "Credo che chi ha creato dolore come me debba misurarsi con il dolore degli altri, con lo strazio che ha provocato". E pensando a Silvia Giralucci, una giovane cui è stato ucciso il padre e che ha trovato la forza per impegnarsi nel progetto Ristretti Orizzonti, aggiunge: "Una persona che ha subito questo lutto e che decide di trascorrere del tempo, parlare e lavorare con persone che hanno commesso delitti è sinceramente straordinaria. Io però non riesco a guardare nei suoi occhi, come in quelli di Benedetta Tobagi".

Il sociologo: 90% degli indultati non è tornato a delinquere

 

Redattore Sociale - Dire, 23 maggio 2009

 

Parla Giovanni Torrente, docente di Sociologia giuridica e autore della ricerca "Indulto. La verità, tutta la verità, nient’altro che la verità": nove persone su dieci non sono tornate a delinquere.

Si può parlare davvero di fallimento dell’indulto? Le carceri sempre più piene e straripanti hanno davvero riaperto le porte a persone che perlopiù avevano beneficiato della legge? Non ne è per nulla convinto Giovanni Torrente, docente di Sociologia giuridica dell’Università della Valle d’Aosta e autore della ricerca "Indulto. La verità, tutta la verità, nient’altro che la verità". Anzi, l’esperto garantisce il contrario: la recidiva degli indultati è assolutamente sotto la media.

La sua considerazione sul non fallimento dell’indulto nasce da un monitoraggio attento dei dati relativi agli ingressi e ai reingressi nelle strutture penitenziarie nel periodo successivo al varo della legge nel 2006: "La televisione e i giornali ci dicevano che molte persone uscite in questo modo dal carcere vi erano rientrate a distanza di pochi giorni. Ma spesso i media dicono le cose senza porsi il problema di verificarle, per questo è nata la mia ricerca che ha smentito questo luogo comune" ha infatti spiegato nel corso della giornata di studi "Prevenire è meglio che imprigionare".

Lo studio, infatti, ha analizzato i dati relativi ai 27.607 detenuti usciti con l’indulto e a un campione di 7.615 persone che beneficiavano di misure alternative. Nei 26 mesi successivi alla legge la recidiva nel primo caso si è fermata al 26,9%, mentre nel secondo caso è risultata al 18,57%. "Questi dati significano che nove persone su dieci non sono tornate a delinquere - spiega Torrente -. La media degli indultati tornati in carcere risulta dunque inferiore rispetto a quella del dato complessivo sulla recidiva che tocca quota 68%". Si tratterebbe, secondo l’esperto, di un altro esempio di cattiva informazione che non si pone le giuste domande e non cerca le giuste verifiche, ma anche di una evidente strumentalizzazione a fini politici.

Padova: il giorno del convegno anche la protesta degli agenti

 

Redattore Sociale - Dire, 23 maggio 2009

 

Al Due Palazzi di Padova, dove è in corso il convegno "Meglio prevenire che imprigionare", si presentano con striscioni, trombe e altoparlanti: "Siamo in 120 a sorvegliare 800 detenuti".

A pochi giorni dalla protesta dei detenuti, ora sono gli agenti della polizia penitenziaria padovana a urlare la propria rabbia per le condizioni definite "disumane" in cui si vive nella casa di reclusione Due Palazzi. Impossibilitati per legge a scioperare, gli agenti fuori servizio si sono ritrovati con striscioni, trombe e altoparlanti davanti all’istituto di pena che ospita oggi il convegno "Meglio prevenire che imprigionare" organizzato da Ristretti Orizzonti. L’accusa è di non consentire a causa del sotto-organico la tutela della sicurezza dei detenuti, della popolazione civile e degli agenti stessi, bersaglio spesso della rabbia dei reclusi. E in vista dell’estate è atteso un peggioramento della situazione.

A fronte di una capienza regolamentare di circa 350 posti, attualmente i detenuti della casa di reclusione sono circa 800. Per far fronte a queste presenze in eccesso è stata da qualche giorno aggiunta la terza branda in celle concepite come monoposto ma già occupate da due persone. "Con il terzo letto si raggiungerà in pochi giorni la quota di mille detenuti" si legge in un comunicato sindacale che riunisce le sigle Sappe, Uil-Pa, Osapp e Sinappe. Il tutto con un numero insufficiente di agenti: se fosse rispettata la capienza regolamentare del carcere, gli agenti dovrebbero essere sulla carta 430, mentre la realtà è che sono in 120 a sorvegliare ottocento detenuti.

