L'opinione dei detenuti

 

L'amore congelato dalla galera

A cura della Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 3 aprile 2006

 

Persone "regolari", che probabilmente mai avevano preso neppure una multa, si ritrovano a doversi confrontare, per amore, con la macchina giudiziaria, con le sue regole, con il carcere: sono i parenti dei detenuti. Se l’affetto non è più che stabile e forte, non sopravvive alla galera, con tutte le conseguenze che ciò comporta. Queste storie di famiglie spezzate, costrette a tristi incontri nelle sale colloqui delle galere, e di figli che devono vedere i loro genitori sotto stretto controllo e senza la possibilità di un abbraccio vero, le raccontano tre detenuti con pene lunghe, che si trovano ogni giorno a lottare per preservare i loro affetti, e perché ai loro figli sia riconosciuto il diritto di avere comunque un padre e una madre, e di incontrarli nelle condizioni meno disumane possibile.

 

L’amore congelato dalla galera

 

Finire in carcere non vuol dire soltanto perdere la libertà, ma vedere sconvolta la propria vita sociale e sentimentale: chi è sposato, o anche solo fidanzato, va incontro a sofferenze raddoppiate perché anche la sua donna subisce disagi e privazioni pur non avendo alcuna colpa.

Quello che è capitato a me non è niente di straordinario; è stata un’esperienza simile a quella di tanti altri compagni di pena. Quando sono stato arrestato ero fidanzato e la relazione è proseguita anche dopo, per circa un anno. Nei primi tempi eravamo entrambi sotto shock e non ci rendevamo conto di dover impostare la nostra vita di coppia in modo completamente diverso, se volevamo avere una qualche probabilità di farla continuare.

E’ risaputo che ti rendi conto dell’importanza di una persona soprattutto quando viene a mancare. Questo non è del tutto spiacevole, finché hai modo di colmare la mancanza; anzi, proprio sulla alternanza tra il desiderio e la sua soddisfazione si fondano le relazioni più durature. Ma quando sei lontano dalla tua donna aspetti di poterle parlare, di vederla, toccarla, sentire la sua voce, senza alcuna angoscia. La lontananza "da carcere" è un’altra cosa.

Appena ho recuperato un po’ di lucidità mi sono informato sulla procedura da seguire perché lei potesse venire a trovarmi. Il giorno del colloquio ero pronto con ore di anticipo e, quando mi hanno avvertito di scendere in parlatorio, ho cominciato a tremare per l’ansia.

Il ricordo è ancora chiarissimo: noi detenuti che entriamo nella sala, i visitatori arrivano quasi subito, pure loro con i volti stravolti dalla tensione, individuano il parente detenuto e vanno subito da lui. Per ultima entra lei, esitante; mi vede, si avvicina, scoppia a piangere. Voglio fare l’uomo e cerco di abbracciarla sporgendomi sopra il bancone; l’idea era quella di consolarla ma il risultato è disastroso: i suoi singhiozzi mi contagiano e piango pure io, come un agnello da latte.

L’Agente batte le nocche sul vetro divisorio richiamandoci all’ordine e noi, ubbidienti, ci sediamo tenendo le mani allacciate sull’acciaio gelido del bancone. Le mani calde e il metallo freddo, i sorrisi stentati che ricacciano indietro le lacrime... vogliamo dire tante cose ma le parole non escono.

Lei riesce a raccontare come ha vissuto la mia incarcerazione, la solitudine, il pregiudizio della gente; promette che non mi lascerà mai. Vuole sapere come passo le giornate... come faccio a raccontarle il tempo passato a fare niente?

Improvvisa suona una campanella, sembra quella che chiama gli studenti alle lezioni. il colloquio è finito. Ancora un minuto, forse meno, e ci dobbiamo lasciare. Un bacio furtivo e triste e gli ultimi saluti.

 

Francesco M.

 

Che cosa sopravvive, dei legami d’amore di una persona, al carcere e ai suoi disastri?

 

Per i miei cari, l’aver condiviso con me venti anni di galera vuol dire aver "girato" la penisola dal sud (Favignana, Palermo, Trapani, Potenza) sino all’estremo nord, lunghi e massacranti viaggi per 60 minuti di colloquio, spesso con un marmo gelido come divisorio e con tutte le frustrazioni che questo comporta.

E poi l’amarezza che resta quando senti: "Forza andiamo !...il colloquio è finito... !".

L’esperienza del carcere si abbatte come un ciclone su chi vi finisce dentro, e su tutti quelli che sono a lui legati affettivamente. Colpevole o innocente, non ha importanza. Si è tutti ugualmente sottoposti alle stesse pressioni e meccanismi. E lo sono anche i nostri famigliari, che pagano un prezzo molto elevato.

Ma cosa si riesce a salvare davvero dei rapporti affettivi stando in carcere?

