L'opinione dei detenuti

 

Il "carcere duro" non crea sicurezza

A cura della Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 21 aprile 2008

 

 

Una recente ricerca pubblicata sul Sole 24 Ore sembra demolire l’idea che "quanto più dura è la galera, tanto meno si vorrà rischiare di tornarci dentro". Pare anzi che sia esatto l’opposto: quanto più la pena viene scontata in regime di carcere duro, di isolamento, in carceri chiuse alla società civile, tanto più alto è il tasso di recidiva quando le persone escono. Ecco, sono proprio i volontari e le attività, quindi un carcere che si "apre" alla società civile, che possono dare alle persone detenute gli strumenti per cambiare, per uscire un po’ migliori di quando sono entrate, che è poi lo scopo principale della detenzione e il principio fondante della nostra Costituzione.

 

Riflessioni sul "carcere chiuso"

 

Niente colloqui, neppure con i miei familiari, divieto assoluto di lettura, niente tv, posta censurata, controllo visivo 24 ore su 24 anche al cesso, perquisizioni in piena notte, un’ora d’aria al giorno e le restanti 23 chiuso in una stanzetta di 2 metri per 1.50, con lo spazio appena sufficiente per incastrare una sedia di plastica tra il letto e il muro. In cella non potevo tenere neanche lo spazzolino da denti, né una penna, nulla. Così trascorsi i primi mesi dopo l’arresto.

Terminato l’isolamento fui ammesso in sezione assieme agli altri detenuti, ma quel carcere non offriva alcuna attività, ad eccezione dei colloqui con i familiari era ermetico e chiuso alla società esterna. Entravano solo il personale di vigilanza e il cappellano, e le attività "rieducative" erano rappresentate da interminabili partite a carte. Le ore libere dalle sfide a scopa all’asso le trascorrevamo buttati in branda, nell’apatia più totale, e ci ritrovavamo a lagnarci pateticamente delle vessazioni giudiziarie che molti di noi ritenevamo di aver subito…

Nel 2000 sono stato trasferito a Padova. Dopo un anno e mezzo ho cominciato a lavorare e sono entrato a far parte della redazione di Ristretti. E forse per la prima volta da quando mi trovavo in carcere, ho "dovuto" ri-alzare la testa e riflettere profondamente: com’era possibile, mi chiedevo, che nonostante i pesantissimi reati di cui sono responsabile, e con la mia interminabile condanna, ci sia ancora qualcuno disposto a ridarmi almeno un briciolo della fiducia che giustamente mi è stata tolta con l’arresto?

Nella nostra redazione ogni giorno entrano i volontari, e con loro ci confrontiamo. Molte sorprese ce le ha riservate il progetto con le scuole. Durante un incontro una studentessa ci ha spiegato cos’ha significato, per lei, rientrare in casa una sera e trovare i ladri. La qualità della sua vita è cambiata radicalmente, ora non si sente più sicura fuori ma nemmeno in casa sua. Un’insegnante invece con non poca difficoltà ci ha confidato la sua drammatica esperienza di ostaggio di una rapina in banca, un’angoscia che non l’ha più abbandonata. Ed è proprio con studenti e professori – che hanno accettato di incontrarci – che sono stato costretto alla schiettezza, e anche a mostrarmi per intero. Mentre all’inizio del progetto non riuscivo a parlare con loro dei miei reati, ora le parole omicidio ed ergastolo, seppur con notevole disagio, riesco a pronunciarle

Ma l’incontro che è rimasto indelebile nella mente e nel cuore di ognuno di noi è stato quello con Olga D’Antona, il cui marito è stato ucciso dalle Brigate Rosse. Respirare il suo dolore ed ascoltarla è stato il momento più duro e significativo dei miei 14 anni di carcere, e le sue parole ci hanno fatto trovare la forza di parlare finalmente delle vittime, un argomento tabù mai affrontato nei primi anni di carcerazione dura e chiusa, una detenzione fine a se stessa. Il confronto con gli altri, col dolore degli altri, porta inevitabilmente a guardarsi dentro, ed è in quei momenti che la detenzione assume contorni diversi, che diventa per certi aspetti veramente dolorosa…

 

Marino Occhipinti

 

L’isolamento abbrutisce senza scampo

 

Il carcere duro, il cosiddetto 41 bis, nasce come legge d’emergenza in risposta alle stragi mafiose che hanno causato la morte dei giudici Falcone e Borsellino e degli agenti delle loro scorte.

Chi come me ha vissuto quel periodo si porta dentro ancora le ferite. Allora furono applicate forme di restrizione totali, in cella non si poteva avere neppure il fornellino, il mangiare era sempre poco e ti veniva razionato, l’assurdo era che nei contenitori ne rimaneva sempre più della metà, ma alla richiesta di poterne avere ancora spesso per umiliarti preferivano buttarlo.