"Non ci consentono di fare il nostro lavoro - accusa Giovanni Vona, segretario provinciale Osapp -. Ora che sta arrivando il caldo c’è il rischio concreto che tutto peggiori: dovremo aumentare le traduzioni agli ospedali per gli inevitabili malori e chi vorrà tentare di fuggire potrà farlo. Ricordo che qui non abbiamo delinquenti qualunque, ma esponenti di spicco di mafia e camorra, per fare degli esempi. Come possiamo tutelare la società civile in questo modo?". Ciò che si recrimina poi allo stato è di voler trasformare con il piano carceri gli istituti "in magazzini in cui si accatasta carne umana".

E il segretario nazionale Sinappe Antonio Guadalupi rincara la dose: "Si prevedono più carceri, ma allo stesso tempo non si preventiva un aumento degli agenti e questo peggiora solo la situazione. Noi vogliamo fare il nostro lavoro, garantire sicurezza e stiamo lottando contro la direzione che ci toglie le ferie, ci costringe a straordinari mal pagati... non ci difende nessuno". La protesta degli agenti continuerà per una settimana estendendosi anche a livello nazionale e si abbinerà alla parallela protesta dei detenuti che già la scorsa settimana hanno intrapreso lo sciopero del carrello.

"L’indulto funziona": è il dato emerso nel convegno di Padova

di Ranieri Salvadorini

 

La Repubblica, 24 maggio 2009

 

In tanti sono usciti dai giri criminali. Uno studio accurato dimostra il netto calo di detenuti recidivi. In alcuni casi 9 su 10 dei beneficiari non sono rientrati in carcere.

L’indulto funziona, ma nessuno ci crede. Il tasso di recidiva, dei detenuti che sono ricaduti nei reati, è sceso al 27 per cento contro il 68 per cento dell’epoca precedente: è il dato emerso al convegno di studi sulle politiche di prevenzione svoltosi al carcere "Due Palazzi" di Padova organizzato dall’associazione Ristretti Orizzonti, che ha visto coinvolte oltre 600 persone tra operatori, studiosi e volontari del mondo carcerario. Un convegno che in alcuni momenti ha avuto come sottofondo il rumore della "battitura" delle celle fatto dai detenuti per protestare contro il sovraffollamento e che arrivava fino alla palestra del carcere.

Lo scossone l’ha dato subito Giovanni Torrente - sociologo del diritto tra l’Università di Torino e quella della Val d’Aosta: "Tutti sono convinti che l’indulto sia stato un fallimento, ma lo studio dei tassi di recidiva dei ‘liberati’ ci dice l’esatto contrario: è scesa al 27 per cento, di contro al 68 per cento di quella pre-indulto".

Il gruppo di studio di Torrente ha lavorato sui dati forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), che costituiscono il maggior campionamento attualmente disponibile della sorte dei 44.944 detenuti che hanno beneficiato della misura voluta da Prodi.

Il calo della recidiva. Dei 45mila "indultati" lo studio ha differenziato due campionamenti diversi per status giuridico censendo, nel primo caso, tutti i "rientri" di quelli che venivano direttamente dal carcere: 27.607. Il tasso medio di recidiva è stato di circa il 27 per cento, di contro alla stima media pre-indulto, che secondo studi dello stesso Dap, in un monitoraggio condotto in 7 anni, è di circa il 68 per cento. Un calo, dunque, di oltre il 50 per cento. Nel secondo gruppo analizzato "i beneficiari del provvedimento sono quelli che vengono dalle misure alternative, come la semilibertà o l’affidamento ai servizi sociali - spiega Torrente - e in questo caso la recidiva cala in misura ancora maggiore, crollando attorno al 18 per cento". Il dato si riferisce a un campione di 7.615 liberati, rispetto a una popolazione di riferimento di 17.387 unità.

