L'opinione dei detenuti

 

Pietro Maso fuori dal carcere, dopo "soli 17 anni"

A cura della Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 20 ottobre 2008

 

Diciassette anni di carcere: sono pochi? sono niente? sono un segnale di resa dello Stato che non sa punire? sono un messaggio di "lassismo" ai figli, che così non avranno paura di nulla, neppure di uccidere i genitori, perché tanto nel nostro Paese in carcere non ci sta nessuno? Si sono sentite in questi giorni migliaia di parole sulla semilibertà che Pietro Maso ha ottenuto dopo diciassette anni passati in carcere per aver ammazzato i genitori. Una storia orribile, non c’è dubbio, però ci piacerebbe ugualmente tentare di ragionare su questa vicenda a partire da una riflessione: provate a pensare agli ultimi diciassette anni della vostra vita, a quello che avete fatto, i figli avuti, qualche persona cara che è morta, la miriade di avvenimenti che ha riempito le vostre giornate. Sono davvero così pochi diciassette anni?

 

Quel limbo tra carcere e la libertà

 

Libero. Penso a come potrà realmente essere, oggi, la libertà di Pietro Maso. Ma semilibertà non è sinonimo di libertà. Scontare una pena in semilibertà significa prima di tutto aver scontato già anni di carcere mantenendo un comportamento eccellente e aver dimostrato disponibilità al confronto con gli operatori, significa aver intrapreso un percorso critico rispetto al reato commesso, essersi sottoposti a perizie redatte da vari esperti del settore (psicologi, educatori, psichiatri, assistenti sociali).

Ho trascorso più di un anno in un regime come la semilibertà e non ho mai avuto la sensazione di essere libero. La mattina prima di uscire dal carcere mi veniva consegnato il "foglio di trattamento", dove c’era scritto tutto quello che potevo, ma soprattutto quello che non potevo fare: Seguirà la via più breve senza soste intermedie - non si accompagnerà a pregiudicati o tossicodipendenti - non assumerà sostanze stupefacenti - non si allontanerà dal territorio comunale - non farà uso del telefono cellulare - dovrà pranzare e cenare solo nei due locali prescritti - trascorrerà in istituto le domeniche e i giorni festivi infrasettimanali - non frequenterà luoghi di dubbia fama - per gli spostamenti potrà utilizzare la bicicletta o l’autobus. Qualsiasi cambiamento di veicolo dovrà essere prima autorizzato dalla direzione – uscirà dall’istituto alle ore sette e trenta e vi farà rientro alle ore ventuno – svolgerà attività lavorativa dalle ore otto alle ore diciotto, con pausa pranzo dalle tredici e trenta alle quindici. E in qualsiasi momento della giornata poteva capitare una pattuglia della polizia per un controllo.

È solo nell’istante in cui ho letto tutte quelle regole che mi sono reso conto del perché di quel termine: semilibertà. Semilibertà non perché si trascorre mezza giornata in carcere e mezza fuori, ma perché le ore fuori si vivono a metà. Si vivono costantemente con l’ansia di non poter sbagliare, perché una sola trasgressione comporta l’immediata revoca del beneficio. Semilibertà perché l’essere obbligato a seguire tutte quelle regole comporta, ovviamente, di vivere una semi-vita. Di giorno sul posto di lavoro ti confronti con persone che hanno comunque una vita normale, che la sera, finito l’orario di lavoro, tornano a casa con la famiglia, mentre tu, persona semilibera, la sera, dopo una dura giornata di lavoro, torni in carcere.

Non è una passeggiata affrontare la semilibertà, ma è un passaggio che dovrebbe essere obbligatorio per chi sta scontando una pena in carcere, perché è l’unico modo per dare la possibilità a una persona di riallacciare i contatti con il mondo esterno seguendo un percorso graduale, ed è sicuramente la strada migliore per permetterle di ricostruirsi una vita quanto più normale possibile. E ciò non per essere buoni con chi sbaglia, ma per dare qualche garanzia in più alla società che volente e nolente prima o poi dovrà riaccogliere quella persona.

 

Andrea A.

 

Non possiamo ritornare nelle nostre famiglie come alieni che scendono da Marte

 

Mi chiedo quanto giornali e telegiornali abbiano influenzato questa scontentezza che molti cittadini esprimono alla notizia che Pietro Maso è stato ammesso alla semilibertà. Me lo chiedo perché sono anni che i media si scagliano contro la legge Gozzini, che permette ai detenuti di usufruire di benefici, come appunto lavorare fuori e rientrare in carcere la sera.

