L'opinione dei detenuti

 

Un carcere che apra un dialogo fra istituzioni, detenuti e società

a cura della Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 28 aprile 2008

 

Che le persone detenute siano favorevoli a una carcerazione, che dia la speranza di uscire in modo graduale dal carcere con le misure alternative, è assolutamente scontato, meno scontato è invece che lo sia uno dei più importanti sindacati della Polizia Penitenziaria, il Sappe, nella persona del suo segretario generale, che ha dichiarato: "Bisogna modificare il sistema penale - sostanziale e processuale - rendendo stabili le detenzioni dei soggetti pericolosi e affidando a misure alternative al carcere la punibilità dei fatti che non manifestano pericolosità sociale". È importante allora che se ne parli di più, di queste misure alternative, e di un carcere più aperto e umano, invece che continuare a illudersi che una galera chiusa e priva di speranza possa essere garanzia di maggior sicurezza per tutti.

 

La negazione della dignità rende le persone più pericolose

 

Io credo che non bisogna stancarsi mai di ricordare il fatto che la galera è violenza, è costrizione, è sofferenza, e siccome per ogni essere vivente l’istinto di sopravvivenza è più forte di qualsiasi altro impulso, di conseguenza la galera stessa produce nella mente umana unicamente l’istinto della propria sopravvivenza, della propria esistenza, mentre l’esistenza della vittima sparisce. Quindi è assolutamente irrealistico credere che se venivo segregato in una cella d’isolamento oppure torturato, io avrei mai riflettuto sul dolore che provano i famigliari delle vittime: l’unica cosa che mi passerebbe per la testa sarebbe come fare a resistere alle condizioni disumane, come sopravvivere. Il rispetto della dignità di chi sta in carcere può sembrare una pretesa assurda a qualcuno, se non fosse però che la negazione della dignità rende le persone più cattive, più aggressive e quindi pericolose come prima della carcerazione, anzi, spesso molto peggiori.

Io credo che se si vuole fermare questo istinto violento, bisogna studiare modi per risvegliare in loro un po’ di umanità, perché questo valore può diventare il terreno comune tra la società, le vittime e gli autori di reato. Del resto, se noi detenuti chiediamo che la pena non consista in trattamenti contrari al senso di umanità, allora da parte nostra dobbiamo anche noi ritrovare la nostra umanità e quindi porci di fronte ai famigliari delle vittime con quel rispetto che non abbiamo avuto al momento del reato.

Solo qualche anno fa, nemmeno io, che della malavita avevo conosciuto poco, mi ero mai fermato a pensare a come doveva essere il rapporto con le vittime. L’assurdo del carcere è che, nonostante qui la maggior parte di noi abbia commesso reati gravi, nessuno parla mai delle vittime. Quando ci ritroviamo ai passeggi parliamo di processi, di sanzioni disciplinari, delle nostre famiglie distrutte, dei genitori che muoiono, e invece la ragione per cui ci troviamo qui trova una definizione solo in un numero, quello degli anni di galera presi. Ricordo che quando ero fuori era tutto diverso, al mio Paese si pensava sempre alle vittime. La transizione a un’economia di mercato in Albania ha portato anche un forte incremento della violenza e dei reati, di conseguenza molto spesso per le strade di Tirana succedevano rapine, scippi, omicidi, e gli occhi e i pensieri di tutti erano rivolti verso i famigliari che si ritrovavano distrutti dal dolore. Insomma là fuori, nella società libera, incontri i famigliari delle vittime e allora parli di loro, parli con loro, pensi a loro; invece qui in carcere siamo tutti persone che abbiamo causato, con le nostre azioni, delle vittime, e allora avremmo bisogno proprio di un carcere più aperto alla società, che ci costringesse a confrontarci di meno tra di noi e di più con il mondo libero.

 

Elton Kalica

 

Se una legge abbassa la recidiva e rende le carceri meno violente, perché toglierla?

 

Fino a ieri si sparava a zero su chi non sapeva presidiare le strade e difendere i cittadini dai criminali, stranieri soprattutto, oggi sotto accusa sono i magistrati che non sanno tenere quei criminali in galera. È una storia che si ripete periodicamente, con questa abitudine tutta italiana di vedere ovunque emergenze, ma alcune dichiarazioni dei politici preoccupano in modo particolare noi detenuti. In molti dicono che il problema della microcriminalità va affrontato togliendo la legge Gozzini per i recidivi, che significa far fare la galera fino all’ultimo giorno e poi mollare la persona in mezzo ad una strada dopo parecchi anni di cella.

