La lente sul caso Izzo

 

La lente del giudizio sul caso di Angelo Izzo, di Nicolò Pisanu*

 

Progetto Uomo, 31 maggio 2005

 

Nell’analisi del caso Izzo i molteplici elementi che concorrono alla concessione delle misure alternative al carcere. Di fronte al caso Izzo, alle polemiche che continuano a fare strascico e alla consueta caccia al responsabile di un dramma che si poteva evitare, accuso un profondo malessere. Ho sempre ritenuto i cori delle Prefiche barocchi e urtanti e preferisco le lucide e crude analisi alle polemiche strumentali, da qualsiasi persona o fazione provengano. Forse non tutti sanno che concessioni di misure alternative alla detenzione, come la semilibertà, non sono competenza di un giudice monocratico bensì vengono decise collegialmente in Camera di Consiglio, da giudici togati ed onorari.

Tale Collegio, a fronte di decisioni così delicate dovrebbe: esaminare tutto il fascicolo del detenuto, che presenta ogni tappa dell’iter giudiziario e penitenziario; ascoltare il parere e le argomentazioni del magistrato cui è affidato il detenuto; prendere in visione la documentazione accessoria che proviene dall’osservazione del recluso (cioè dai vari soggetti responsabili a vari livelli della custodia e del trattamento), da notizie richieste agli organi di Polizia, dai servizi sociali e da eventuali perizie, mediche, psicologiche, psichiatriche… o quant’altro richiesto dal Tribunale di Sorveglianza o prodotto dall’Avvocato del reo. In definitiva, il Collegio può disporre di un composito mosaico che, però solo nella globalità, aiuta il Collegio a prendere una decisione.

 

I danni della rete burocratica

 

Che io sappia, una perizia psicologica o psichiatrica non è mai stata l’unico elemento dirimente il dubbio sulla concessione di un beneficio, in quanto il benefico stesso ha poi delle ripercussioni legali e sociali che vanno ben oltre la mera liberazione parziale del detenuto.

Né lo psicologo o lo psichiatra detengono un potere tale, né sarebbe legittimo attribuirglielo: la dimensione diagnostica si colloca, in questo caso, dentro un’ulteriore dimensione più vasta e articolata di quella solitamente terapeutica nella quale operano tali professionisti; in ogni caso il Collegio possiede il diritto/dovere della decisione finale. In camera di Consiglio si decide e, necessariamente, su quei membri cade la responsabilità.

Dalla mia esperienza in Tribunale di Sorveglianza, ho appreso che la variabile più importante consta nella conoscenza "a monte" del "caso", cioè nella capacità di dare spessore al fascicolo che accompagna la richiesta, il quale conserva tracce importanti per capire il peso di una concessione o di un rifiuto, in quanto racchiude un profilo del reo: i possibili punti di forza per la sua riabilitazione, le debolezze di eventuali progettualità, il significato del beneficio per la persona e per la società. Laddove il primo interlocutore è il Magistrato cui è affidata la custodia del detenuto e che deve "presentare" con compiutezza e oggettività il "caso" al Collegio.

Fuori da ogni logica di giochi di ruolo, è la persona, con la sua storia, con il suo comportamento globale e intramurario, con le risorse che dimostra di possedere e utilizzare… la prima a deporre pro o contro l’istanza che ha presentato. La questione non può certo risolversi appellandosi all’applicazione del Codice e ai conteggi dei tempi di carcerazione.

Il Collegio si deve confrontare con il detenuto, il diritto, la società civile e l’onnipresenza del dubbio, secondo un crudo esame di realtà.

Nel caso di Izzo, per esempio, per quanto ci è dato di sapere, sia la carriera delinquenziale sia il curriculum carcerario sono elementi che di per sé concorrevano ad evitare la concessione di misure alternative. Vi si intravede già in superficie, una personalità "camaleontica", manipolante e approfittatrice di eventi e sponde ideologiche, fuori norma, dietro la quale si può nascondere un soggetto con personalità antisociale ad alto tasso di pericolosità.

In effetti, i permessi premio, in genere da considerarsi spie comportamentali preditorie in vista della concessione di ulteriori benefici, hanno rivelato la vera natura del soggetto: segnali che non dovevano minimamente essere sottovalutati; così come gli strumentali tentativi di "collaborazione" con la giustizia costituiscono elementi tali da far luce sul dubbio.

Possono, allora, sorgere alcuni interrogativi: che credito attribuire al processo di cambiamento della persona e che senso può assumere una legge che prevede meccanismi riabilitativi di insicura gestione? Il processo di cambiamento non è un "fungo" che nasce spontaneamente e che, comunque, necessita di condizioni climatiche e ambientali propizie non identificabili nel carcere.

