L'opinione dei detenuti

 

Il coraggio della pietà per un detenuto suicida

a cura della Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Si è tolto la vita nella Casa Circondariale di Padova Artur Lleshi, l’albanese accusato della rapina e del duplice omicidio di Gorgo al Monticano. Parlarne è particolarmente difficile: perché è il suicidio di una persona etichettata come "mostro", e perché qualcuno pensa che la sua sia stata una specie di "fuga" per sottrarsi al peso della pena. Eppure, forse bisogna avere il coraggio della pietà, e non dimenticarsi mai che le persone restano persone sempre, anche se con addosso il peso di un reato feroce. Di questo abbiamo provato a discutere, perché l’esperienza di chi ha conosciuto da vicino la violenza possa aiutare a uscire da una logica di odio che genera altro odio.

 

Ci si può suicidare perché spaventati dalla propria coscienza

 

Dopo il suicidio del ragazzo albanese non mi meraviglia tanto la reazione del figlio delle vittime che accusa quella persona di essere "sfuggita" alla pena suicidandosi, perché io credo che le vittime di reati così gravi abbiano il diritto di dire qualsiasi cosa; non mi sorprende la reazione dell'opinione pubblica oppure i tanti commenti sentiti per i telegiornali; quello che di più mi sorprende è la reazione di alcuni detenuti, che alla notizia del suicidio dicevano: "Ma sì, era ora! anzi lo doveva fare prima …". Riesco a capire commenti simili provenire da persone libere, ma quelle dei detenuti mi sembrano affermazioni pesanti, soprattutto perché siamo noi i primi ad aver sbagliato e quindi dovremmo essere gli ultimi a giudicare, ma soprattutto a giudicare una persona che è appena morta.

Io qui dentro mi guardo intorno e vedo persone condannate come me per reati gravissimi, ma non riesco a giudicarle. Se mi guardo intorno non riesco a dire di nessuno di loro "Quello è un mostro", forse perché conosco le persone, forse perché ci si frequenta, forse là fuori le persone sono autorizzate a giudicare, ma qui dentro credo che sia una cosa sbagliata, anche perché ognuno di noi ha una propria storia diversa.

Le persone fuori ascoltano i telegiornali, si fanno una loro opinione attraverso i media, e quindi danno un giudizio a senso unico, mentre noi dentro in carcere ci conosciamo e vediamo le nostre storie, quanto siano particolari e difficili, e forse dobbiamo essere più consapevoli che la vita è complessa e che non si può giudicare da una unica azione.

Se poi si vuole discutere dei motivi che questa persona poteva aver avuto per suicidarsi, io credo che la cosa sia troppo soggettiva, nel senso che ognuno di noi vede il proprio reato in modo diverso. C’è chi lo giustifica e trova delle scusanti, magari ritenendo di aver ucciso per vendicarsi di un torto grave subito. Poi c'è chi non riesce neppure a comprendere la propria azione, non sa spiegarsi come ha fatto ad arrivare a un gesto così violento, e c'è chi trova difficile confrontarsi con quello che ha fatto, e io credo che sia questo il caso della persona suicidata. Allora io credo che lui ha deciso di morire per sparire, per sfuggire, ma non per sfuggire alla pena, bensì per sfuggire alla difficoltà di comprendere il proprio gesto. La mia impressione è che questa persona si sia uccisa non perché spaventata dal carcere, ma perché spaventata dalla propria coscienza. Io ho sempre sostenuto che il peso più grave non è quello del carcere, ma quello dei rimorsi, del convivere con le proprie responsabilità.

 

Marino Occhipinti

 

Credo che ogni vita umana meriti rispetto e dolore

 

Io sono un detenuto albanese condannato per omicidio. Quando sento parlare di omicidi più o meno feroci, penso che non ci possano essere motivazioni per giustificare un assassinio. Io mi sono convinto che tutti gli omicidi sono uguali, anche se cambiano le modalità, e ci sono omicidi che sembrano forse meno orribili. Ne abbiamo parlato anche in sezione tra noi detenuti, quando è avvenuto quel crimine vicino a Treviso, e tutti lo hanno criticato subito dicendo che era un atto che non aveva alcun tipo di giustificazione. Ma adesso, che abbiamo sentito che si è suicidato il colpevole, ne abbiamo parlato ancora e ci siamo ugualmente dispiaciuti. Anche se si tratta di un omicida spietato siamo rimasti male nel sapere che si è tolto la vita perché abbiamo comunque pensato che si trattava di un ragazzo giovane che poteva pentirsi di quello che ha fatto e cercare di costruire una vita migliore, invece adesso devono portare il lutto non solo i figli delle sue vittime ma anche sua madre. È evidente che questa persona non ha avuto il coraggio di affrontare una condanna, la galera e l'opinione pubblica e di reggere il peso della propria coscienza, e quindi ha deciso di togliersi la vita, facendola finita una volta per tutte. E questo è triste.

