L'opinione dei detenuti

 

Tommaso, vittima di un gruppo di balordi disperati

...e del diritto di cronaca

Noi che siamo "dentro" da chi è fuori ci aspetteremmo sollecitazioni

a essere migliori di quelli che siamo o siamo stati, non istigazioni a essere peggiori

 

Marino Occhipinti, Redazione di Ristretti Orizzonti, aprile 2006

 

Della tragica vicenda del piccolo Tommaso conosciamo ormai ogni minimo particolare, compreso purtroppo il terribile epilogo. Evito perciò di soffermarmi sulla cruda dinamica dei fatti, perché non potrei né saprei aggiungere nulla di nuovo dopo tutto quello che hanno detto e scritto in merito televisioni e giornali, passando spietatamente al setaccio la stessa vita privata della famiglia Onofri pur di offrire in pasto al pubblico qualche scampolo di scoop. Ed è anzitutto su questo modo di fare informazione a tutto campo, senza rispetto nemmeno per le vittime, che voglio provare a fare qualche considerazione.

Per un mese abbiamo assistito a una diretta senza sosta, dove in un crescendo spasmodico di informazione a tutti i costi sono stati interpellati non solo amici e parenti degli Onofri, psicologi e psichiatri, criminologi e investigatori, "opinionisti" più o meno autorevoli e competenti, ma anche stuoli di generici vicini di casa, di passanti, di persone prese a caso per strada e sbattute in video come testimoni dell’angoscia e dello sdegno collettivi: tutti a dire la loro anche quando non avevano in effetti nulla di importante e significativo da dire. Ma il culmine dell’invadenza mediatica lo si è raggiunto proprio quando – rinvenuto il corpicino senza vita di Tommaso – avrebbe dovuto finalmente prevalere la pietà, il rispetto per la tragedia e per il dolore privato delle persone in essa direttamente coinvolte.

Il giorno stesso in cui è stata effettuata l’autopsia (della quale ci sono stati comunicati gli esiti in tempo reale, naturalmente), alcuni giornalisti hanno avuto perfino la sfrontatezza di piazzare un microfono in bocca alla madre di Tommaso, distrutta e ammutolita dal dolore, per chiederle se avrebbe mai potuto perdonare i carnefici di suo figlio (e chi mai potrebbe perdonare, all’indomani di un simile misfatto? E in ogni caso il perdono, ammesso che possa mai esserci, non è una disposizione d’animo "a comando", e neppure una folgorazione, ma semmai l’esito finale di un processo interiore lungo e sofferto). La stessa domanda, il giorno dopo, qualche altro "intraprendente" giornalista ha avuto la faccia tosta di riproporla a lei e a suo marito mentre, con un mazzo di fiori in mano, si soffermavano in preghiera davanti alla buca sull’argine del fiume Enza dove il loro bambino era stato sepolto dai suoi assassini la sera stessa del sequestro.

Immagino che noi detenuti non veniamo dipinti, nel mondo esterno, come campioni di sensibilità e delicatezza. Eppure siamo stati in molti, dietro alle sbarre, a trovare intollerabili quelle reiterate intrusioni nella vita di persone già schiacciate dal peso di una tragedia sconvolgente; e a chiederci se sia lecito, in nome della libertà di stampa e del diritto di cronaca, consentire simili forme di violazione della privacy e di profanazione del dolore. Se a porre un argine a certi plateali eccessi non provvedono – come sarebbe giusto e doveroso – la coscienza personale e la deontologia professionale degli operatori dell’informazione, non dovrebbe quantomeno intervenire d’ufficio, comminando adeguate sanzioni, un’autorità superiore di indirizzo morale e comportamentale come il Garante della privacy?

E poi: qualcuno si prenderà mai la briga di identificare e di punire i responsabili di quella clamorosa fuga di notizie che, già nei primi giorni del sequestro, ha proiettato sul padre di Tommaso l’ombra ripugnante della pedopornografia, per via del ritrovamento di quei file compromettenti in quella certa cantina? Certo, anche in questo caso i media hanno le loro colpe, perché non si sono lasciati sfuggire l’occasione per pescare e rimestare oltre misura nel torbido; ma la responsabilità principale va cercata a monte, in chi – fra gli inquirenti – ha permesso che divenissero di pubblico dominio fatti e circostanze tremendamente ambigui e morbosamente strumentalizzabili, che dovevano perciò essere indagati e chiariti in una situazione di assoluto, ermetico riserbo.

Qualche considerazione, infine, vorrei riservarla al neppure tanto velato invito al linciaggio degli assassini di Tommaso che è giunto in questi giorni alle carceri da parte di alcuni esponenti politici e di giornalisti anche influenti. Ho trovato una certa velenosa voluttà nel descrivere e nell’enfatizzare l’ostilità dei "detenuti normali" nei confronti dei "detenuti-mostri" Alessi e Raimondi: come se la società civile – lei che per definizione è "per bene", e che quindi non si può sporcare le mani – scaricasse sui suoi figli degeneri (loro che possono, perché tanto le mani se le sono già insozzate) il compito di fare per suo conto il "lavoro sporco".

Certo, è vero che questa squallida e terribile vicenda parmigiana ha suscitato orrore in carcere non meno che fuori; ed è anche vero che secondo una certa mentalità coatta, per fortuna sempre più minoritaria, chi si è macchiato di simili infamità andrebbe fatto a pezzi. Ma noi che siamo dentro, da chi è fuori ci aspettiamo sollecitazioni a essere migliori di quelli che siamo o siamo stati, non istigazioni a essere peggiori. Che Abele si rivolga a Caino, per vendicarsi senza macchiarsi di sangue, è semplicemente disgustoso.

 

 

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