L'opinione dei detenuti

 

L’ordinaria tragedia di una morte in carcere

a cura della Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 16 novembre 2009

 

L’ordinaria tragedia di galere che stanno perdendo qualsiasi aspetto di umanità. I suicidi, le morti poco chiare, gli atti di autolesionismo, le violenze, la brutalità: tutto questo nelle carceri italiane esiste, a volte anche con frequenza inquietante, ma non è la normalità, e nessuno di noi che ci occupiamo di questi problemi intende diffondere l’idea che le galere siano luoghi governati da sadici che usano ogni mezzo per esercitare il loro potere su corpi e teste delle persone recluse.

Noi di Ristretti Orizzonti da anni realizziamo un dossier che si chiama "Morire di carcere", e l’abbiamo chiamato così non a caso: non ci interessava, cioè, parlare semplicemente delle MORTI IN CARCERE, no, volevamo ragionare anche sul fatto che si muore DI CARCERE, della desolazione e dell’abbandono che caratterizza la vita in carcere, una vita che sta diventando, per sempre più detenuti, pura disperazione.

 

Se anche oggi non ci scappa il morto

 

I sentimenti che proviamo oggi scorrendo le notizie sulla storia di Stefano Cucchi e su altri casi di morti oscure sono ambivalenti: da una parte, sappiamo che bisogna tenere l’attenzione costantemente puntata sulle carceri e sui luoghi dell’esclusione, e allora vedere tutto questo interesse dei media per le morti di detenuti dovrebbe rassicurarci e farci sperare. Ma sappiamo anche che stiamo diventando, proprio noi che abbiamo a cuore questi temi, pericolosamente cinici: "ci dovrebbe scappare il morto perché si parli delle carceri" è una frase che in tanti abbiamo detto, e quando poi "ci scappa il morto" davvero riscopriamo l’angoscia di vedere che si parla, e per fortuna, dei casi "straordinari", ma non si vuole vedere l’ordinaria tragedia di galere che stanno perdendo qualsiasi aspetto di umanità. E questo nonostante ci siano migliaia di agenti, educatori, direttori, tutto il personale penitenziario, che ci lavorano con la sofferenza di sapere che, se escono alla fine della giornata senza che sia successo nulla di tragico, è solo un miracolo, che forse non si ripeterà l’indomani.

E non dimentichiamoci che in carcere, parcheggiati dalla mattina alla sera in celle dove dovrebbero stare in due o tre e sono invece in sei, sette, otto, per lo più senza far nulla, ci stanno sempre più spesso persone giovani, figli di famiglie "normali", una generazione che rischia di bruciarsi con comportamenti che pagherà pesantemente con la galera, e soprattutto QUESTA GALERA INUTILE, E ANCHE PERICOLOSA

Serve allora un OSSERVATORIO permanente sulle morti "da carcere". Bisogna che tutti, chi ci lavora dentro e chi le guarda da fuori, siano convinti che le carceri devono essere trasparenti, e che una società che, quando punisce, sa anche essere mite e rispettosa dei diritti dei condannati è senz’altro una società più sicura. A far parte di questo Osservatorio devono essere chiamate persone che hanno prestigio, competenza e voglia di regalare un po’ del loro tempo all’obiettivo di ridare dignità alle galere.

Quelle che seguono sono due testimonianze, una di un Agente di polizia che tempo fa ci ha scritto una lettera raccontandoci ciò che succede a una persona, impegnata nelle forze dell’ordine, che improvvisamente si trova a essere famigliare di un detenuto; e poi quella di un detenuto, che ricorda i rischi che corre la civiltà di un paese che ancora non riconosca il reato di tortura. Sono due testimonianze che servono a far capire quanto è importante riflettere senza paura su questi temi.

 

Io poliziotto parente di detenuto

 

A tutti potrebbe capitare di avere un proprio caro che finisce in carcere… ecco, per l'appunto, a me è capitato. Non sono un Agente della Polizia Penitenziaria, ma sono comunque un Agente di Polizia. Se una settimana prima che incominciasse la mia "doppia" vita (da poliziotto e da parente di un detenuto) qualcuno mi avesse chiesto che cosa avrei fatto se mi fosse accaduto quanto poi è accaduto, gli avrei risposto che quel parente "avrei dimenticato" di averlo.

