L'opinione dei detenuti

 

Hanno chiuso a chiave i loro corpi ma non le loro intelligenze

a cura della Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 29 giugno 2009

 

Per tanti ragazzi, magari tentati da comportamenti a rischio o piccole trasgressioni, entrare in carcere e sentir raccontare dai detenuti le conseguenze di quei comportamenti è un’esperienza davvero particolare. Noi abbiamo più volte parlato su questo giornale del progetto, che coinvolge i detenuti in una attività di prevenzione con le scuole: molte classi di istituti di Padova e provincia lo ritengono ormai da anni un momento importante della loro attività. Ma questa volta vogliamo lasciare questo spazio interamente a una studentessa, che forse, con le sue riflessioni, può convincere anche gli adulti, insegnanti o genitori, più titubanti, della straordinaria validità di questa esperienza.

 

Quando si perde il contatto fraterno

 

Entri in carcere e sembra tutto normale. All’ingresso ci sono dei quadri realizzati dai detenuti che hanno un effetto rassicurante. Sei tranquillo, era come te l’aspettavi, dopo tutti gli incontri fatti a scuola. Altro che le scene dei film. Poi si passa davanti alle cancellate che chiudono l’accesso alle palazzine delle celle e lì gruppi di carcerati si affollano, ti osservano. Non si può non avere una sensazione di disagio nel vedere quei volti. Non è solo per paura, ma quasi per vergogna. Vergogna di osservarli ed essere osservati come si osservano gli animali rari allo zoo. Allora si abbassa lo sguardo sulle proprie scarpe e si va avanti, ma l’imbarazzo non sparisce. Ho provato la stessa sensazione di quando, in Brasile, da piccola, vedevo i bambini delle favelas che guardavano con desiderio i miei giochi e io mi sentivo in imbarazzo ad averli, non lo trovavo giusto.

Allo stesso modo mi sembrava che i carcerati chiedessero un po’ della mia libertà e mi sentivo inadeguata a "sfoggiare il mio status" di adolescente libera e fortunata. Arriviamo nella stanza adibita all’incontro. Dopo quelle immagini divergenti ero un po’ in dubbio: Chi mi troverò davanti? Facce rassicuranti o "brutti ceffi" ammanettati, a metà tra la disperazione e la rabbia? Ovviamente nessuna delle due cose. Entriamo nella sala, davanti a noi l’incognita di una fila di sconosciuti. Si tratta di persone che non reagiscono alla nostra presenza scrutandoci intensamente in modo impersonale, ma di volti rassicuranti, persone curate, dai modi pacati e gentili. Noto, in particolare, un ragazzo giovane, seduto tra gli altri. Non ho mai pensato che il carcere fosse un luogo pieno di gente sporca e rozza, ma quel ragazzo così giovane, cosi curato, stride troppo con la mia idea di carcerato. Come hai fatto a finire in questa situazione?, pensavo.

Per non essere riuscito ad adattare il suo tenore di vita a un periodo di ristrettezze economiche e non aver cercato soluzioni "lecite", si è spinto progressivamente verso il baratro, culminato con un omicidio. Sentirlo raccontare di come aveva compromesso il suo futuro mi ha fatto comprendere come sia vero che nessuno è immune dal rischio di commettere errori irreparabili. Dai racconti sono emerse vite difficili, che sembravano quasi predisporre alla devianza e vite normali, in tutto simili alle nostre, talvolta apparentemente lontane dalla delinquenza, come nel caso del poliziotto della "Uno bianca".

Erano passati solo dieci minuti dal nostro ingresso in quel girone di vite spezzate e già più volte ero stata costretta a sentire tutta la debolezza delle "categorie" mentali delle quali comunque ero costretta a servirmi, pur cambiandole di continuo, per cercare di capire. E in fretta, perché non eravamo spettatori ma coprotagonisti della situazione.

Ma come dimenticare il dolore delle famiglie delle vittime? Come gestire, in quel momento, la consolidata avversione per quanti si macchiano di delitti atroci, costruita in tanti anni di ascolto di notizie di cronaca che mi lasciavano sgomenta? Ora che me li trovavo di fronte, i colpevoli assomigliavano alle vittime. Eppure, come dimenticare il dolore delle famiglie delle vittime, innocenti condannati in via definitiva a soffrire? Partecipare alla sofferenza dei reclusi sembrava togliere loro qualcosa, mancare loro di rispetto.

La mente rimbalza cercando di stare dalla parte giusta, di scrivere la graduatoria dei dolori, senza trovare una risposta, come spesso succede quando è sbagliata la domanda. Accogliere un dolore, accompagnarne l’evoluzione verso un nuovo progetto, riconoscere l’umanità che ci accomuna tutti non ha nulla a che vedere con la necessità di giudicare sulla base delle responsabilità personali e oggettive. Si tratta di momenti e di funzioni diverse: la giustizia è necessaria alla convivenza civile, ma non si può limitarsi a giudicare e "gettare la chiave", perché in ogni uomo rimane l’urgenza di un progetto.

