L'opinione dei detenuti

 

I buoni dentro. I cattivi fuori

A cura della Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 16 ottobre 2006

 

Si chiama "I buoni dentro. I cattivi fuori. Studenti in carcere, detenuti nelle scuole", ed è uno strano libro. Strano perché scritto, oltre che dai detenuti, anche e soprattutto dagli studenti, però non con la pistola minacciosa dell’insegnante puntata alla tempia, ma con autentica passione. Perché gli studenti della nostra città, coinvolti in questo progetto di "conoscenza ravvicinata" del carcere, vi hanno partecipato con un’attenzione spontanea e profonda, e non per "obbligo" come avviene spesso per quello che si fa a scuola. E hanno discusso, capito, lottato anche con se stessi e i pregiudizi annidati nella loro testa, spiegato a genitori e amici, si sono buttati in questa avventura senza risparmiarsi.

 

Nel libro si possono trovare:

i testi degli studenti, quello che immaginavano del carcere e quello che hanno visto e capito entrando a contatto diretto con la galera e con chi ci vive dentro

le lettere e le testimonianze dei detenuti

il racconto di come gli adulti, genitori, parenti, amici hanno reagito a un progetto così poco "normale"

il punto di vista di insegnanti, operatori, volontari

indicazioni pratiche per avviare un progetto "scuole-carcere"

i consigli di scrittura dello scrittore Carlo Lucarelli, i suggerimenti di una esperta su come realizzare un laboratorio di scrittura autobiografica, il racconto di una esperienza di "immersione" dei ragazzi nella scrittura autobiografica in una scuola e tante altre cose ancora, a dimostrare che scuola e carcere possono dar vita a un confronto che arricchisce un po’ tutti.

 

Quelle che seguono sono testimonianze, tratte dal libro:

 

Il carcere e i detenuti, come li immaginavano gli studenti

 

Quando penso al carcere, penso a un luogo estremamente triste e violento, dove la criminalità e la cattiveria la fanno da padrone. Persone che pensano soltanto ad uscire per farla pagare a chi li ha "messi dentro", persone tristi, frustrate, depresse, incattivite come leoni in gabbia, che cercano di scappare, alcuni per poter riabbracciare la propria famiglia, altri per rifarsi una vita nuova o per riprendere quella di prima (Anita M.).

Come struttura il carcere non so come sia di preciso, perché non me ne hanno mai parlato o non mi sono mai interessata particolarmente alla cosa, quindi non saprei nemmeno fare supposizioni. So solo che è una struttura che serve per far capire alle persone che hanno sbagliato, anche se spesso sembra di farli stare in vacanza. Poi, per quanto riguarda i detenuti che si uccidono in carcere, bisognerebbe impedirlo, perché è troppo facile scappare dal rimorso; è molto più punitivo far passare la vita a sentire il rimorso che piano piano ti distrugge. Hai sbagliato? La colpa è solo tua!!! (Giulia B.)

"Del carcere non so dire molto, ma guardando la televisione penso che le molte persone che sono li se lo meritino, anche se non tutte, e penso che le persone che uccidono dopo un po’ escono e trovo che questo non va bene, perché altre persone che hanno commesso reati minori scontano molti più anni, e questo non è possibile.

Ci sono poi persone che molto probabilmente escono per buona condotta, e non è giusto che dopo aver commesso un reato grave e solo per aver tenuto un comportamento decente escano. Forse bisognerebbe rivedere le leggi riguardanti il carcere" (Enrico F.).

 

Quello che i ragazzi hanno visto e capito del carcere

 

"Non volevo assolutamente perdere la visita al carcere… volevo sentire, vedere, toccare, annusare e percepire, in prima persona, una realtà che solo quest’anno avevo iniziato a conoscere. Ciò che mi auguro davvero è che questo progetto continui ad andare avanti anche nei prossimi anni, perché per me, come per i miei compagni, è stato davvero splendido aver messo da parte certe convinzioni, frutto di ignoranza, e essere andati alla scoperta di ‘un altro mondo’" (Federica D.).

"Sentir parlare i detenuti in classe mi ha confermato quanto complessa sia la realtà di ogni persona, quanto la stessa esperienza della prigione possa essere vissuta in modo diverso da ogni individuo e quanto diverse sono le sensazioni che ognuno di loro prova stando dentro. Mi hanno colpito molto le loro parole, mi hanno fatto riflettere sull’importanza enorme di ogni nostra più piccola libertà, anche di quella a cui noi non facciamo caso, e su come la rimpiangeremmo se ne fossimo privati" (Giorgia B.).

