L'opinione dei detenuti

 

Detenuti clandestini, storie di fallimenti e dolore

a cura della Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 13 luglio 2009

 

Se sei un immigrato regolare oggi hai ancora "qualche" possibilità, solo qualche però, di essere accettato, ma se sei un immigrato detenuto, non esiste margine per la speranza. Ti senti nessuno in galera, nessuno quando esci, ma sei nessuno anche se ti rispediscono al tuo Paese dopo anni di carcere in Italia. Le riflessioni che seguono nascono a partire da una raccolta di piccole testimonianze di detenuti espulsi e tornati "a casa" in luoghi, che ormai non conoscono, anzi non ri-conoscono più. Storie di fallimenti e dolore: saranno pure tutti "mostri", i clandestini, ma forse un’anima ce l’hanno pure loro.

 

Dopo essere sopravvissuto alla galera, l’ignoto

di Elton Kalica

 

Non ho fatto qualcosa di irreparabile per finire qui, non ho un reato di sangue da espiare. Tuttavia ho sofferto abbastanza per capire che la galera è una violenza che va usata con cautela nella quantità e nei modi, anche verso chi ha commesso i reati più gravi. È vero che molte persone, di fronte a reati come l’omicidio, sono portate a pensare che la galera non basti mai. Ho trascorso talmente tanti anni qui dentro che non ricordo più se pensavo anch’io la stessa cosa prima di entrarvi, ma la galera mi ha insegnato che dopo un po’ di "botte" la pelle si ispessisce e si è portati ad allontanarsi dal proprio corpo, non si sente più il male, né gli anni che si passano in cella. Così anche chi è stato condannato a pene lunghissime si abitua e si lascia andare alla monotonia dell’attesa. E, dimenticando perfino di aver mai avuto una vita normale, spesso finisce per spaventarsi proprio del ritorno a questa vita normale, come sono spaventato io ora che mi avvicino al fine pena.

 

Quando i miei compagni rimpatriati mi scrivono

 

… non ho trovato più nessuno di quelli che conoscevo. Il condominio è popolato da gente nuova, facce sconosciute arrivate da lontano, giovani coppie distratte oppure gruppi di studenti rumorosi... Molti miei conterranei dopo aver espiato la pena vengono rimandati in Albania, e immancabilmente, dopo qualche settimana mi arriva una lettera in cui la notizia del ritorno è subito seguita dalla descrizione di un luogo popolato da persone sconosciute, mentre i ricordi conservati gelosamente negli anni di emigrazione tutto d’un tratto svaniscono nelle strade di una città ormai estranea.

 

… sono stato uno stupido a non aver preso sul serio la storia con Mira. Sai che aveva gli occhi dal colore del mare quando la quiete ti permette di vedere anche i sassolini nel fondale? Ricordo come fosse ora il silenzio delle ore trascorse stesi nell’erba del parco e la voracità dei miei baci... Un mio compagno di cella continuava ad essere così affascinato dal ricordo della sua ex fidanzata che ha trascorso quattro anni di carcere pensandola, desiderandola. Era talmente convinto che una volta ritornato a casa sarebbe riuscito a riconquistarla e sposarla, che attese l’espulsione orgogliosamente. Invece la lettera che mi scrisse poi non aveva nulla di fiero, dato che aveva scoperto che il suo sogno era diventata una donna sposata, e incinta del secondo figlio.

 

… mio zio è direttore di un ufficio importante al Ministero del turismo. È così importante che ha trovato lavoro a tutti i miei cugini. Uno lavora in una filiale di Durazzo. Un altro fa il caposala in un albergo lussuoso. Insomma si sono sistemati tutti. A me basterebbe trovare un posto come autista, ho la patente per gli autobus, posso portare i turisti a fare il giro della costa... Il progetto lavorativo di Artan prevedeva la raccomandazione dello zio, una pratica diffusa anche in Albania, ma quando è tornato a casa ha scoperto che lo zio era morto d’infarto da tre anni. Un mese dopo il suo rimpatrio, mi scrisse un’unica lettera in cui brevemente mi raccontava di essere solo, disoccupato e ostinato a rientrare in Italia da clandestino.