Nella cella c’erano solo il letto, un tavolo, uno sgabello, tutto in ferro e blindato. Shampoo, bagno schiuma, magliette, tutto era depositato fuori della stanza in un apposito armadietto ed ogni volta che ti serviva qualcosa dovevi chiedere all’Agente, se poi era stanco… se ne parlava l’indomani. Non potevi tenere con te nulla, solo la tua solitudine, ventiquattro ore chiuso, isolato, guardato a vista. Ricordo che spesso i termosifoni erano spenti, il freddo penetrava nelle ossa, i muri trasudavano umidità. Capitava anche che venivi pestato e ti gettavano secchi d’acqua sul corpo per rinfrescarti, quindi passavano giorni prima che la cella si asciugasse. Le ore d’aria erano due al giorno, in un "pollaio" di soli tre metri, come cielo una rete metallica. Avevi solamente la tua forza, la volontà, l’odio e la rabbia a sostenerti, ad incitarti ad andare avanti per sopravvivere.

Non ho imparato nulla in quegli anni, anzi sì, il segreto del silenzio, e le pause fra un pensiero e l’altro, quando ti concedevano di dormire, perché spesso nel cuore della notte venivi svegliato con battiture alle inferriate della cella. Col passare degli anni quel provvedimento è diventato Legge. Recentemente sul Sole 24 Ore un giudice americano ha negato l’estradizione di un detenuto italiano perché "il 41 bis è tortura psicologica". Significativo come un paese dove viene esercitata ancora la pena di morte riconosca come disumano il trattamento imposto ai detenuti italiani sottoposti al regime del 41 bis.

Oggi vivo un’altra carcerazione, mi sono diplomato in Ragioneria, seguo diversi corsi per tenere la mente occupata. Non mi arrendo, continuo a credere che in fondo ci sarà una mano tesa per accompagnarmi ad assaporare l’aria della libertà e un cielo senza reti. E ho scoperto che, se si è trattati con un po’ di aiuto e amore, invece che come animali, si può diventare anche uomini diversi, nuovi, non importa se detenuti, io ci sto provando.

 

Bruno De Matteis

 

Quando la galera è fatta di risse e violenze

 

La mia carcerazione è iniziata con sei mesi d’isolamento. La cella spoglia, il blindo sempre chiuso che si apriva soltanto per farmi uscire all’aria. Di regola potevo passeggiare un’ora al giorno, ma siccome gli isolati erano tanti, e si doveva andare all’aria uno per volta, allora capitava che non facevano in tempo a farci uscire tutti.

Oltre al detenuto che distribuiva i pasti e all’agente della sezione in quei mesi non ho visto nessuno. A un certo punto mi sembrava che non esistesse nient’altro che quella sezione, come se il resto del mondo fosse sparito e fossimo sopravvissuti solo io, gli agenti e i detenuti.

Quando poi mi hanno trasferito in una sezione comune ho visto che le cose in fondo non cambiavano molto. Sì, andavo ai passeggi insieme agli altri, ma il mondo era sempre quello, io, detenuti e agenti.

Sembrava di essere costantemente in guerra con tutti. I detenuti erano divisi tra etnie e all’aria la divisione era visibile, da un lato gli italiani, dall’altro gli albanesi, così come i gruppi di magrebini, rumeni, nigeriani stavano ognuno per conto suo. Ovviamente io mi sono unito ai miei paesani e in quella compagnia si sono accentuati in me i peggiori meccanismi di gruppo. Lo stress accumulato dall’isolamento doveva essere in qualche modo sfogato e allora le ore di passeggi diventavano ore di tensione. Non si parlava d’altro che di problemi di convivenza tra noi, e spesso si finiva alle mani, delle vere maxirisse che poi portavano altro isolamento.

A Padova ho trovato una realtà diversa, qui c’è un altro mondo. Per i corridoi vedi passare volontari, operatori, studenti, e hai modo di parlare con loro. Sembrerà una banalità, ma non è poco. Cioè, se mi rendo conto che oltre agli agenti e ai detenuti ci sono persone che non pensano solo a litigare, che non mi vedono come un nemico ma che si fermano, mi parlano, discutono con me, allora anch’io non vedo più le persone come nemici, ma mi rilasso e parlo in modo civile.

Poi ho chiesto di entrare nella redazione di Ristretti Orizzonti. All’inizio volevo trovare uno spazio per passare il tempo, però qui non si può restare indifferenti. Le cose che dicono i volontari e le persone che vengono dal mondo esterno durante le discussioni accese che fanno con noi detenuti mi coinvolgono sempre, mi fanno ragionare e sono sicuro che un po’ sto cambiando anch’io. Per lo meno non vado più ai passeggi, evito di unirmi ai gruppi, e quindi più sto in redazione, meno rischio di essere coinvolto in risse e violenze.

 

E. P.

 

Per invio materiali e informazioni sul notiziario
Ufficio Stampa - Centro Studi di Ristretti Orizzonti
Via Citolo da Perugia n° 35 - 35138 - Padova
Tel. e fax 049.8712059 - Cell: 3490788637
E-mail: redazione@ristretti.it
 

 

 

 

 

Precedente Home Su Successiva