L'Opinione dei detenuti

 

La disperazione del primo impatto con la galera

al Circondariale di Padova

 

di Paolo Pasimeni - Redazione di Ristretti Orizzonti

 

La mia esperienza con il carcere ha avuto inizio con il mio ingresso nella Casa Circondariale "Due Palazzi" di Padova nel 2001. Non ero mai stato in carcere prima d’allora e mai avrei potuto pensare di entrarvi, vista la mia totale estraneità da qualsiasi tipo di delinquenza. Mi ricordo il mio ingresso nell’istituto come l’ingresso in un mondo parallelo fatto da cancelli e blindi al posto delle porte, e sbarre al posto delle persiane. Mi ritrovai in una cella angusta con i sanitari a vista, a meno di un metro dal letto che, sporgendo, impediva l’apertura completa della finestra. Era una delle celle dell’isolamento in cui fui segregato per alcuni giorni per ordine del giudice delle indagini preliminari.

Dopo alcuni giorni, iniziai ad andare all’"aria": un corridoio largo circa due metri e mezzo e lungo una ventina, circondato da cemento e filo spinato. Il regime di alta sorveglianza, a cui ero stato sottoposto in via precauzionale, cessò nel giro di meno di una settimana e venni "declassato" a detenuto comune. Purtroppo però, a causa del sovraffollamento, venni trattenuto nel reparto isolamento, nonostante la mia pericolosità sociale fosse stata dichiarata scemata e nonostante l’ordinanza emessa da parte del giudice. Nel frattempo tale reparto iniziò a popolarsi di altri detenuti, tanto da riempire le celle d’isolamento con tre detenuti per cella, cosa, questa, che mi pare entri in conflitto con il significato della parola isolamento, a rigor di logica. Capii però ben presto che nel mondo in cui ero entrato di logica ve ne fosse ben poca. L’acqua che fuoriusciva dal rubinetto era limacciosa, i sanitari erano fatiscenti e, per di più, non si potevano avere in dotazione i detergenti, a causa del reparto in cui illogicamente eravamo costretti a stare. Ci si poteva fare una doccia una volta alla settimana, perché l’intero braccio era pressoché sprovvisto di docce. Ben presto alcune persone detenute presso le celle contigue alla mia iniziarono a protestare e non mancarono atti di autolesionismo. Per tranquillizzare gli animi, mi ricordo che venne il comandante e ci disse che nel giro di pochi giorni saremmo stati collocati presso il reparto dei comuni.

 

Otto compressi in una cella da quattro

 

Passarono diversi giorni prima che ciò si avverasse. Entrai, quindi, nella cella 25 del secondo blocco della Casa Circondariale e all’inizio mi sentii preso dall’angoscia, poiché mi ritrovai in mezzo ad altre otto persone in uno spazio progettato per contenerne quattro. Ero il più giovane e venni accolto positivamente da tutti i componenti della cella. Nonostante la correttezza manifestata da parte di tutti, stare in nove in quella stanza così piccola era molto difficile, la convivenza forzata fra persone estranee e con problemi differenti come la tossicodipendenza e/o problemi psichici era spesso causa di discussioni animate. C’é da dire che, però, io fui fortunato a capitare in quella cella, poiché la maggior parte erano delle singole, come quelle dell’isolamento, in cui erano stipati tre detenuti che, per tutto l’arco della carcerazione, dovevano condividere gli stessi cinque-sei metri quadrati con annessi sanitari a vista, tavolino e 2 sgabelli. In effetti, il terzo sgabello non aveva senso tenerlo in quelle celle, tre detenuti in quella cella in piedi non ci potevano fisicamente stare, uno, almeno, doveva stare sempre seduto o disteso sul letto!

Gli spazi ricreativi erano relegati ad un’ora e mezza di sala ricreativa quotidiana in cui circa cinquanta persone si trovavano a dividere un tavolo da ping-pong e un calcio balilla e questo era un altro fattore che contribuiva spesso a generare ulteriori tensioni.