Devo comunque esprimere anche il mio disappunto nei confronti del modo in cui si è comportato il figlio delle vittime. Forse in quelle condizioni ogni reazione è giustificata, però mi sarebbe piaciuto che quella persona desse prova di voler bene ai propri genitori in modo diverso, dimostrando meno odio. Noi siamo detenuti, non conoscevamo i suoi genitori, siamo dei cattivi eppure abbiamo provato compassione nei confronti di due sconosciuti perché erano due vite umane stroncate barbaramente. Ma in qualche modo ci dispiace anche di questo altro ragazzo che si è suicidato. Io credo che ogni vita umana meriti rispetto, e anche la morte deve essere rispettata, non cambia che a morire sia una vittima innocente o il carnefice, abbiamo comunque a che fare con una vita umana persa per sempre.

Non la pensavo così fino a poco tempo fa, ho sempre visto la vita e la morte con menefreghismo, con una specie di distanza, sono in carcere per un duplice omicidio e devo dire che per molti anni non ho mai riflettuto veramente su quello che ho fatto, sulla mia vita e sulla vita delle persone che ho ucciso, ma da quando mi sono trovato qui in questa redazione costretto a discutere, a confrontarmi con altre persone, ho cominciato a ragionarci su e sono arrivato a capire che la violenza è sempre orribile perché fa danni irreparabili.

 

Dritan I.

 

Noi delinquenti dell’Est

 

Se si vuole combattere la delinquenza che arriva dai paesi dell’Est, bisogna tenere sempre in mente che quelle persone, se non vedranno cambiare le condizioni in cui vivono, continueranno a scappare dal proprio paese e venire in Italia, anche vivendo da clandestini.

Io sono albanese come il ragazzo che si è appena ucciso nella Casa circondariale di Padova, schiacciato dal peso di un reato feroce. Nel 1995, a diciannove anni, sono emigrato in Italia seguendo alcuni miei coetanei che scappavano non solo perché convinti che qui ci fosse una gigantesca Hollywood, ma soprattutto perché, in quei primi anni di transizione da un regime comunista a un sistema liberista, la rapida privatizzazione aveva portato al licenziamento dei nostri genitori, che non riuscivano più a garantirci nemmeno i pasti quotidiani. Ma oggi la situazione non è tanto diversa nel mio Paese.

Io non credo che la criminalità straniera sia più crudele di quella italiana, però ho sempre saputo che è capace di fare più danni, perché il delinquente italiano è un cacciatore molto attento, nel senso che quando ha svaligiato un appartamento, o fatto una rapina, poi torna a casa e rimane con i propri figli. In questi anni ho conosciuto parecchi criminali italiani e dai loro racconti di malavita ho capito che loro spesso hanno una vita da criminali, ma poi conducono anche una seconda vita "regolare", senza mai eccedere. Mentre gli stranieri nella maggior parte dei casi non hanno un ambito famigliare che li tenga sotto controllo, obbligando ad una facciata di normalità anche il più grande delinquente, e hanno invece una specie di voracità che ha origine anche nella storia dei loro Paesi.

Il modello economico assunto oggi dall’Albania, nell’illusione di una rapidissima transizione all’economia di mercato, ha portato al disfacimento dell’apparato statale, alla distruzione della coesione sociale, alla perdita di ogni senso di legalità da parte di molti cittadini, che all’improvviso hanno perso anche i diritti precedentemente garantiti. E l’occidente ha le sue responsabilità per questo disastro, e se oggi deve affrontare la pazzia della criminalità dell’Est, non sta facendo altro che raccogliere i frutti dell’albero delle menzogne che ha piantato per convincere chi viveva nei paesi socialisti che solo il liberismo portava benessere. Invece, la democrazia e il liberismo imposti a tappe forzate hanno causato una massiccia disoccupazione e una emigrazione di massa. E oggi nessuno sa più cosa dire alle persone che vengono qui sicure di trovare il paradiso proiettato nel loro immaginario dalla televisione, fatto di ville con piscina, di macchine costose e di belle donne, nessuno sa come far capire agli immigrati confusi che qui si è liberi di sperare, di parlare, ma per mangiare e per avere una casa ci vogliono i soldi.

 

Elton Kalica

 

Per invio materiali e informazioni sul notiziario
Ufficio Stampa - Centro Studi di Ristretti Orizzonti
Via Citolo da Perugia n° 35 - 35138 - Padova
Tel. e fax 049.8712059 - Cell: 3490788637
E-mail: redazione@ristretti.it
 

 

 

 

 

Precedente Home Su Successiva