Sono detenuto da 14 anni e sono convinto che è una cosa giusta dare questa possibilità anche a chi ha commesso un reato grave, perché solo così le persone possono crearsi una vita regolare, e allora è difficile che tornino a commettere reati. In questi anni ho visto diversi detenuti usufruire della legge Gozzini. Intanto non tutti sono riusciti a concludere la pena lavorando fuori, poiché le regole sono molto severe e al primo sbaglio ti sospendono dal lavoro e non esci più. Ma di quelli che ce l’hanno fatta, quasi nessuno poi è tornato a commettere reati. Nello stesso tempo vedo tutti i giorni detenuti uscire dal carcere dopo aver scontato tutta la pena: le istituzioni, dopo anni di cella, li mollano come cani randagi, e poi nel giro di pochi giorni sono di nuovo qui dentro, perché là fuori la vita è dura e se non hai nessuno non ti salvi.

Io capisco che quella di uscire alla mattina e andare a lavorare viene vissuta come una libertà immeritata per Pietro Maso, ma se si vuole vivere in una società civile dove tutti hanno una seconda possibilità, e se il carcere, come dicono, deve essere un luogo di rieducazione, forse bisogna accettare il fatto che dopo diciassette anni anche chi ha ucciso cominci ad uscire dal carcere gradualmente.

Anch’io ho una condanna a 30 anni e fuori ho una moglie e una figlia di 15 anni, che quando sono entrato in carcere aveva solo un anno. Quattordici anni di carcere non sono pochi, perché vuol dire che mia figlia nemmeno mi conosce, vuol dire che ci siamo conosciuti solo attraverso quell’ora di colloquio ogni tanto. Ci siamo conosciuti solo di vista, perché quel poco affetto che ho cercato di darle durante i colloqui sicuramente non le ha riempito la vita. I miei famigliari possono venire da me una volta ogni tre-quattro mesi, poiché per affrontare il viaggio servono soldi, e oggi è difficile anche per una famiglia italiana arrivare a fine mese, figurarsi per una famiglia straniera, soprattutto per una donna sola con una figlia da crescere e un marito in galera con una pena cosi lunga.

Uno può dire che avrei dovuto pensarci prima, ed è vero. Ma nella vita ci sono anche sbagli gravissimi come quello che ho fatto io, però se ci condannate a trent’anni di carcere, non potete farci ritornare nelle nostre famiglie dopo trent’anni come degli alieni che scendono da Marte e non sanno da dove riprendere la loro vita. Così non si recupera il detenuto, ma si restituisce alla famiglia e alla società una persona più pericolosa di prima.

 

Dritan Iberisha

 

Quale potrebbe essere una pena abbastanza dolorosa da soddisfare la collettività?

 

In questi giorni ho letto e ascoltato per televisione i cittadini esprimere commenti di contrarietà riguardo alla semilibertà concessa a Pietro Maso. Mi domando allora: quale potrebbe essere una pena abbastanza dolorosa da soddisfare la collettività?

Voglio precisare che se io fossi un normale cittadino, e non un detenuto che conosce anche questo versante della vita, protesterei forse ancora più degli altri di fronte alla gravità del fatto. Però purtroppo so cos’è la galera perché ci vivo da quasi dieci anni e perché anch’io ho ucciso una persona, e allora, spinto dalla mia esperienza, vorrei provare a chiarire alcune cose. Così magari qualcuno sentirà meno rabbia verso quella concessione di semilibertà, che io reputo quanto mai umana.

Dicono che Pietro Maso sia già libero dopo aver scontato soltanto 17 anni. Intanto preciso che i restanti 13 anni (di una pena di 30) non glieli hanno abbonati, anzi durante quel periodo per lui la vera libertà continuerà a rimanere soltanto un sogno. Senza dubbio la possibilità di accedere a una misura alternativa come la semilibertà è per un detenuto un passo importante, e significa anche un riscatto, un modo per far vedere che le cose possono cambiare in meglio se si riesce a dare prova di attenzione, di responsabilità, di capacità di pensare di più agli altri e al bene della società.

Forse siamo tutti troppo abituati all’idea che la pena consista solo nel carcere, e una persona libera, che non ha mai avuto a che fare così a lungo con forti vincoli anche sulle cose più banali di tutti i giorni, come succede a chi sconta una pena, fatica in realtà a capire che la semilibertà fa sempre parte del carcere, e gli anni che Pietro Maso deve ancora scontare non si possono definire con la parola libertà in senso compiuto.

Se solo potessi condividere con qualche cittadino regolare le mie esperienze in carcere e far capire quanto dolore e quanta amarezza c’è nel profondo del mio cuore, gli farei vedere come vivo ossessionato dal desiderio di tornare indietro nel tempo per evitare la follia che mi ha portato a perdere il controllo e fare una cosa così grave. E come succede a me, sono certo che Pietro Maso, in galera o in semilibertà, continuerà a fare i conti con i propri fantasmi per il resto della sua vita, che è la punizione più dolorosa che esiste.

 

Prince Obayangbon

 

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