Nemmeno le tre ore di passeggi quotidiane erano tanto meglio. Le arie erano due, poiché le sezioni comuni erano due. Una di queste era un campo da calcio non regolamentare colmo di buche e completamente sprovvisto di tettoia sotto la quale ripararsi in caso di mal tempo, per cui in tali occasioni l’aria era inagibile per gran parte della cattiva stagione. L’altro passeggio era completamente in cemento, grande più o meno quanto un piccolo campo da pallacanestro. Va detto, inoltre, che entrambe le arie erano sprovviste di un bagno e, quindi, si doveva costantemente fare attenzione a non sporcarsi con i "residui organici" altrui. Le condizioni igieniche all’interno dell’istituto, poi, non erano tanto migliori, aree come la biblioteca erano pressoché inagibili, c’erano nidi di uccelli al suo interno per non parlare dei cumuli di polvere che sovrastavano i libri. Tale area era chiusa, perché il tragitto che portava dalla rotonda alla biblioteca era pericolante, c’erano pezzi di soffitto sul pavimento e le transenne piazzate per i lavori di ristrutturazione rimasero lì per tutto il periodo trascorso da me in quell’istituto e non so dire da quanto tempo lì si trovassero.

Nel 2004 feci ritorno nella Casa Circondariale di Padova per poi essere trasferito dopo pochi giorni alla Casa di Reclusione. Trovai le condizioni igieniche di quell’istituto ancora peggiorate a causa del numero assurdo di persone lì ristrette, ancora maggiore rispetto al 2001. 280 persone stipate in loculi la cui capienza complessiva è di 98 posti! Dalla cucina, chiaramente sottodimensionata rispetto al servizio che era tenuta a svolgere, uscivano pietanze improponibili. La sporcizia, in quella promiscuità, era tanta lungo i corridoi e nella sala ricreativa. E vi ricordate la biblioteca chiusa per l’inagibilità del corridoio con le annesse transenne per i lavori di ristrutturazione? Ebbene. erano ancora lì… dopo quasi 2 anni da quando io ero uscito. Nemmeno i cancelli automatici funzionavano più, ogni volta che un detenuto doveva recarsi in infermeria o nell’ufficio matricola un agente doveva armarsi di chiavi e pazienza per aprirgli il cancello.

L’impressione che ho avuto dello stato in cui versa la Casa Circondariale di Padova è quella di una struttura al collasso, in cui nessun parametro igienico-sanitario viene rispettato a scapito della salute dei detenuti, ma anche degli operatori. Mancano i farmaci a causa del sovraffollamento, persino le aspirine sono lì un lusso e anche un semplice mal di testa può essere un problema serio da risolvere. Una sola psicologa che opera per la cura e osservazione dei detenuti non tossicodipendenti.

Mi chiedo come si possa accettare che in Italia esistano al giorno d’oggi strutture così fatiscenti e disumanamente sovraffollate, chi possa accettare l’illogicità della privazione della dignità a soggetti che andrebbero rieducati, chi si arroghi il diritto di compiere questa nefandezza. Adoro i cani, ma ho smesso di indignarmi d’innanzi alle loro condizioni di vita nei canili-lager da quando ho visto come si vive in certe carceri del nostro paese.

Infine, oltre al danno c’è pure la beffa: di fronte alla struttura in questione è sorta la nuova Casa Circondariale di Padova, ultimata da anni e mai aperta, la cui capienza non tiene assolutamente conto della effettiva esigenza di posti necessari a contenere lo stesso numero di detenuti attualmente ristretti presso il vecchio complesso. Dalla padella alla brace, insomma. Inutile pensare nemmeno che vengano mantenute in funzione entrambe le strutture per far fronte all’emergenza sovraffollamento, poiché è insufficiente il numero di agenti della polizia penitenziaria il cui sindacato da anni denuncia la carenza di personale. Mi rifiuto di pensare che non vi sia una soluzione, mi rifiuto di pensare che questi problemi non vengano affrontati con la dovuta serietà dalle autorità competenti, perché intanto c’è gente che soffre e che, purtroppo, muore stritolata fra i denti di un meccanismo disumano, prevaricatore di ogni diritto e che non conosce l’innegabilità della dignità di ogni uomo, colpevole o innocente che sia.

 

 

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