Fortunatamente, invece, ho cominciato da subito a correre contro corrente; ho avuto la fortuna di iniziare a crescere ed arricchirmi di un'esperienza non comune: capire che la vita non è scontata... capire tante cose che non avresti mai accettato... capire che una persona "normale" può sbagliare... capire che fare il tuo lavoro diventa ancora più significante, se lo vedi con un po' più di umanità e se vedi tutti i lati delle persone.

Non è stato facile... ci sono voluti anni perché io giungessi a capire quanto era accaduto... purtroppo e per fortuna non è una esperienza che capita a tutti, e non è semplice accettare le cose che non hai scelto di vivere... è sempre facile dire "io avrei fatto così, io mi sarei comportato cosi", ma quando capita a te, è veramente tutto diverso, è veramente un altro mondo, un mondo parallelo, e solo chi lo vive e lo affronta dalla parte ed a fianco del detenuto, può capire.

Ma per fugare ogni dubbio, comunque, voglio dire che non ho affrontato il mio lavoro in modo diverso da prima, semplicemente l'ho fatto con più serenità... anch'io come i miei colleghi, nei primi anni del mio lavoro, ero convinto di avere la possibilità di giudicare, il dovere di "punire" anch’io chi sbagliava... ma non era così... era solo un'illusione ed una debolezza del mio carattere, che si nascondeva, a volte, dietro una divisa, perché diversamente forse non hai abbastanza "soddisfazioni" e sicurezze nella vita. So per esperienza che la divisa, se portata con un po' di arroganza, non rispecchia proprio quello che dovrebbe essere il tuo lavoro... rispecchia solamente, purtroppo, una persona frustrata che cerca le sue sicurezze utilizzando l'abito che indossa.

 

Lettera firmata

 

Introdurre il reato di tortura

 

Sembra che sia dovuto morire un ragazzo per ricordare che i luoghi della privazione della libertà sono spesso anche luoghi di violenza. Il Comitato europeo contro la tortura, che periodicamente manda i suoi ispettori in Italia, raccoglie da tempo testimonianze di maltrattamenti. Nel suo rapporto del 2003 (consultabile nel sito www.cpt.coe.int) il Comitato racconta vari episodi di sospetta violazione dei diritti delle persone private della libertà personale avvenuti nelle questure, nelle caserme, nelle carceri e nei centri di identificazione.

Gli organi internazionali hanno sempre riconosciuto che la cattura di un sospetto è un compito che comporta spesso dei rischi, in particolare quando questo fa resistenza, oppure quando i funzionari di polizia hanno delle ragioni per credere che il sospetto sia armato e pericoloso. Tuttavia il Comitato ha ricordato nuovamente all’Italia nel rapporto del 2006 che, dal momento che una persona è stata fermata, niente può giustificare che venga poi maltrattata.

Una continua pressione viene fatta sul Governo italiano perché introduca nel Codice Penale il reato di tortura. Sono diversi anni che si discute l’introduzione del nuovo articolo 613 bis, che stabilisce per il delitto di tortura la pena da sei mesi a dieci anni, ma sulla nozione di tortura si è aperto un dibattito che ha di fatto bloccato il processo legislativo.

Intanto anche il Comitato contro la tortura della Nazioni Unite, dopo aver esaminato l’ultimo rapporto presentato dall’Italia, ha espresso preoccupazione sul fatto che ci possa essere un uso eccessivo della forza da parte delle forze dell’ordine italiane, raccomandando al Governo di adottare misure efficaci per combattere i maltrattamenti, ad esempio facendo pervenire un messaggio chiaro a tutti i livelli gerarchici delle forze di polizia e del personale penitenziario, un messaggio che dica senza possibilità di equivoci che tortura, violenza e maltrattamenti sono inaccettabili, e accertandosi che coloro che segnalano aggressioni del genere siano protetti da atti di intimidazione per tali denunce.

Gli organi internazionali continuano a esercitare un controllo, affinché non si verifichi più alcuna violenza sulle persone appena arrestate, ma anche sui condannati, e sugli stranieri in attesa di identificazione ed espulsione. Oggi gli stranieri reclusi come me rappresentano la causa prima di tutte le paure e i problemi della società, e finché continuerà a perpetuarsi l’allarme mediatico su tutto ciò che fa paura, ci sarà sempre qualcuno convinto di avere il mandato per umiliare e degradare chi è in manette.

 

Elton Kalica

 

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