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Notiziario quotidiano dal carcere

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Edizione di martedì 28 agosto 2018

RISTRETTI

1. Attacco hacker a Ristretti Orizzonti. “Hanno cancellato 20 anni di dati” di Alessandro Macciò Corriere Veneto, 28 agosto 2018 Due attacchi informatici a 48 ore di distanza l’uno dall’altro mirati a distruggere l’archivio ...

2. Ristretti Orizzonti vittima degli hacker di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 agosto 2018 Il sito della rivista, realizzata nel carcere di Padova, ha subito un attacco informatico: il terzo. Grave attacco informatico al sito ...

POLITICA

3. Magistratura e politica: è tornata la guerra di Piero Sansonetti Il Dubbio, 28 agosto 2018 Il caso Diciotti riaccende l’interventismo dei pm. Siamo tornati ai tempi nei quali varie magistrature facevano a gara per incriminare ...

4. Gli attacchi ricompattano le toghe. Anche i moderati tornano in trincea di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 28 agosto 2018 Fastidio per la frase del premier dopo il crollo di Genova, poi l’escalation del leader leghista ...

5. Il ministro Bonafede: “è anacronistico parlare di pm politicizzati” di Liana Milella La Repubblica, 28 agosto 2018 La magistratura va rispettata. Parlare di pm politicizzati oggi è del tutto fuori tempo. Quanto alla separazione ...

6. Luigi Ferrajoli: “per Salvini il consenso legittima qualunque abuso” di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 28 agosto 2018 Il giurista di “Diritto e ragione” e “Principia Iuris”: “Su quella nave c’è stato un sequestro di persona ...

7. Giustizia, per evitare litigi Lega-M5S slittano prescrizione e intercettazioni di Ilario Lombardo e Alberto Mattioli La Stampa, 28 agosto 2018 Il ministro Bonafede prende tempo. Il leghista prepara il decreto sicurezza ...

8. Forza Italia pressa la Lega: ora la riforma della giustizia di Fabrizio de Feo Il Giornale, 28 agosto 2018 Il centrodestra d’accordo sulla necessità di intervenire. Ma frena il ministro della Giustizia grillino Bonafede. Riforma ...

9. Genova G8, la democrazia mai risarcita di Lorenzo Guadagnucci* Il Manifesto, 28 agosto 2018 Risarcimenti per danni d’immagine. Tre milioni per i risarcimenti pagati ai torturati, 5 per i danni d’immagine: tanto vale, per ...

GIURISPRUDENZA

10. L’ingente quantità di denaro non basta per il riciclaggio se manca il reato presupposto di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 28 agosto 2018 Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 27 agosto 2018 n. 39006. Il possesso ...

11. L’esiguità della somma sottratta con la rapina non fa scattare la tenuità del danno di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 28 agosto 2018 Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 27 agosto 2018 n. 38982. L’esiguità della ...

12. Bancarotta per liquidatore che non acquisisce contabilità anni precedenti di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 28 agosto 2018 Corte di cassazione - Sentenza 27 agosto 2018 n. 39009. Scatta il reato di bancarotta ...

13. La ricusazione del giudice penale. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 28 agosto 2018 Processo penale - Soggetti - Giudice - Ricusazione - Causa prevista all’art. 37, comma 1, lett. b) Cpp-Configurabilità. In materia di ...

TERRITORIO

14. Molise: se il terremoto mette a rischio le strutture di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 agosto 2018 I direttori degli istituti di Larino e Campobasso chiedono sopralluoghi e interventi. Continua lo sciame sismico in Molise e si ...

15. Marche: “fondi per le attività trattamentali”, l’appello del Garante dei diritti dei detenuti marchenotizie.info, 28 agosto 2018 Ripartita la serie di sopralluoghi del Garante Nobili negli istituti penitenziari della regione. Riparte da ...

16. Torino: suicida alle Molinette il boss romano della “Cosa Nostra Tiburtina” di Carlotta Rocci La Repubblica, 28 agosto 2018 Il presunto boss della “Cosa Nostra Tiburtina”, Giacomo Cascalisci, capo di un clan sgominato in marzo ...