A qualcuno può sembrare logico che lo Stato faccia solo da poliziotto e che punisca chi sbaglia senza doversi preoccupare del resto, ma io voglio invitare chi la pensa così a rifletterci su. Io sono in carcere da parecchi anni e non è la prima volta che ci entro. Da quello che ho visto per diretta esperienza, la minaccia di fare tanti anni di galera non tiene le persone lontane dal crimine, perché quando si fanno i reati o si è convinti che tutto andrà liscio, oppure il bisogno di denaro fa sì che la percezione del rischio passi in secondo piano.

D’altro canto tutte le ricerche sulla recidiva dicono che i condannati che rimangono in carcere fino all’ultimo giorno della condanna, poi non solo faticano a trovare un lavoro e a rifarsi una vita, ma anzi per la maggior parte ritornano a delinquere. Chi invece gli ultimi anni della carcerazione li passa lavorando all’esterno durante il giorno per poi rientrare in carcere alla sera, quando finisce la pena, nella maggior parte dei casi continua a lavorare e non va più a rubare.

Ma voglio anche ricordare che quando non c’era questa legge, che offre la possibilità di uscire prima dalla galera in misura alternativa solo a chi si comporta bene, quasi nessuno pensava di rispettare le regole e la violenza regnava nelle carceri italiane. Oggi invece i detenuti rispettano le regole perché sanno che così possono sperare di uscire, e io credo che solo il fatto che uno si sforzi di rispettare le regole sia già una buona cosa, perché magari all’inizio lo fa per opportunismo, ma alla fine poi spesso arriva a capire l’importanza di tenere un comportamento corretto.

Allora, io credo che chi ci governa dovrebbe fare un ragionamento pratico e proporre leggi convenienti per la società. Se la legge Gozzini abbassa la recidiva e rende le carceri meno violente, perché toglierla?

 

Sandro Calderoni

 

Io, vecchio detenuto recidivo

 

Abbiamo sentito spesso in questa campagna elettorale gridare: "Più carcere e meno benefici", un concetto molto amato dalla popolazione, che spera che questa sia la formula giusta per avere più sicurezza.

Io, vecchio detenuto recidivo, ricordo quando alla fine degli anni 70 venivano create le carceri speciali, in cui si viveva in regime di carcere duro, motivandole con l’esigenza di fermare il terrorismo. Di fatto poi nelle carceri speciali ci finirono un po’ tutti, dai ladri di polli, ai truffatori, ai rapinatori, agli omicidi, a chi aveva reati associativi. Io ci ho vissuto più di tre anni. All’interno di questi circuiti carcerari si viveva la più aberrante disgregazione sociale: la direzione poteva di fatto mettere in atto qualsiasi tipo di privazione e di controllo, le coercizioni psicologiche e fisiche erano tante, le umiliazioni intollerabili, le violenze anche fra detenuti aumentavano in modo esponenziale.

Davvero la gente si sente più sicura se un detenuto sconta la sua pena fino all’ultimo giorno all’interno di un carcere, magari anche particolarmente duro, senza affrontare un percorso di reinserimento che lo consegni migliore alla società? Eppure è dimostrato che un detenuto che viene gradualmente accompagnato in un percorso di reinserimento, tramite i benefici, è molto meno a rischio di tornare a commettere reati di uno che si fa tutta la galera, e questo ci dà la forza di dire che non si promette davvero sicurezza alla popolazione abolendo le misure alternative.

Io sono ormai vicino ai 60anni, vedo poco di quello che succede fuori ma ho la sensazione che la sicurezza di una popolazione sia prima di tutto affrontare i problemi sociali che hanno prodotto disgregazione, come la precarietà, le morti sul lavoro che vengono chiamate disgrazie, l’impossibilità di arrivare a fine mese per tante famiglie, la difficoltà di reperire una casa in affitto che non ti costi il sessanta-settanta per cento dello stipendio.

Anche il carcere è un problema sociale, e come tale deve essere percepito dalla società. Se si vuole aumentare le possibilità di reinserimento di quella parte di popolazione che ci finisce dentro, non si può pretendere di fare questo "chiudendo il carcere nel carcere", lo si può fare aprendo il dialogo fra istituzioni, volontari, detenuti e società. La chiusura non può sviluppare nessuna presa di coscienza delle proprie responsabilità, ma solo emarginazione e violenza, e se una persona è costretta a vivere nella violenza, poi si ritrova inevitabilmente nelle condizioni di riprodurre i meccanismi di quella stessa violenza.

 

Maurizio Bertani

 

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