 

La necessità di un’osservazione costante e accurata del reo

 

Il processo di cambiamento presuppone consapevolezza, intenzionalità, risorse personali e sociali di per sé non sempre facilmente reperibili. In personalità disturbate e delinquenziali, come appare Izzo, meramente ristrette ed estranee a contesti clinici e/o psicoterapeutici è lecito nutrire seri dubbi in merito a dinamiche di cambiamento o, quantomeno, prefigurare una processualità molto, molto lenta, da monitorare passo per passo, se non, al contrario, sospettare un adattamento posticcio, strumentale, incline a slatentizzare la vera personalità, a fronte di eventi facilitanti o scatenanti.

Esistono strumenti per indagare tali dinamiche, ben più oggettivi e certi di un colloquio, di pagine di diario o di lettere o di supposte spinte interiori alla redenzione… pur essendo questi elementi da considerare nella loro dimensione.

Esami della personalità, scanditi nel tempo e non a ridosso di sentenze o di istanze di liberazione; l’osservazione accurata trattamentale e comportamentale, mediata sia da una comunicazione educativa fra "custodi e custoditi" sia da momenti di verifica della relazione e del processo; la presenza o assenza di richieste di aiuto psicologico da parte del detenuto e le conseguenti risposte positive o negative ricevute… sono alcuni degli strumenti a disposizione della magistratura e del detenuto stesso, ai fini sia di una conoscenza approfondita del soggetto sia di evitare che il Tribunale di Sorveglianza si trovi a decidere nei confronti di un soggetto più o meno adattato al sistema afflittivo.

Sul fronte peritale, poi, un’eventuale perizia, sarà corroborata da tali strumenti oggettivi oltre che da un inquadramento globale della personalità del detenuto e della sua storia, in chiave diagnostica e prognostica, e con doppio parere, sia psicologico che psichiatrico, per completezza clinica.

Di conseguenza, la concessione della semilibertà deve essere frutto, soprattutto a fronte di crimini efferati commessi dal richiedente, di una conoscenza accurata del detenuto e della presenza o assenza di azioni riparative agite dallo stesso, quali ulteriori segnali di un processo di cambiamento in atto. Va da sé che tale concessione è impensabile e pericolosa in tempi rapidi, anche se nei limiti previsti dalla legge, o a seguito di éscamotages giuridici o di trasferimenti da un Tribunale di Sorveglianza ad un altro… in quanto mancano quei presupposti di "conoscenza" e "frequentazione" del reo, di cui sopra.

Non si tratta, infatti, di merce da sdoganare nel modo più rapido! Certo, si esigono professionisti preparati: psicologi, psichiatri, assistenti sociali, educatori, medici… adusi alla devianza e/o alle problematiche carcerarie, liberi ideologicamente, accreditati dagli studi e nel contempo dall’esperienza e non da pedigree corporativi o accademici.

Lo stesso vale, ad intra, per il circuito carcerario che necessita di maggiore personale e, a tutti i livelli, più qualificato. Lo stesso dicasi anche per i magistrati laddove il Tribunale di Sorveglianza accusa, talvolta, personale insufficiente e con carichi di lavoro sproporzionati alle attenzioni che si dovrebbero avere in ossequio alla compiutezza del ruolo.

 

Il distinguo nelle misure alternative al carcere

 

Ciò che sovente manca non è la legge buona e giusta, in quanto ogni legge è di per sé perfettibile e risente degli uomini, dei tempi e della cultura che l’hanno determinata. La latitanza è data dagli strumenti applicativi: uomini, tempi, strutture, norme, risorse… canali indispensabili per rendere utile e applicabile una legge. In conclusione, ritengo che le misure alternative alla detenzione posseggano in nuce caratteristiche positive, a valenza rieducativa e non solo come strumento di sfollamento delle carceri, a patto che vengano unicamente alimentate dalla spirito sia di restituire alla società persone che, superato l’errore e il crogiuolo dell’afflizione, possano ricomporsi nel tessuto sociale, "forti" della loro esperienza, sia di tutelare la società nella delicata opera di ricomposizione. Tali misure non sono da considerarsi comunque obbliganti, né rappresentano la panacea per ogni uomo e per ogni colpa. Come il farmaco, che può curare o uccidere, vanno tarate secondo l’alchimia profonda della persona e del tessuto sociale onde evitare setticemie o rigetti; inoltre, un margine di errore dovrà essere sempre considerato. L’uomo è un essere libero, geneticamente incompatibile con qualsiasi forma di clausura imposta, soprattutto con la detenzione. è importante, perciò, che la personale volontà ed espressione di libertà non si riveli incompatibile per la società o con la personalità stessa dell’uomo. Per cui, già in partenza e in ossequio a quanto previsto dalla legge, l’apparato giudiziario e detentivo devono porre fra i loro obiettivi la "rieducazione" del condannato, senza limitare, di conseguenza, l’impiego delle persone e delle risorse in un’opera di mero contenimento, scevra da una precomprensione di un progetto, nel quale il legislatore va oltre alla consumazione afflittiva delle pena come unico approdo, poiché le contraddizioni producono i risultati che sappiamo.

 

* Nicolò Pisanu è pedagogista, psicologo, psicoterapeuta, Direttore dell’Istituto di ricerca e formazione "Progetto Uomo" della Federazione Italiana Comunità terapeutiche.

 

 

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