La recidiva aumenta con la carcerazione. E il paradosso è ancora più visibile se si guarda agli estremi della ricerca, perché per coloro che non avevano mai avuto esperienze carcerarie, l’indulto ha fatto crollare il tasso di recidiva a nemmeno il 12 per cento. In pratica nove su dieci che non erano mai andati dentro, una volta indultati non sono rientrati. "Non hanno fatto in tempo a carcerizzarsi, incastrandosi in quelle dinamiche tipiche del carcere che in genere portano a introiettare comportamenti devianti e a perdere il contatto con le logiche del mondo libero". Per chi invece non riesce a "rompere il proprio percorso criminale", le probabilità di commettere di nuovo reato sono alte. "Tra quelli che avevano 11 e oltre esperienze carcerarie alle spalle, uno su due sono rientrati dentro".

Gli italiani, i peggiori. Rispetto alla media del 27 per cento gli stranieri hanno mostrato un tasso di recidiva minore, del 19,80 per cento. "è un dato da prendere con le pinze, spiega il sociologo, perché la rilevazione degli stranieri è più complicata, ma ci dice molto sulla nostra tendenza a identificare lo straniero con il delinquente".

Eppure nessuno ci crede. "Non deve sorprendere, spiega Torrente, perché c’è stata quella che in sociologia si chiama "costruzione del panico morale". Infatti, prima i media, poi i singoli politici e successivamente il mondo politico nel suo complesso "fino a includere molti degli stessi che l’avevano votato hanno continuamente gettato discredito sul provvedimento, fino al punto che è entrato nel senso comune l’idea che l’indulto sia stato un fallimento".

All’uscita dal carcere, altoparlanti e striscioni degli agenti della polizia penitenziaria in agitazione sindacale per la "terza branda" facevano eco alla protesta interna: "Lo sa che cosa vuol dire mettere tre persone in otto metri quadri? è una situazione disumana per loro e pericolosa per noi - si sfogano gli agenti di che presidiano il sit-in". Infatti, le celle del carcere veneto sono state pensate per una persona sola e al momento sono occupate da tre, creando una situazione invivibile per i detenuti e ingestibile per gli agenti. "è una situazione pazzesca, in queste condizioni non possiamo garantire alcuna sicurezza né per loro né per noi, dovremmo essere 420 e siamo appena 300". Una situazione che è tornata pre-indulto, secondo le stime dei sindacati ancora 300 detenuti e la capienza massima di 43.000 unità arriverà a 63.000. Se non ci fosse stato l’indulto, oggi sarebbero stati più di 80.000.

La ricerca: il 73% dei detenuti indultati non più commesso reati

 

Corriere della Sera, 24 maggio 2009

 

"L’indulto funziona, ma nessuno ci crede". Parola di Giovanni Torrente, sociologo del diritto all’Università di Torino e Aosta che ieri a un convegno nel carcere "Due Palazzi" di Padova, organizzato da Ristretti Orizzonti, ha presentato i dati di una sua ricerca: il tasso di recidiva dei detenuti che sono ricaduti nei reati è sceso al 27 per cento contro il 68 per cento dell’epoca pre-indulto.

Il gruppo di lavoro di Torrente ha studiato sui dati forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che costituiscono il maggior campionamento disponibile sulla sorte dei 44.944 detenuti che hanno beneficiato della misura. Tra i "rientri" dei detenuti che provenivano dal carcere (27.607) il tasso medio di recidiva è stato di circa il 27 per cento. Tra coloro che invece venivano da misure alternative come semilibertà o l’affidamento ai servizi sociali, la recidiva crolla attorno al 18 %.

Per coloro che non avevano mai avuto esperienze carcerarie l’indulto ha fatto calare il tasso di recidiva a nemmeno il 12%. In pratica, nove su dieci che non erano mai andati in carcere prima, dopo l’indulto non sono più rientrati.. Rispetto alla media del 27 per cento, gli stranieri hanno mostrato un tasso di recidiva minore, del 19.80 per cento anche se, ammette il sociologo, la rivelazione degli stranieri è più complicata e il dato va ricontrollato.

