L'opinione dei detenuti

 

È possibile un reale cambiamento delle "politiche antidroga"?

Parliamone, anche a partire da quello che ha detto

il sindaco Chiamparino sulle "sale di iniezione"

 

Stefano Bentivogli – Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Tra i continui fatti di cronaca, dove l’emergenza criminalità legata ai tossicodipendenti crea un clima di terrore senza vie d’uscita, è molto importante informarsi, capire, provare a farsi un’opinione che sfugga all’ormai consolidata indignazione, ma più ancora all’odio ed alla paura.

Possiamo passare giornate a discutere dell’entità del fenomeno tossicodipendenze, come è avvenuto dopo l’allarme lanciato dal Ministro Giuliano Amato sui consumi di cocaina in Italia, senza magari venirne a capo. Possiamo, in nome di presunte verità acquisite, reclamare il finanziamento politico di teorie di contrasto al consumo di droghe dove c’è spazio per tutto ed il suo contrario. Teorie e pratiche che possono incentrarsi quasi totalmente sulla prevenzione, ed il recente incontro promosso dal Ministro Livia Turco ad esempio si proponeva con un titolo emblematico, "Progettare un futuro senza droghe", che fa pensare automaticamente che sia possibile (e che abbia addirittura senso) pensare ad un futuro senza fenomeni sociali di disagio, come se non facessero parte della storia dell’umanità e del suo cammino sofferto e controverso.

Possiamo trovarci invece tra le mani il recente documento di Don Mazzi e del Presidente della FICT (è la federazione delle comunità terapeutiche di orientamento cattolico) dove con forza si sottolinea che drogarsi non è un diritto perché "non si possono confondere i diritti con i capricci ", dove si chiede un sistema sanzionatorio che applichi l’interdizione da determinate professioni (ma si fanno alcuni esempi senza spiegare fin dove si vuole arrivare), per i consumatori di stupefacenti, dimenticando che ai livelli veri di sofferenza, quelli della marginalizzazione quotidiana causati dallo stato di dipendenza, non c’è assolutamente bisogno di interdire nessuno da alcun ambito professionale, sempre che non vengano considerate professioni il furto, la prostituzione, l’accattonaggio.

Se si passa ad un livello di integrazione lavorativa diversa, la media è fatta di situazioni dove la gran parte del rischio in realtà lo corre il tossicodipendente stesso, il manovale che potrebbe cadere dall’impalcatura, l’operaio che si trancia qualche arto maneggiando macchinari: un bel licenziamento e basta, per queste persone, normalmente corrisponde all’assunzione a tempo pieno nella piccola industria dell’illegalità. Ma poi tutte queste persone che si massacrano la salute, che vivono tra la galera e la strada, che nel migliore dei casi sono in costante scontro con il loro ambito familiare e sociale, che possono anche rientrare nella fascia di età che va dai quaranta ai sessanta anni, sono dei capricciosi da "rieducare", a cui insegnare cos’è il mondo e come bisogna viverci dentro? La risposta dovrebbero darla questi professionisti della terapia "giusta e necessaria".

Ad una visione così poco rispettosa delle sofferenze della persona si oppongono, tra urla di indignazione, quegli strumenti legati alle ipotesi di liberalizzazione, di fatto e non per legge, quali le shooting room, le famigerate "stanze del buco", quei luoghi dove una persona può andare ad iniettarsi lo stupefacente, e dove gli si rendono disponibili siringhe nuove, disinfettanti, magari assistenza medica.

Certo, meglio che per strada o in un parco pubblico, meglio che con una siringa raccattata per terra e sciacquata con l’acqua di qualche fontana e meglio che soli come cani rognosi che si devono nascondere dallo schifo della gente e dai fermi (e a volte anche le botte) delle Forze dell’Ordine.

La "liberalizzazione di fatto" in alcune zone del nostro paese c’è già, e consiste nell’assoluta semplicità di trovare qualcuno che sia in grado di vendere droga, ma si tratta di situazioni di degrado personale ed ambientale massimo: prima di trovare lo spacciatore comunque, occorre trovare i soldi, sempre tanti, e questi non arrivano dal cielo, si rubano, si rapinano, si guadagnano spacciando a propria volta.

Si tratta a questo punto di fare un passo in avanti rispetto alle Unità di strada, ormai nonostante tutto diffuse e più utili di quel che si crede. Queste almeno non hanno la pretesa di salvare nessuno, sfuggendo così alla logica illusoria ed un po’ aberrante di circoscrivere i tossicodipendenti in aree chiuse, ove trattarli veramente come scarti tossici di un qualunque ciclo di produzione. Le Unità sono lì sul terreno della sofferenza reale, concreta, e restano l’unico segno di reale controtendenza, fatto di umanità, di possibilità di convivenza con persone che hanno seri problemi di sopravvivenza - altro che capricci - di non esclusione, di quell’accoglienza minima dove non si chiede niente in cambio, credendo o forse sognando che su questa terra si possa trovare un modo di convivere lasciando spazi, relazioni e strumenti a tutti quelli che dopo l’accettazione di un primo soccorso, attraverso relazioni che non siano di scontro ma di conoscenza e comprensione reciproca, si ripropongano insieme su percorsi di crescita personale. E tutto questo con la certezza di non garantire l’uscita dallo stato di tossicodipendenza per nessuno, ma allo stesso tempo sapendo che si inizia a parlare sul serio di esseri umani, non più presi a tenaglia dal servizio pubblico o dal carcere garantito, ma che possono veramente convivere con gli altri e con i propri tempi e strumenti di realizzazione di un sé che non sia il massacro.