Penso che molto dipenda, naturalmente, dalla lunghezza della pena. I primi anni, bene o male, resta quasi tutto immutato, come se dovessi uscire da un giorno all’altro. I problemi nascono quando la pena è davvero molto lunga. Anche in questo caso però c’è da distinguere tra affetti ed affetti.

Amici, fidanzata, buoni conoscenti, via via si perdono per strada… in maniera "naturale" perché la vita continua. Gli amici di gioventù diventano mariti, padri, e le responsabilità li portano a dimenticare, o perlomeno a mettere in… terzo piano l’amicizia con uno sfigato che si trova in galera da anni. La mia ragazza è durata "forse" sei mesi ... ma davanti alla prospettiva di attendere anni e anni, non sono molte le donne o gli uomini che ti aspettano. Un discorso a parte penso che si possa fare solo se ci sono figli e si è sposati da tempo.

Sono convinto che uno raccoglie sempre quello che semina, ed anche negli affetti è la stessa cosa, se uno fuori trascura la propria donna, poi penso abbia poco da recriminare se lei sceglie un’altra strada, una volta che lui finisce dentro.

Per il padre e la madre invece puoi essere il peggiore criminale, ma non ti lasciano mai solo. Personalmente alla mia famiglia sono grato per quanto ha voluto e saputo fare. Alcuni anni fa chiesi ai miei famigliari di raccontare come avevano vissuto il mio arresto. Ci fu un rifiuto quasi totale ad affrontare questo tema, a parte due mie sorelle e mia madre che risposero, pur ammettendo fastidio nel toccare un tasto così delicato e che ha provocato troppo dolore. Quasi che non parlarne esorcizzasse quel dolore trascorso. Ho rispettato il loro sentimento ed il loro pudore e lo capisco a pieno. Certamente sono ferite che non si cicatrizzano facilmente.

 

Nicola Sansonna

 

Piccoli spazi per salvare i rapporti fra le persone recluse ed i loro famigliari

 

Basterebbe poco per salvare gli affetti di chi è detenuto: basterebbe che, all’interno delle carceri, chi non può uscire in permesso potesse anche semplicemente abbracciare in maniera più intima un figlio, la moglie o un genitore, o avesse la possibilità di effettuare i "colloqui all’aria aperta".

A qualcuno, soprattutto a chi è da poco in carcere, e ha la previsione di rimanervi poco tempo, questa possibilità non sembrerebbe gran cosa, ma sono certo che la maggioranza dei "ristretti" accoglierebbe con entusiasmo l’idea di vedere finalmente impiegata per gli incontri con i famigliari l’area verde spesso inutilizzata.

Personalmente il solo pensiero di poter trascorrere qualche ora in un giardino con mia moglie e le mie figlie mi ha riportato indietro di molti anni. Quando sono stato arrestato le mie figlie avevano tre e sei anni, ora sono molto cambiate, soprattutto fisicamente: la più piccola era grassottella, con i capelli corti ed i dentini storti per il ciuccio che le aveva deformato il palato; ora è un figurino, i capelli lunghi ed i denti quasi perfetti; la più grande è una splendida signorina, molto sensibile, ma con un carattere spigoloso e ribelle che denota in maniera esasperata tutto il suo disagio interiore. Ha assorbito in maniera enormemente traumatica tutta la mia vicenda giudiziaria, ne mostra chiaramente le angosce e le paure, non accetta il distacco di quel cordone ombelicale virtuale che, fortunatamente, ci tiene uniti nonostante tutto. Si confida molto con me, cerca il mio appoggio e mi scrive lettere bellissime, per le quali pretende risposte riservate, che non devono essere lette da nessun altro componente della famiglia.

Quando sono stato condannato all’ergastolo ha quasi fatto finta di nulla, salvo aggirare l’ostacolo chiedendomi se il mio coimputato, al quale è stata inflitta la medesima pena, sarebbe dovuto morire in carcere. La domanda diretta, probabilmente, sarebbe stata troppo dolorosa per entrambi.

Ecco allora perché sarebbe importante effettuare colloqui in maniera meno traumatica possibile, così da non creare sofferenze ed angosce ai propri cari. È per questo che speriamo che prima o poi venga approvata la proposta di legge che prevede le "stanze dell’affettività", quelle che i vari organi di informazione hanno ribattezzato volgarmente le "stanze del sesso", luoghi nei quali, invece, si potrebbe semplicemente abbracciare in maniera più intima e naturale un figlio, una moglie o un genitore, con enorme beneficio psicofisico di tutti. Linfa vitale che consentirebbe di tenere vivo il rapporto che, con il passare degli anni e con le conseguenti difficoltà, può facilmente arrivare al distacco.

 

Marino Occhipinti

 

 

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