L’indulto infine ha funzionato, adesso lo dicono anche i numeri

 

Il Riformista, 24 maggio 2009

 

Dal giorno dopo la sua approvazione in Parlamento l’indulto è stato additato come fonte, se di non di tutti, di buona parte dei guai del paese. Lo si è descritto come la pacchia del delinquente, la Fine di ogni giustizia e ordine, il volano che ha incrementato a dismisura l’insicurezza e il crimine metropolitano. I media hanno contribuito non poco a diffondere questa vulgata, dato che spesso nei titoli di cronaca non era il reato di turno a essere sottolineato, quanto il fatto che fosse stato commesso da qualcuno uscito dal carcere grazie all’indulto. Ma un’analisi seria dell’impatto dell’indulto sulla società non l’aveva fatta nessuno. Fino a ieri, quando sono stati diffusi dati attendibili sui quali meditare: il tasso di recidiva, cioè dei detenuti liberi per indulto che sono ricaduti nei reati, è sceso al 27 per cento contro il 68 per cento dell’epoca precedente.

Questo è emerso al convegno di studi sulle politiche di prevenzione che si è tenuto al carcere "Due palazzi" di Padova, organizzato dall’associazione Ristretti Orizzonti con oltre 600 persone tra operatori, studiosi e volontari del mondo carcerario. C’è di più: per coloro che non avevano mai avuto esperienze carcerarie l’indulto ha fatto crollare il tasso di recidiva a nemmeno il 12 per cento. Si confronti con questi numeri, il prossimo polemista o titolista che avrà voglia di gettare fango su uno dei pochi provvedimenti decenti che la politica nazionale ha saputo adottare negli ultimi anni.

Indulto: su 10 detenuti usciti con l'indulto nove senza più reati

 

Il Sole 24 Ore, 24 maggio 2009

 

L’indulto sembra funzionare: su dieci persone uscite dal carcere nove non hanno più commesso reati. Lo afferma una ricerca realizzata dal sociologo Giovanni Torrente, "Indulto. La verità, tutta la verità, nient’altro che la verità" presentata in un incontro che si è svolto nel carcere "Due palazzi" di Padova, organizzato

dall’associazione "Ristretti orizzonti". "Questi dati - ha commentato il ricercatore Torrente - significano che nove persone su dieci non sono tornate a delinquere. La media degli indultati tornati in carcere risulta dunque inferiore rispetto a quella del dato complessivo sulla recidiva che tocca quota 68 per cento".

L’indulto ha funzionato: 9 detenuti su 10 non sono tornati in cella

 

Liberazione, 24 maggio 2009

 

L’indulto funziona, ma nessuno ci crede. Il tasso di recidiva, dei detenuti che sono ricaduti nei reati, è sceso al 27 per cento contro il 68 per cento dell’epoca precedente: è il dato emerso al convegno di studi sulle politiche di prevenzione svoltosi al carcere "Due palazzi" di Padova organizzato dall’associazione Ristretti Orizzonti, che ha visto coinvolte oltre 600 persone tra operatori, studiosi e volontari del mondo carcerario. Lo scossone l’ha dato subito Giovanni Torrente - sociologo del diritto tra l’Università di Torino e della Valle d’Aosta: "Tutti sono convinti che l’indulto sia stato un fallimento, ma lo studio dei tassi di recidiva dei "liberati" ci dice l’esatto contrario: è scesa al 27 per cento, di contro al 68 per cento di quella pre-indulto". E sono dati forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap).

Indulto e misure alternative riducono drasticamente i crimini

di Roberto Malini

 

www.everyonegroup.com, 24 maggio 2009

 

La ricerca rivela che nel caso di detenuti per la prima volta, spesso giovanissimi, la recidiva è scesa del 90 per cento. È importante, inoltre, rilevare che se il governo Prodi aveva condotto l’Italia a uno dei più bassi indici di criminalità nell’Ue, oggi assistiamo a un’escalation fuori controllo che riguarda tutti i reati: omicidi, stupri, violenze e reati contro il patrimonio.

Milano, 24 maggio 2009. La carcerazione produce criminalità, mentre le misure alternative e provvedimenti come l’indulto sono rimedi efficaci per combatterla. Il Gruppo Every One promuove da tempo soluzioni diverse dal carcere, mirate non a punizioni sproporzionate per chi commetta reati, ma al reinserimento sociale.

Quando un cittadino si trova catapultato nell’inferno carcerario, dove la sua individualità e i suoi diritti umani sono annientati e solo la legge del più forte consente di mantenere la propria dignità e la propria volontà di riscatto, pericolose trasformazioni avvengono nella sua psiche, che inizia ad assorbire odio, frustrazione e sentimenti di rivalsa.

