L'opinione dei detenuti

 

Quando i figli dei detenuti pagano colpe non loro

a cura della Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 16 marzo 2009

 

Chiedere alle persone, in un momento di rabbia, paura, incattivimento generale come questo, di provare a pensare che tutti noi potremmo essere vittime di reati, ma che ci potrebbe capitare anche di commetterlo, un reato, è inutile, nessuno vuole neppure provare a immaginare una possibilità così dolorosa, e così poco "rassicurante". Però almeno cercare di mettersi nei panni del figlio di un detenuto, quello non dovrebbe essere così difficile, perché i figli sono davvero innocenti, e pagano purtroppo per colpe non loro, ma anche per l’indifferenza di una società, che non ha voglia di preoccuparsi troppo per i "figli dei delinquenti".

 

Così la galera spezza anche i legami affettivi

 

Ho anch’io dei figli come tanti compagni chiusi qui con me. Fra qualche mese saranno dieci anni che mi trovo in carcere, condannato per traffici illeciti (altro che dire che in Italia nessuno sta in carcere). Ho sbagliato e sto facendomi la galera senza lamentarmi, però anche i miei figli stanno facendosi la galera in un altro senso senza nessuna colpa, sono rimasti soli come me. Mi sono sposato a trent’anni. Avendo avuto un’infanzia dura, mi ero fissato con l’idea che non dovevo fare figli prima di assicurar loro un tetto sopra la testa, come si dice nel mio Paese. Ma non era facile. Ho dovuto fare tanti lavori e sono arrivato a scegliere la strada sbagliata, e come si vede sto pagando. Però, per me questa condanna si è moltiplicata, nel senso che ho perso la famiglia durante la mia carcerazione, prima mia madre e poi mio padre se ne sono andati per sempre senza che li abbia più rivisti, e con loro se ne è andata una parte della mia vita. Ma per me il colpo più duro è stato quando mio figlio è venuto a colloquio nel carcere di Novara, dove i familiari erano separati dai detenuti da un vetro, e non potendo sedersi sulle mie ginocchia mi ha detto che non sarebbe più venuto a trovarmi. Pensavo fosse un capriccio, invece le cose sono andate proprio così, e per me è stato un duro colpo. In tutti questi anni ho scritto decine di lettere senza mai avere una risposta, qualcuno mi ha detto che per lui la brusca separazione è stata un trauma. Credo che, essendo abituato quando ero a casa a stare sempre con me giorno e notte, si è visto di colpo mancare il padre e non ha accettato questa situazione. Anche per me è stato un colpo, solo che ho cercato di nascondere i miei sentimenti. Successivamente mia moglie mi ha lasciato e questo ha causato un ulteriore allontanamento di mio figlio. In dieci anni di carcere l’ho visto tre volte, l’ultima è stata due anni fa, e mi sono domandato: perché mi abbracciava e piangeva senza dire una parola? Ho pianto anch’io, perché oltre a prendere atto di quanto sia cresciuto non ho potuto far altro, se non qualche carezza. Questo fatto mi ha segnato molto, ogni sera prendo un pugno di farmaci poiché la sofferenza e i sensi di colpa mi stanno facendo venire fuori un mare di malattie. Mi sono rovinato da solo, ma la mia responsabilità è più grande per aver rovinato la vita di mio figlio, la cui unica colpa è di avermi avuto come padre, anche se sono sicuro che nessuno in questo mondo lo amerà come l’ho amato io. Però non riesco ad accettare che la galera mi abbia inflitto il duro colpo di spezzare i nostri legami familiari. Penso che la società potrebbe e dovrebbe fare di più per le famiglie, anche per quelle dei detenuti, in modo che non si spezzino i rapporti affettivi. E questo per un motivo semplice anche da spiegare: che siano ricchi, poveri, carcerati o emigrati i loro genitori, i figli sono tutti uguali.

 

M. G.

 

La nostra condanna sulle spalle dei familiari

 

