L'opinione dei detenuti

 

Le famiglie dei detenuti lasciate sole

a cura della Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 22 febbraio 2010

 

Famiglie lasciate troppo sole Nelle carceri sovraffollate anche gli spazi per gli affetti sono pochi, freddi e asettici. Eppure, qualcosa si dovrebbe fare per rendere più dignitoso il rapporto delle persone detenute con le loro famiglie, per almeno due buoni motivi. Perché le famiglie sono "innocenti" e perché è importante che a fine pena escano dalle carceri persone che non sono sole, che hanno saputo assumersi le loro responsabilità anche rispetto ai propri cari e sono riuscite a non perdere il loro affetto. Ma perché ciò succeda serve per lo meno che gli spazi e i tempi per i colloqui e le telefonate diventino più ampi, e questo sarebbe possibile anche subito, nonostante il sovraffollamento.

 

Non ho visto crescere mia figlia

 

Ho una figlia che ora è già donna, a cui voglio un bene dell’anima, della quale mi è difficile pensarmi come padre, perché da quando aveva un anno mi ha quasi sempre visto attraverso i colloqui in carcere, e le immagini che ho della sua crescita, da quando era bambina, poi adolescente e infine donna sono praticamente a puntate, brevi come quelle di una serie televisiva, la sua crescita è stata scandita da quell’ora settimanale, a volte mensile in cui ogni volta la rivedevo diversa.

Io non sono stato mai presente nei suoi momenti importanti, che vuol dire accompagnarla il primo giorno di scuola, esserci ai suoi compleanni, consolarla per le sue delusioni adolescenziali, in pratica ho mancato con lei in tutto ciò che dovrebbe essere un padre. Aggravando ulteriormente il mio senso di colpa nei discorsi fatti con lei, sempre interrotti o lasciati a metà perché l’orario di visita era finito, con la promessa di riparlarne un’altra volta, cosa che inevitabilmente non succedeva quasi mai, perché fatalmente la vita fuori di qui è sempre in evoluzione, a differenza di quello che succede qui dentro, dove i giorni sono quasi identici, e il tuo pensiero è rivolto principalmente a quello che ti è più caro.

Questa impossibilità di realizzare spazi all’interno di queste strutture, che permettano almeno di ricreare in parte un luogo che si avvicini ad un contesto familiare, necessariamente porta a staccarsi dai propri cari e a non far emergere quei sentimenti che spesso avresti voglia di gridare, e allora ti chiudi e ti sforzi di non rivelare a loro i tuoi malesseri, ma forse lo stesso fanno anche loro, che cercano di non raccontarti le loro sofferenze, i loro disagi, perché non vogliono darti un carico nuovo di dolore.

Questo porta a scavare un solco sempre più profondo, che quando uscirai devi cercare di colmare, cosa non facile perché ogni qual volta c’è un contrasto, che credo normale in qualsiasi famiglia, quei fantasmi, quelle parole non dette, escono come un fiume in piena, rendendo penoso a volte lo stare insieme. Sei estraneo alle persone che hai più care, e non solo, ma anche le persone che hai più care ti sono diventate estranee, vite parallele che si intrecciano raramente e che non permettono di ascoltarsi, perché non c’è il tempo e nemmeno lo spazio per farlo.

 

Sandro Calderoni

 

La pena ingiusta riservata ai genitori

 

Sono un ragazzo di quasi ventiquattro anni, moldavo, da oltre tre anni detenuto in Italia, dove sto espiando una pena di tredici anni. Stare in un carcere italiano per me vuol dire essere lontano dalla mia famiglia, per i miei famigliari venire in Italia significa chiedere un visto turistico, che non sempre è possibile ottenere, e l’unica strada è quella del mercato nero che si crea sempre quando i visti si concedono con il contagocce.

Mio padre sta male, una sola volta è riuscito ad affrontare il viaggio in occasione del processo, pagando un sacco di euro per un visto di dieci giorni. Ora sta talmente male che temo di non rivederlo più, e poi non avrebbe soldi per venire. Per questa ragione - io, come tanti altri ragazzi stranieri detenuti - vorrei scontare la pena in Moldavia, così almeno potremmo vederci ogni tanto e potrei essere presente in questo periodo difficile della sua vita. Perché l’idea che i miei familiari non abbiano la possibilità di vedermi mi fa più male che stare in una cella sovraffollata. Insomma, soffro per loro, perché penso che i miei genitori non hanno nessuna colpa per ciò che ho fatto io, e quella di non potermi vedere per anni è una condanna che non meritano.

 

Igor M.

 

Quante rovine dietro le spalle

 

Le mie scelte mi hanno portato a dover scontare una lunga pena detentiva. Ma oggi capisco che non è mai stato solo personale il conto che ho dovuto pagare alla società e allo Stato. Ci sono rovine alle mie spalle che non avevo calcolato. Sono gli affetti. Sono i miei figli, mia moglie, mia madre. La mancanza di questi affetti mi permette, in questo momento, di gettare la maschera con la quale mi presentavo al mondo. Resto nudo davanti alle mie responsabilità, ai miei errori. Come un ex alcolizzato durante la riabilitazione, in questo momento, in carcere, sono circondato da bottiglie vuote.

Posso riempirle con il rimorso, posso riempirle di rancore nei confronti della Giustizia, dello Stato, del carcere, posso credermi vittima di ingiustizia, ma questi alibi non riducono la sofferenza che proviamo quando scopriamo il dolore di chi ci vuole bene. Esiste solo una domanda a cui oggi posso dare una risposta che corrisponde a verità certa: a chi mi chiede se non potevo pensarci prima, rispondo che sì, dovevo pensarci prima, ho sbagliato. Queste considerazioni non esimono lo Stato dalla responsabilità di intervenire, con adeguate soluzioni, all’interno di quella che chiamo "la sfera dell’affettività". Nell’esecuzione della pena, intrapresa perché la detenzione favorisca l’acquisizione di valori umani e morali antitetici a quelli del passato, che lo indussero alla commissione dei reati, al momento attuale manca sostanzialmente la possibilità di un confronto e di un rapporto continuativo con i propri affetti.

Dieci minuti di telefonata una volta alla settimana solo su telefono fisso, sei colloqui al mese della durata di un’ora, in una sala gremita di persone, di bambini vocianti, con gli agenti che devono controllare e proibire qualsiasi atteggiamento affettuoso, dal bacio all’abbraccio troppo lungo, rappresentano l’unica possibilità che in Italia viene concessa al detenuto per dire alla moglie, ai propri figli: vi voglio bene, io esisto ancora, perdonatemi. In altri Paesi esiste la possibilità per i detenuti di coltivare i propri rapporti affettivi anche all’interno del carcere, perché si consente loro di incontrare le persone autorizzate ai colloqui in locali realizzati a tale scopo, senza controlli visivi o auditivi. Questo in Italia è proibito. La detenzione deve sì esercitare il suo "potere" di togliere la libertà, ma deve anche mantenere unito il vincolo affettivo, non permettere lo sradicamento, con conseguenze che possono determinare la perdita dei propri affetti. Una Giustizia insensibile e fredda può essere disumana.

 

Franco Garaffoni

 

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