È una metamorfosi inevitabile, che blocca qualsiasi processo di redenzione, annulla i sentimenti positivi del detenuto e innesca in lui una vera e propria inimicizia nei confronti della società. Questo fenomeno è acuito dalle violenze quotidiane subite dagli internati, sia da parte di altri detenuti, sia da parte delle autorità che dovrebbero vegliare sul quieto vivere all’interno degli istituti di pena. La privazione della libertà, inoltre, è all’origine di una pratica assai diffusa, che oltre il 50% dei giovani detenuti subisce, senza denunciarla a causa della vergogna: lo stupro e la costrizione a umilianti pratiche sessuali.

Un ragazzo oggetto di stupro e di torture che distruggono la sua personalità e la sua dignità umana diviene psichicamente instabile e non è raro che a propria volta, per un distorto istinto di rivalsa, divenga uno stupratore e un violento*. Ma in generale, la personalità di detenuti di sesso maschile e femminile, giovani e meno giovani, subisce - nelle condizioni sempre inumane cui costringe la vita carceraria - traumi che ne alterano irreversibilmente la capacità di relazionarsi con la società. Sia nei Paesi in cui vigono regimi che nelle democrazie, si deve rilevare che la giustizia si trova ancora in una fase medievale e non è mai riuscita ad evolversi in funzione delle ricerche e degli studi statistici.

Di fatto, funziona come una religione integralista e si propone ai cittadini come un’alternativa infernale al "paradiso" della libertà, paventando orrori e incubi a chi trasgredisca la legge, come nei dipinti di Hieronymus Bosch. Questa giustizia inquisitoria, che accetta ancora, più o meno subliminalmente, la tortura, la castrazione, la mutilazione, l’annientamento della personalità, la violenza sessuale ignora - proprio per la sua natura sadicamente "cultuale" - l’uso della clemenza quale "deterrente positivo" al reiterarsi di infrazioni della legge.

Siamo convinti che il carcere sarà abolito, quando la comunità umana avrà superato la propria "età del ferro", già prefigurata da Esiodo nell’VIII secolo a.C. e caratterizzata dal capovolgimento dei valori umani, civili e culturali, in nome di un Ordine rappresentato in realtà dalla più feroce espressione della legge del più forte, senza alcuno spazio al valore socialmente taumaturgico della compassione. In Italia questo fenomeno irrazionale, disumano e perverso è particolarmente grave e diffuso endemicamente su tutto il territorio nazionale.

Con questa premessa introduciamo i risultati emersi al convegno di studi sulle politiche di prevenzione svoltosi al carcere "Due Palazzi" di Padova. Risultati che contrastano con la propaganda politica, praticamente in ogni aspetto riguardante le misure carcerarie e quelle alternative.

In relazione al provvedimento dell’indulto attuato dal governo Prodi, i dati sono chiari, come ha ricordato il sociologo del diritto Giovanni Torrente: "L’opinione pubblica si è convinta che l’indulto sia stato un fallimento, ma lo studio dei tassi di recidiva dei detenuti rimessi in libertà ci dice l’esatto contrario: sono scesi al 27 per cento, contro il 68 per cento riferibile al periodo di sette anni precedente l’indulto.

Si tratta di un calo superiore al 50%". I dati forniti dal professor Torrente provengono dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), che rappresentano la fonte più completa di informazioni relative ai 44.944 detenuti che hanno beneficiato dell’indulto. Se li si legge correttamente, risulta evidente che senza tale misura, il numero di reati commessi da carcerati giunti al termine della pena senza sconti sarebbe stato decisamente superiore e che dunque l’indulto ha scongiurato un numero considerevole di omicidi, stupri, violenze e crimini contro il patrimonio. Un altro dato che contraddice la propaganda è quello relativo ai beneficiari di misure alternative alla detenzione, come la semilibertà o l’affidamento ai servizi sociali: in tali casi la recidiva scende in misura ancora più netta, raggiungendo appena il 18 per cento.