Durante un colloquio, mia moglie mi ha detto che mio figlio, dopo aver letto quello che gli avevo scritto, si è girato verso di lei dicendo "Vorrei che fosse qui a dirmi queste cose". Noi detenuti siamo spesso tenuti all’oscuro, da parte delle nostre famiglie, della sofferenza dei nostri figli. Durante i colloqui cerchiamo di non fare capire ai nostri cari quanto possa essere opprimente qui, e loro, a loro volta, fanno in modo di tacere il loro stato d’animo, sul quale la nostra condanna, il nostro status di carcerati, pesa spesso più che a noi. Io sono dentro da 15 mesi e i miei figli hanno 20 e 17 anni, erano in qualche modo "preparati" al mio ingresso in carcere. Ciononostante, mia figlia, che pure ha 20 anni, poche settimane fa mi ha chiesto "Papà, quando torni a casa?". Ma se è così per loro, come può essere per quei figli che hanno il genitore in carcere da anni? Per quei bambini di 2, 5, 10 anni che, per due o tre volte al mese (se sono fortunati) vivono il trauma delle sbarre, delle porte blindate, di essere perquisiti e vedere perquisita la madre e controllati i cibi e i vestiti portati al loro padre, zio, nonno? Che voglia straripante possono avere di passare un po’ più di tempo con chi a loro è, in ogni caso, tanto caro? A noi è stata tolta la libertà, ma perché a loro deve essere tolto l’affetto, la possibilità di un vero contatto, di una affettività familiare che è imprescindibile per una crescita emotiva sana ed equilibrata? Certo è colpa nostra se soffrono, ma questo nulla toglie al fatto che la legge, i regolamenti in materia siano limitati, retrogradi, aridi. Quale persona di buon senso, quale padre, madre o figlio, può mai affermare che è giusto che questi bambini incontrino il loro caro in mezzo ad un marasma di gente totalmente estranea, senza poterlo abbracciare o baciare (altrimenti arriva l’agente a ricordare che non si può, pena la fine anticipata del colloquio) senza poter esternare i propri sentimenti (devono tutti dimostrarsi forti e sorridenti anche se avrebbero caso mai voglia di piangere e di urlare) e questo dopo aver subito "l’onta" di una perquisizione alla stregua di potenziali "pacchi esplosivi". Più scrivo e più mi rendo conto della loro sofferenza, di quanto possa essere stato cieco chi è qui dentro e quale forma di spregevole egoismo verso i loro figli, i loro nipoti, possa aver avuto, ma perché lo stesso, anzi peggio fa questo Stato nei loro confronti? Credo che una società che si definisce civile non possa permettere, nella massima indifferenza, che sia inflitta una condanna di tale portata a questi innocenti. La forza, la coscienza e il grado di civiltà di una società li si "pesa" in primo luogo da come sa proteggere il futuro dei propri ragazzi. Speriamo allora che mettano mano a questo pasticcio e concedano a loro e a noi mentre scontiamo la nostra pena di poter mantenere quel minimo di equilibrio affettivo, senza il quale qualsiasi bambino e adolescente rischia una deriva interiore drammatica.

 

Marco L.

 

In Francia i servizi sociali favorivano i nostri colloqui

 

Sono stato arrestato in Francia nel 1993, quando mia figlia aveva appena cinque anni. Dal momento della mia incarcerazione, i servizi sociali hanno fatto tutto il necessario perché io riuscissi a mantenere il mio rapporto con mia figlia e la mia convivente. Devo ammettere però che in quel momento non volevo vedere nessuno, tanto meno la mia compagna e la nostra bambina, in quanto la situazione era grave e io non sapevo proprio come affrontarla. Dopo aver preso questa decisione, non ho più inoltrato le richieste d’autorizzazione per i colloqui. Tre mesi più tardi sono stato convocato dal servizio sociale dell’istituto, che mi ha chiesto i motivi per cui non volevo effettuare i colloqui con i miei familiari. Io mi sono limitato a ribadire il mio rifiuto più categorico, e la stessa cosa ho detto al direttore dell’istituto. Pensavo che tutto sarebbe finito li, ma mi ero sbagliato, circa un mese più tardi a convocarmi fu il giudice di applicazione delle pene. Ricordo che lui mi ha spiegato quanto è importante, per un bambino in tenera età, avere, nonostante la situazione, la presenza paterna. A forza di insistere mi ha convinto, e per questa sua insistenza posso solo ringraziarlo. Infatti ho inoltrato la richiesta per i permessi di colloqui. Al mio primo colloquio, mi sono trovato davanti una bambina di sei anni che quasi non riconoscevo, stressata per la mia assenza e arrabbiata con me. Ha cominciato a piangere e gridare che non l’amavo più, che l’avevo abbandonata, che non capiva cosa avesse fatto di male perché non la volevo vedere. Nel carcere dove mi trovavo i colloqui erano autorizzati tutti i giorni fino alle 17.30. Questo mi ha permesso di trascorrere praticamente una settimana con lei e quando sono partite per Marsiglia era molto più serena. In seguito, la vedevo una settimana ogni tre mesi, anche perché il viaggio costava molto, e la mia compagna si era trovata a doversi assumere tutte le responsabilità che le avevo lasciato. Un giorno, parlando con la responsabile del servizio sociale dell’Istituto, le ho raccontato che purtroppo non era possibile per i miei familiari venirmi a trovare più spesso, in quanto i soldi non erano sufficienti. Mi ha risposto che, se era solo questo il problema, ci avrebbero aiutato loro. E infatti all’inizio si sono fatti carico delle spese del viaggio, poi hanno trovato un lavoro e una abitazione per loro vicino all’istituto. Quello che mi lascia perplesso qui in Italia è che tutti parlano di preservare questi legami, ma quasi nessuno fa niente, solo chiacchiere.

 

Walter Sponga

 

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