Ddl Meduri: documento del Sidipe

 

Ddl Meduri: documento del Sindacato dei dirigenti penitenziari

di Antonietta Pedrinazzi, Vice Segretario Nazionale del Sidipe

 

Nel "Venerdì" di Repubblica del 25 u.s. si poteva leggere, nell’articolo " I burocrati all’assalto del carcere" che il Governo starebbe approfittando di una proposta di legge (il ddl. 5141 sulla Dirigenza penitenziaria) per "eliminare i servizi sociali nelle carceri,trasformando gli uffici degli attuali assistenti sociali in semplici uffici amministrativi e di controllo", cassando la finalità rieducativa della pena e lo strumento operativo (il Centro di Servizio Sociale) del reinserimento sociale dei detenuti a vantaggio di "un’attenzione molto più incentrata sul concetto di punizione". Si tratta di una notizia tanto infondata quanto grave e allarmante: se fosse anche solo verosimile, sarebbero i direttori penitenziari i primi a insorgere e denunciare un simile rischio, non potendosi immaginare una esecuzione delle pene che si discosti dal principio della "pena utile". Non solo perché si andrebbe contro ogni previsione costituzionale, ma anche perché le carceri diventerebbero ingestibili senza una tale prospettiva!

Invece, i direttori penitenziari, di Centri di Servizio Sociale e di Ospedali Psichiatrici Giudiziari da ormai quattro anni chiedono a gran voce che sia approvata una legge come quella attualmente in discussione! Perché? Per capirlo, è necessario fare un passo indietro.

I Centri di Servizio Sociale per Adulti (Cssa) sono servizi nati con la storica riforma penitenziaria del 1975 per prospettare un modo di espiare la condanna alternativo alla detenzione che contrastasse la centralità e l’esclusività del carcere come modalità di esecuzione delle pene. Il Legislatore delineò principi chiari e forti accanto a una struttura organizzativa semplice, di base, che per decollare si avvalesse sul piano amministrativo, strumentale e contabile delle risorse e dell’apparato carcerario, all’epoca ancora contraddistinto da un Corpo militare (gli Agenti di Custodia) fortemente gerarchico e non sindacalizzato, il cui motto era un ossimoro, "vigilando redimere". Allora, il concetto stesso di esecuzione penale non poteva fare a meno, per meritarsi tale dignità, di cominciare dentro il carcere e là acquisire quell’imprinting che rendesse legittimo il suo prosieguo anche all’esterno; in tale contesto il Servizio Sociale fu individuato quale professione cui affidare in esclusiva la nascente area dell’esecuzione penale esterna quando quest’ultima poteva proseguire all’esterno del carcere. Così nacquero i CSSA, con la loro caratteristica impronta "mono professionale". Così, in questo modo, prese vita anche in Italia il Probation ed ebbe fine il monopolio del carcere quale esclusivo ambito legittimo di espiazione della condanna.

Oggi, trent’anni dopo, l’Italia rimane l’unico Paese europeo in cui l’esecuzione penale esterna, divenuta ormai sistema di esecuzione penale a pieno titolo in parallelo al circuito detentivo (più di 30.000 sono i condannati che scontano la pena in tutto o in parte fuori dal carcere), coincide nella denominazione con il Servizio Sociale.

Si tratta di una situazione oggi diventata anomala, non corrispondente alla realtà, che non giova né al senso di sicurezza sociale né alla professione medesima , che si vede investita dall’esterno di una serie di "pretese" - legittima componente dell’esecuzione penale - (controllo, verifiche finanziarie, diagnosi di pericolosità etc.) che sono estranee alla professione, la snaturano e inquinano il rapporto fiduciario che è necessaria componente in itinere della relazione di aiuto correttamente intesa.

Oggi non si può responsabilmente affermare che tutta l’esecuzione penale esterna si deve esaurire nel Servizio Sociale operante nel sistema giustizia: una tale affermazione "riduce" la portata concettuale e operativa dell’area penale esterna. Pensando e affermando una teoria così unilaterale e riduttiva si è fuori dalla storia, si è fuori dall’Europa, estranei alle aspettative della collettività e lontani dal sentire dei cittadini. Non solo: paradossalmente, il servizio sociale del sistema giustizia, se così inteso, diventerebbe "controparte" per gli operatori dei servizi delle Asl e dell’Ente Locale, per il Volontariato, per le Cooperative sociali. Sarebbe,insomma, un "qualcosa" che il territorio non saprebbe riconoscere né saprebbe utilizzare, un ibrido, un noumeno burocratico e autoreferenziale.

Perciò diventa oggi indispensabile un cambio di denominazione che rispecchi l’attuale complessità operativa , l’avvenuto inserimento all’interno dei Cssa di altre figure professionali (esperti, polizia penitenziaria, volontari, obbiettori di coscienza, mediatori culturali, ecc) e di altri servizi (Sportelli Informativi, Progetti esecutivi ecc.); urge una organizzazione del servizio che rispecchi la complessità funzionale e operativa dell’esecuzione penale esterna così come oggi essa di fatto è, che da un lato restituisca al servizio sociale la propria specifica competenza professionale e dall’altro attribuisca gli altri compiti, che all’esecuzione penale sono strettamente e necessariamente correlati, alle figure professionali cui competono per deontologia, metodi e strumenti. Il tutto, compreso in un servizio unitario, unitariamente strutturato e organizzato e debitamente definito anche nella sua denominazione, che non si appiattisca più su di un’unica professionalità.

È questo - e non altro - ciò che si vuole realizzare con l’art. 3 inserito nel disegno di legge approvato dal Senato nel luglio 2004 e oggi in discussione alla Camera. Un disegno di legge che prevede l’istituzione della dirigenza per i direttori dei penitenziari, dei Centri di servizio sociale e degli Ospedali psichiatrici giudiziari; non è che si voglia in tal modo, come è stato scritto, far passare in sordina, nascosto in un contesto altro, la cancellazione delle figure (gli assistenti sociali) istituzionalmente deputate a gestire il lato rieducativo della pena e il reinserimento sociale, tutt’altro! Con l’attribuzione della dirigenza ai direttori dei Penitenziari, dei Centri e degli Opg si attribuisce loro, insieme al giusto riconoscimento economico e sociale, anche un grado di autorità e di autonomia operativa tale da porli in condizione di poter tessere direttamente rapporti costruttivi e proficui con il territorio, con le associazioni del Terzo settore, con il Volontariato, superando l’attuale situazione che li vede ogni volta alle prese con le mediazioni e le autorizzazioni da chiedersi agli Uffici Superiori.

Il riconoscimento della dirigenza ai direttori penitenziari sarà un elemento di agevolazione nella realizzazione di un sistema di esecuzione della pena che tende alla rieducazione del condannato, sistema che, a tal fine, vede nell’attuazione del principio di sussidiarietà una modalità istituzionale e solidaristica necessaria, oggi imprescindibile, come attestano le numerosissime convenzioni stipulate con la Caritas, con le Associazioni no-profit, con il Volontariato, una rete di solidarietà che nessuna legge o Amministrazione può pensare di "abolire"!

 

 

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