Un dato inattaccabile, poiché verificato su un campione di 7.615 beneficiari di misure alternative, su un totale di 17.387 individui. La recidiva peggiora drammaticamente con la carcerazione. Riguardo ai detenuti per la prima volta, spesso giovani o giovanissimi, l’indulto ha fatto diminuire il tasso di recidiva all’11,8 per cento: un dato che dovrebbe essere tenuto presente da chi ha scelto demagogicamente e irresponsabilmente di abbandonare la via delle misure alternative alla prigione. "Nove su dieci detenuti novelli," riferisce Torrente, "non hanno fatto in tempo ad assimilare gli effetti negativi della detenzione, che li avrebbero incastrati in quelle dinamiche tipiche del carcere che in genere portano a introiettare comportamenti devianti e a perdere il contatto con le logiche del mondo libero".

Vi è un altro dato che suona come una condanna per i giustizialisti e i fautori - per incompetenza e pregiudizi - di recidive criminali: sul totale del 27 per cento di recidive, gli stranieri hanno un tasso inferiore rispetto agli italiani: il 19,8 per cento. "È un dato che ci dice molto sulla nostra tendenza a identificare lo straniero con il delinquente," spiega Torrente, "un dato che non deve sorprendere, perché vi è stata quella che in sociologia si chiama costruzione del panico morale.

Infatti, prima i media, poi i singoli politici e successivamente il mondo politico nel suo complesso, fino a includere molti degli stessi che l’avevano votato, hanno continuamente gettato discredito sul provvedimento di indulto, fino al punto che è entrato nel senso comune l’idea che l’indulto sia stato un fallimento".

Sorprende, ovviamente, che la "sinistra" non abbia smentito i rivali politici riguardo a tale propaganda e anzi abbia improvvisamente mutato rotta, abbandonando le politiche moderne ed efficaci che avevano portato l’Italia, durante il governo Prodi, a uno dei più bassi indici di criminalità nell’Unione europea, seconda solo - e di poco - alla Norvegia.

Stravolgere l’organizzazione delle forze dell’ordine, seminare panico sociale, emanare continui ed insensati decreti sulla sicurezza, introdurre misure di repressione delle minoranze e delle libertà individuali ha portato a una nuova escalation dei fenomeni di devianza sociale, riconducendo l’Italia in una giungla di conflitti e paure, in cui gli eventi criminosi toccano ogni mese record negativi sempre nuovi, senza che alcuna voce politica o civile - se si eccettua il Gruppo Every One, i Radicali e poche organizzazioni per i Diritti Umani - lo denunci.

Ristretti Orizzonti: convegno "Meglio prevenire che incarcerare"

 Il Gazzettino di Padova , 1 giugno 2009

La rivista “Ristretti Orizzonti”, il periodico di informazione e cultura dal carcere Due Palazzi, ha organizzato una giornata di studi sul tema “Prevenire è meglio che imprigionare”. “In questo clima di odio che respiriamo - ha sintetizzato il direttore della rivista, Ornella Favero - le vittime di chi ha subito un torto dicono “Basta”. Dire solo che la giustizia non funziona, crea una tensione che non porta da nessuna parte”.

Per far vedere l’altra faccia della medaglia, sono stati invitati a partecipare al convegno, i padri, i figli, le sorelle di chi, nel recente passato, ha perso la vita perché ucciso da mano assassina: “le vittime - ha sottolineato la Favero - non sono solo quelle che sono rimaste a terra ma anche i loro parenti che hanno subito, oltre al dolore della perdita, la campagna di un’informazione spesso esacerbata e distorta e di una giustizia lenta”.

Sul palco dei relatori si sono presentati: Roberto Merli, padre di Alessandro, ucciso, a 14 anni, da un automobilista; Paola Reggiani, sorella di Giovanna, aggredita e uccisa a Roma da un cittadino romeno; Benedetta Tobagi, figlia del giornalista Walter, ucciso dalle Brigate Rosse; Silvia Giralucci, figlia di Graziano, anche lui vittima di un vile omicidio.

Questi familiari hanno sottolineato il loro bisogno di essere ascoltati perché il peso del dolore va condiviso; per alcuni di loro, è nato, nel tempo, anche l’esigenza di confrontarsi con i detenuti. Dal confronto, hanno detto, è emersa una realtà molto più complessa di quella che era stata raccontata e raccolta dalle tv, dai giornali. Alla conferenza, erano presenti molti studenti delle scuole di Padova.

 

 

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