Le shooting room, se non rientrano in questa logica, rischiano di essere l’ennesimo luogo di non incontro e di esclusione, perché le immagino collocate lontano dalle proteste dei cittadini della zona scelta, e magari dove è addirittura più facile incontrare nei paraggi la Polizia o i Carabinieri, perché se all’Unità di strada ci si può andare senza lo stupefacente in tasca, in questi locali ha ovviamente senso entrarci se si dispone della "materia prima": occorre purtroppo ricordarsi che l’attuale normativa penalizza il consumo.

 

Sperimentare una legalizzazione, però sotto il controllo medico

 

Bisogna innanzitutto far chiarezza su un punto sostanziale: anche se il momento del consumo potrà tornare non penalizzabile, è il momento precedente che nella grande maggioranza dei casi rimane e non potrà rimanere che illegale e punibile. Sto parlando dei reati necessari a racimolare il denaro indispensabile all’acquisto dello stupefacente.

Allora occorre capire bene se questo tipo di indirizzo vuole essere un passo in graduale direzione di una legalizzazione seria, e non di una fantomatica liberalizzazione che, come in economia per le imprese riduce a rapporti di forza la reale possibilità di esistere nel mercato, per le persone che cercano di sopravvivere al proprio stato di difficoltà significa tornare al "giusto soccombere" di chi è in condizione di maggior fragilità.

Ho trovato quindi finalmente interessante, perché apre uno spazio di discussione sulla possibilità di cambiamento delle "politiche antidroga", la dichiarazione del sindaco Chiamparino, decisamente critico sulle shooting room, se queste non presuppongono la somministrazione controllata del medico per esempio dell’eroina, che significa puntare ad ipotesi di sperimentazione di una sorta di legalizzazione, che non lasci però alcuno spazio al tossicodipendente in merito all’autogestione del consumo: che tutto avvenga sotto l’indicazione ed il controllo medico.

Questo, se resta comunque solo un primo pezzo di strada per un nuovo approccio al problema, è un passaggio indispensabile per poi riempire di presa in carico, sostegno, dialogo e prospettive diverse tutto quel marasma di metodiche più o meno scientifiche, che oggi riempiono i programmi terapeutici, tanto che alcuni sembrano ormai depliant pubblicitari.

Resta veramente difficile pensare se conviene puntare ai passi cortissimi ed accontentarsi di questi luoghi di consumo protetto, stante un’opinione pubblica comunque aizzata continuamente contro i tossicodipendenti, stante un’informazione che non arriva mai al dunque e troppo spesso è intossicata da interessi politici, da paradigmi moralistici che arrivano ad approfondire lo sguardo solo fino alle vittime dei reati ed a quelle degli stupefacenti, mai alle "sofferenze deboli", quelle che non possono essere tutelate né dalle Forze dell’Ordine, né tanto meno dalla Magistratura. Oppure, come fa a modo suo Chiamparino, con quella lucidità che tiene conto della realtà nel suo insieme, che non fa il mondo diviso in buoni o cattivi secondo l’essere più o meno dipendenti da una sostanza, ma ci guarda dentro senza illusioni vane e propone, quasi in termini negoziali, un patto, che è sempre meglio del solito laisser faire, e poi galera, e trattamenti coatti o "quasi volontari" per dirla con quell’eufemismo che è tutto un programma.

Allo stesso modo l’informazione, intossicata, troppo poco coglie e divulga prese di posizione di questo tipo, che se fossero messe, questa volta sì, al fianco delle vittime dei reati connessi alle tossicodipendenze, al fianco delle morti per overdose, A.I.D.S., alle migliaia di anni scontati in carcere da persone a pezzi, ai capitali incamerati dalle narcomafie, alle infiltrazioni delle stesse nel sistema economico legale dove reinvestono i loro profitti, al conseguente inquinamento di apparati della politica necessariamente collegati, informerebbero davvero, dando una forma verosimile alle notizie ed ai commenti.

 

Quello che ha detto il sindaco Chiamparino

 

Per invio materiali e informazioni sul notiziario
Ufficio Stampa - Centro Studi di Ristretti Orizzonti
Via Citolo da Perugia n° 35 - 35138 - Padova
Tel. e fax 049.8712059 - Cell: 3490788637
E-mail: redazione@ristretti.it
 

 

 

 

 

Precedente Home Su Successiva