In realtà sono tutti pensieri che in carcere mi frullano confusi e che solo successivamente riesco a mettere un po’ in ordine. Le nostre domande servono a sciogliere il ghiaccio e i carcerati ci vengono incontro con racconti intensi. Sapevo che si può provare dolore, ora so che si può anche vederlo, ascoltarlo, assorbirne l’oppressione come in un contagio. Più raccontano, più mi sembra indicibile quello che leggo nei loro occhi.

Chi ha riportato una condanna pesante rimane per anni annichilito nel suo guscio; non si tratta solo della perdita della loro libertà, ma anche dell’incontenibile senso di colpa nei confronti dei parenti delle vittime e per la condanna che indirettamente subiscono anche i loro familiari: "...in fondo io me la sono cercata. Loro invece non hanno fatto nulla, ma proprio nulla, per meritarsi i mille disagi materiali e morali che gli ho procurato". Bimbi piccolissimi che pagano un distacco traumatico dal genitore con gravi problemi psicologici, adolescenti che non escono di casa per la vergogna e per la meschina propensione sociale all’etichettatura. Molte condanne accessorie si aggiungono quindi a quella principale, e si estendono, per chi esce, al difficile reinserimento riservato agli ex detenuti.

Consideriamo immorale il comportamento di un delinquente, ma dovremmo riflettere sul giudizio che merita una società che ne condanna i figli come se fossero complici anziché vittime, educata da mass media che ospitano sfibranti dibattiti su temi a mio avviso molto meno rilevanti. Anche la giustizia porta con sé molte piccole ingiustizie. Sentiamo di essere anche noi una palestra nel loro percorso di consapevolezza Mi colpisce la tensione progettuale che esprimono i carcerati, una tensione che sembra non risentire della mancanza di libertà, anzi, sembra reagire a questo handicap ricercando spazi di ri-costruzione personale. Anche la mancanza di libertà, vista da vicino, contiene margini di libertà che possono essere spesi e non sprecati. Penso alla loro energia, alla voglia di fare che esprimono, e penso all’indolenza e alla passività che a volte stende noi giovani al solo pensiero di impegnarci per un obiettivo.

E se fossimo anche noi prigionieri di sbarre invisibili? Per ciascuno di loro il lavoro è importantissimo, così come i contatti con l’esterno, perché "una permanenza dietro le sbarre può trasformarsi in un’opportunità di crescita umana e culturale se non si consente all’istituzione carcere di spegnerti, oltreché di punirti".

Le confidenze dei carcerati si susseguono con una strana naturalezza, dato l’impressionante contenuto: sentiamo di essere anche noi una palestra nel loro percorso di consapevolezza. Mi impressiona sentire ripetere tante volte, da parte di molti di loro, che per evitare il peggio sarebbe bastato chiedere aiuto, superando l’orgoglio, abbandonando la ricerca di soluzioni facili che si sarebbero drammaticamente rivelate tutt’altro. Mi fa pensare che qualsiasi uomo rischia di smarrirsi se perde il contatto fraterno con i suoi simili: da quel contatto deriva il suo essere sociale, la sua identità, la sua salvezza.

Nei giorni seguenti, da internet ho letto diversi numeri di "Ristretti Orizzonti", che prima avevo solo sbirciato. Per capire di più. Mi fa rabbrividire il pensiero che nelle nostre carceri, affollate da migliaia di detenuti, si consumino esistenze che pur nella detenzione potrebbero dare un contributo per una società migliore, "cittadini di un mondo che ha chiuso a chiave i loro corpi, è vero, ma non le loro intelligenze e tanto meno le loro anime".

Nei miei 15 anni di scuola non ricordo di aver preso parte ad un progetto più interessante di questo, nonostante le offerte scolastiche siano varie: non sempre c’è la possibilità di conoscere personalmente realtà diverse, complesse e controverse, di fronte alle quali sentiamo mobilitarsi dentro di noi tutta la cultura e la sensibilità di cui siamo capaci, nel tentativo di assumere una posizione che onori la nostra e l’altrui umanità.

 

Annalisa Scabia

Liceo Scienze sociali Marchesi-Fusinato

 

Per invio materiali e informazioni sul notiziario
Ufficio Stampa - Centro Studi di Ristretti Orizzonti
Via Citolo da Perugia n° 35 - 35138 - Padova
Tel. e fax 049.8712059 - Cell: 3490788637
E-mail: redazione@ristretti.it
 

 

 

 

 

Precedente Home Su Successiva