L'opinione dei detenuti

 

Scattone insegna…

 

Stefano Bentivogli - Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Per una persona in esecuzione della pena, uno che la condanna la sta ancora scontando, non è mai piacevole tornare alla ribalta e vedere il proprio caso di nuovo sulle pagine dei giornali. Spesso a questo si aggiunge l'eventualità che, come in questo caso dove Scattone usufruisce dell'affidamento in prova e la qualità della sua vita dipende quasi esclusivamente dalla fiducia e dalla conseguente disponibilità del magistrato di sorveglianza che cura il suo procedimento, il clamore e le proteste interferiscano in un percorso di reinserimento sociale e lavorativo che per lui era effettivamente in corso.

Questo quindi il primo problema, ed è giusto il timore della moglie di vedere interrotto il ritorno all'attività di insegnamento del marito, perché in molti casi i magistrati di sorveglianza danno una rilevanza notevole alla reazione dei parenti della vittima nei confronti della scarcerazione, per concessione di misura alternativa, del condannato.

Dal nostro punto di vista, ossia quello di persone che la pena la stanno scontando, sembra privo di senso dover dipendere dalla volontà di perdono di chi abbiamo anche indirettamente offeso. E quindi, dopo un periodo di carcere, in questo caso di 2 anni e 4 mesi, ottenuta la misura dell'affidamento in prova, che oltre ad una serie di limitazioni consente comunque di vivere fuori dal carcere, viene solo chiesto che venga svolta dall'affidato un’attività di risarcimento delle vittime - ulteriore a quella definita in fase processuale – e con ciò la questione dovrebbe essere chiusa.

Ma non è così, ed è inutile far finta che il problema non esista, perché ad ogni occasione possibile il problema si riproporrà, dal momento che è inevitabile che, soprattutto nei casi di omicidio o di violenza sulla persona, resti aperto un conflitto che spesso neanche il tempo è in grado di attenuare.

Qui poi la situazione è ancora più complessa, il condannato continua a professarsi innocente, ed il processo in realtà non ha fornito una sentenza così chiara da poter considerare il caso davvero chiuso. È però un'operazione poco corretta andare a ridiscutere una sentenza, purtroppo in alcuni casi bisogna anche accettare che la giustizia non arrivi al suo scopo in maniera chiara ed indiscutibile.

Di qui tutte le difficoltà che in questo momento le parti, credo entrambe, si trovano ad affrontare.

Ma la questione sollevata dai genitori della scuola dove Scattone insegna e dai parenti di Marta Russo, che ha perso la sua giovane vita senza senso, per un incidente che prevede la colposità, ma che non spiega per niente come sia stato possibile il suo verificarsi senza che sia messa in discussione la sanità mentale di chi lo ha provocato, deve avere una risposta.

Se nella sentenza non è stata prevista l'interdizione dall'insegnamento, Scattone ha tutti i diritti di essere in graduatoria come supplente e, all'occasione, di insegnare come qualunque altro cittadino abilitato a farlo. La pena poi dovrebbe tendere a rieducare ed a rimettere il condannato in condizione di ricominciare a vivere con pari diritti ed opportunità. In realtà però il condannato sta ancora espiando questa pena e, se si trova in questi giorni dietro la cattedra di un Liceo ad insegnare filosofia, dipende dalla decisione di un magistrato di sorveglianza che gli ha concesso questa possibilità.

Io sono portato a credere che il magistrato abbia ben valutato la personalità di Scattone prima di rimetterlo in un posto simile a quello in cui era all'epoca del reato, non credo che casi tipo quello di Angelo Izzo siano la normalità e credo soprattutto che, se una persona è cresciuta e cambiata e non è a rischio l'incolumità degli studenti, abbia poco spazio la questione del buon esempio. Mi pare anzi che, con le garanzie di cui dicevo prima, visto che la strada di Scattone era l'insegnamento, sia giusto e proprio di buon esempio che, avendo saldato il suo debito con la giustizia, possa riprendere la sua carriera nell'insegnamento.

Ma mentre scrivo mi rendo conto che sono tutti discorsi un po' campati in aria: Scattone si è sempre dichiarato innocente, il processo e la gestione dei testimoni è stato quanto di meno chiaro si potesse realizzare. Se si è trattato di un incidente e quindi di un omicidio senza movente, la preoccupazione è un'altra, ossia la sanità mentale del colpevole, sempre ammesso che sia lui.

E mi chiedo se il problema vero sia quello del buono o del cattivo esempio di fronte ad un caso giudiziario dove l'unico aggettivo che mi viene immediato è "pazzesco", e se piuttosto, nel caso che veramente chi ha emesso la condanna fosse convinto della colpevolezza colposa, ci sia stato o meno un successivo iter di verifica dell'equilibrio psichico del condannato.

 

Se invece di preoccuparsi sempre di imporre risarcimenti improbabili, si tentasse comunque la via della mediazione penale

 

E' di fronte a questi casi, dove i processi sono quanto di più contorto si possa immaginare, e le sentenze ne fanno trasparire i limiti, che mi chiedo quanto l'impianto dell'esecuzione della pena offra garanzie al condannato ed alle vittime.

A Scattone infatti, al di là del fatto che si proclami innocente, che è un diritto sacrosanto dell'imputato, sarà stato chiesto di fare una revisione critica del reato per cui è stato condannato e, durante l'affidamento, di operare in favore delle sue vittime con azioni risarcitorie. Questo a fronte dell’omicidio di una giovane ragazza ai cui genitori è stata consegnata come motivazione il tragico errore in un gioco dove si simulava il tiro al bersaglio dalla finestra dell'Università la Sapienza di Roma. Una storia che ha dell'inquietante, con una verità processuale che ha scontentato tutti, e con un’esecuzione della pena che non sembra considerare che, se le cose stanno proprio come la sentenza dice, sono ben altri i problemi di reinserimento da considerare che non la carriera lavorativa del condannato. Ma ripeto, è la verità processuale talmente tanto poco convincente ed incompleta che qualsiasi discussione sui condannati e sul loro futuro risulta vuota e probabilmente ingiusta.

Una cosa però mi sento di dire, ossia che i conflitti che un omicidio lascia aperti dovrebbero essere affrontati, e che se invece di preoccuparsi sempre di imporre risarcimenti improbabili, si tentasse comunque la via della mediazione penale, i percorsi di reinserimento sarebbero certamente meno ostacolati e troverebbero più comprensione all’interno della società.

In questo caso però il condannato si dichiara ancora innocente, per cui non resta che accettare i limiti del fare giustizia, che significa comunque anche poter sbagliare, ma almeno sforzarsi di farla senza tutte le interferenze mediatiche che in questo, e in tanti altri più recenti processi, rischiano di fare solo danni.

 

 

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