 

… è incredibile come il mio bambino più piccolo sta crescendo a vista d’occhio. Una volta al mese, si misura l’altezza e poi al colloquio mi aggiorna. Questa volta ha detto di essere alto un metro esatto, vuole diventare come Raul Bova perché piace alle sue compagne di classe. Ma tu sai quanto è alto Raul Bova? mi ha domandato quel giorno Nico mentre, appoggiato al cancello della cella, mi raccontava l’ultimo colloquio con la moglie e i tre figli. Aveva fatto ricorso contro l’ordinanza di espulsione per non essere separato dalla famiglia, ma poche settimane prima del fine pena lo hanno rimpatriato. La moglie e i figli vivono sempre a Genova, e lui per un po’ ha continuato a scrivermi raccontandomi come aiuta telefonicamente i figli a fare i compiti, e come rimpiange i tempi della galera quando per lo meno vedeva la famiglia una volta a settimana.

 

Un ventenne circondato da diciassette anni di vuoto

 

Se non si può chiamare vita una condizione in cui tutto ti è proibito – non puoi vedere i genitori, non puoi fare una camminata se ti prende un crampo al polpaccio, non puoi prendere il telefono e chiamare un’amica, o chiamare il dentista se hai mal di denti, non puoi fare la doccia quando hai bisogno, mi domando come si può chiamare una esistenza come la mia in cui, oltre alle migliaia di proibizioni, mi sono imposto anche il divieto di fare progetti.

Quando a vent’anni ti trovi condannato a una pena lunga, vedi innalzarsi intorno lentamente un muro ancora più alto di quello che circonda il carcere. Ciò che ho visto io sin dall’inizio della carcerazione è stato un muro alto diciassette anni di galera, del colore di una nebulosa intensa e fredda che impediva di vedere come sarebbe stata la mia vita.

Oggi che mancano meno di tre anni alla fine della condanna, continuo a essere circondato dall’ignoto: non ho mai saputo cosa succede veramente a casa mia, come stanno di salute le persone che amo, perché loro si ostinano a tranquillizzarmi dicendo sempre di stare bene. Ma se era difficile progettare la mia vita nei primi anni di carcere, adesso sento che vivere circondato da questo muro di ignoranza rende ancora più difficile ogni tipo di pianificazione. Spesso mi ritrovo a ripassare mentalmente la giornata in cui ho fatto l’atto per cui sono finito qui dentro, ma un ventenne confuso che faceva cose sbagliate non può essere compreso da un trentenne che sta imparando a ragionare. Rivedo il processo concluso rapidamente, la difesa inesistente, la pesante condanna e puntualmente finisco per odiare il fato che mi ha intrappolato in questa sfortunata odissea italiana. Certo, tutti i giorni sento di stranieri che nei loro viaggi, nei luoghi di lavoro o nelle case comperate a fatica incontrano destini più spietati del mio, tragedie che trascinano donne incinte in fondo al mare, sfasciano impalcature sotto i piedi di uomini sudati, incendiano baracche mentre i bambini dormono dentro. E allora, l’ottimismo si rivela un sentimento difficile da provare se guardo a questi milioni di progetti fatti di sofferenza e di non-vita.

 

In attesa di riscoprire il mondo

 

C’è chi esce di galera e riesce a godere di opportunità affettive e lavorative decenti, così come escono persone incapaci di trovare la forza per costruirsi un’esistenza dignitosa, ma qui dentro, chi più chi meno, avevano imparato a sopravvivere adattandosi anche alle condizioni più difficili, oppure rendendosi insensibili alla sofferenza. Forse anche io ormai sono talmente assuefatto alla galera che ho iniziato a illudermi di vivere una vita normale, in mezzo a gente che mi stima, e vedo questa fase come una sfortunata parentesi della mia vita, piuttosto che il crudele castigo dell’emigrazione.

Ovviamente uscirò trasformato rispetto al ventenne che ero quando sono finito in carcere, ma nella stessa misura anche il mio mondo dimenticato di amici e parenti sarà cambiato. E dovrò imparare a fare lavori che non ho mai fatto, e dovrò relazionarmi con persone di una età di cui conosco poco, e dovrò sopravvivere in una società sempre più ostile verso uno come me, attento a vincere le mie paure e a contenere il mio orgoglio.

C‘è chi dice che la difficoltà più grande è rappresentata dal momento in cui si attraversa la porta del carcere ma che poi tutto diventa facile come prima. Io invece credo che sarà drammatico quando mi toglierò di dosso il velo di ignoranza che mi ha avvolto in questi anni e scoprirò tutto quello che è successo, mentre io cercavo di sopravvivere alla galera.

 

Per invio materiali e informazioni sul notiziario
Ufficio Stampa - Centro Studi di Ristretti Orizzonti
Via Citolo da Perugia n° 35 - 35138 - Padova
Tel. e fax 049.8712059 - Cell: 3490788637
E-mail: redazione@ristretti.it
 

 

 

 

 

Precedente Home Su Successiva