"I miei genitori, dopo essere venuti a conoscenza di un mio futuro incontro con i carcerati a scuola, di certo non hanno reagito in maniera troppo drastica e sciocca vietandomi di partecipare, ma nonostante questo ho letto nei loro occhi un po’ di perplessità e stupore e simile è stata anche la reazione di certe mie amiche. Ho potuto capire che nella loro immaginazione i detenuti sono visti come totalmente estranei alla società, come persone che devono vivere in celle all'interno del carcere segregati nei loro sbagli, dolori, rimpianti e pentimenti: è come se ci fosse un muro insuperabile tra noi "buoni" e loro "cattivi", perciò si pensa che loro, i malvagi, non debbano per così dire "inquinare" il mondo esterno che li circonda.

Penso che queste reazioni possano essere anche chiamate pregiudizi, cioè idee sbagliate che delle persone si fanno sul conto di altre persone pur non conoscendole e non avendo avuto mai contatto con loro… forse se facessero anche loro un incontro con i carcerati sul tema del carcere, proprio come è capitato a me, allora capirebbero che non esiste un mondo diviso tra buoni e malvagi, ma che a tutti può capitare di sbagliare e di riparare il loro errore." (Francesca F.)

 

Questo filo diretto scuola-carcere non si è più spezzato: a prendere la penna in mano sono stati infatti anche i detenuti, per raccontare quante emozioni ha suscitato in loro incontrare tanti ragazzi, confrontarsi con loro, ripensare ai loro compagni di scuola, o magari ai loro figli:

 

Un filo diretto dai detenuti agli studenti

 

"La ragione per cui volevo che questo incontro non finisse più la ritrovo nei volti dei sessanta studenti che ho di fronte: dopo anni in cui ho parlato con gli agenti limitandomi alle solite richieste di poter andare in doccia o in cortile, e dopo anni di conversazioni con i miei compagni detenuti solo di processi o di calcio, mi ritrovo a parlare con sessanta persone giovani che hanno la stessa età, gli stessi occhi e gli stessi volti dei miei amici e delle mie amiche di dieci anni fa, quando sono finito in carcere, e questo mi fa sentire per un attimo uno di loro, sfortunato ma pur sempre uno di loro; e soprattutto mi ritrovo a parlare con delle persone libere, con persone che possono domandare tutto senza la paura di incorrere in qualche sanzione disciplinare, e d’altro canto io posso rispondere a mia volta liberamente senza censure e paure; nell’aula non vi sono nemmeno gli agenti che scrupolosamente sono rimasti fuori dalla porta" (Elton Kalica).

"Carissimi, in questi giorni ho letto tutti i racconti che avete messo nero su bianco dopo l’incontro che abbiamo avuto in carcere, e mi sono veramente commosso, non potete immaginare quanto, per la sensibilità con la quale avete scritto del progetto che ci vede coinvolti. Solitamente le persone relegano la galera, e chi la "abita", negli angoli più reconditi della propria memoria, reazione più che comprensibile perché si ritiene giustamente che non ci si avrà mai a che fare, e così hanno fatto alcuni di voi nei testi scritti inizialmente. Avete spiegato di non aver mai riflettuto sul carcere, ed in effetti ne è uscito un immaginario abbastanza diverso dalla realtà: credo quindi, anche per questo motivo, che gli incontri con noi detenuti abbiano rappresentato "un qualcosa" che difficilmente potrete dimenticare.

Inizio col dire che ho quarantuno anni compiuti da qualche mese e sono in carcere da quando ne avevo 29.. Il termine della mia condanna non esiste: sul frontespizio del mio fascicolo è scritto infatti, in stampatello e ben evidenziato in rosso, Fine pena: MAI. Ergastolo, insomma.

È comunque fin troppo ovvio che per essermi meritato una simile condanna, i miei reati sono stati gravi, anzi gravissimi. Però, per quanto siano gravi i reati che ho commesso – e per quanto mi abbiano segnato in maniera irrimediabile – essi sotto il profilo temporale rappresentano comunque solo una frazione infinitesimale della mia vita: la mia condanna, Fine pena MAI, riguarda infatti reati che ho commesso nel 1988, nell’arco di soli quindici giorni. Sia chiaro però che, ponendo l’accento su quel pugno di giorni che hanno sconvolto e segnato per sempre la mia vita, non intendo affatto accampare scusanti o peggio ancora misconoscere e ridurre le mie responsabilità. Intendo solo rivendicare il mio umano diritto a non riconoscermi soltanto in quel giovane uomo che, oltre 18 anni fa e per tutta una serie di circostanze estreme e irripetibili, si è ritrovato a compiere atti che ora paga amaramente.

E pagare non significa soltanto scontare, giorno per giorno, una condanna lunga come tutta la vita che hai davanti. Pagare vuol dire anche convivere con un peso sulla coscienza che il trascorrere del tempo non riesce ad alleviare, perché si rinnova ogni giorno e t’insegue pure di notte, impedendoti di dormire serenamente anche quando sei stanco morto" (Marino Occhipinti).

 

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