17. Udine: muore in ospedale detenuto 18enne, si era impiccato in cella una settimana fa di Elena Viotto Il Gazzettino, 28 agosto 2018 È morto nel fine settimana in ospedale a Udine, dopo aver tentato di togliersi la vita in carcere ...

18. Ferrara: mostra delle fotografie realizzate con i detenuti fotografi della Casa circondariale spreafotografia.it, 28 agosto 2018 Un progetto di Cristiano Lega. “Gli uomini devono sapere che da niente altro se non dal cervello deriva ...

AFFARI SOCIALI

19. Gli “haters” dei social somigliano a Cicerone? È un segnale d’allarme di Antonio Carioti Corriere della Sera, 28 agosto 2018 Il dilagare di quelli che oggi chiamiamo “discorsi d’odio” non causò la caduta della Repubblica, ma possiamo ...

20. Gli immigrati? Oltre il 70% degli italiani pensa che siano 4 volte di più di Valentina Iorio Corriere della Sera, 28 agosto 2018 Uno studio dell’Istituto Cattaneo rivela che l’Italia è il Paese europeo con il maggior distacco tra la ...

21. Migranti. La creazione di invisibili che il governo rimuove di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 28 agosto 2018 Oggi non c’è un problema per gli sbarchi, che sono in calo, mentre non si hanno più notizie di 600 mila extracomunitari ...

ESTERI

22. Libia. Battaglia nelle strade di Tripoli, una milizia si ribella ad Al-Serraj di Giordano Stabile La Stampa, 28 agosto 2018 La milizia Al-Kani della cittadina di Tarhouna, 50 chilometri a Sud della capitale, ha lanciato ieri un’offensiva verso ...

23. Myanmar. L’Onu chiede di incriminare i generali birmani per il genocidio dei Rohingya La Repubblica, 28 agosto 2018 Il rapporto della commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite i leader dell’esercito sono responsabili delle stragi ...

APPUNTAMENTI

- "Informazione e sistema dell'esecuzione penale". Convegno conclusivo del Master di II livello in "Diritto penitenziario e Costituzione" - pdf (Roma, 14 settembre 2018)

- Presentazione libro "Sogni lucenti tra mura bianche di cemento", di Giovanni Farina (Firenze, 18 settembre 2018)

- Agorà Penitenziaria 2018. XIX Congresso Nazionale Simspe-Onlus - pdf (Roma, 4-5 ottobre 2018)

Questo notiziario è registrato al Registro Stampa del Tribunale di Padova (n° 1964 del 22 agosto 2005)
e al Registro Nazionale degli Operatori della Comunicazione (n° 12772 del 10 dicembre 2005).
Ha ottenuto il Marchio di Certificazione dell'Osservatorio A.B.C.O. dei Beni Culturali

 

 


Attacco hacker a Ristretti Orizzonti. “Hanno cancellato 20 anni di dati”
di Alessandro Macciò

Corriere Veneto, 28 agosto 2018


Due attacchi informatici a 48 ore di distanza l’uno dall’altro mirati a distruggere l’archivio ventennale di Ristretti Orizzonti. Vista la modalità di azione degli hacker (o dell’hacker) è difficile pensare che si sia trattato di una casualità. Ne è convinta anche la direttrice di Ristretti Orizzonti, Ornella Favero, che dice: “Evidentemente diamo fastidio a qualcuno”. L’archivio dell’associazione ora dovrà essere interamente ricostruito dalle copie di backup.
Sull’homepage c’è scritto solo che il sito “è in fase di costruzione”, ma si capisce subito che c’è qualcosa sotto. E infatti sulla pagina Facebook si parla di “un grave attacco informatico che ha distrutto il nostro archivio”.
Ristretti Orizzonti finisce nel mirino degli hacker, o almeno così sembra: domenica notte il sito del giornale curato dai detenuti del Due Palazzi è stato oscurato e reso inaccessibile per tutto il giorno, proprio come accade ai portali di bersagli grossi come aziende e istituzioni. Lo staff della rivista poi ha trovato il modo di realizzare e recapitare la rassegna stampa quotidiana ai diecimila lettori della mailing list, ma il blackout del sito non verrà risolto prima di 24 ore e l’archivio è tutto da rifare. “Quando ci siamo accorti che il sito non funzionava, abbiamo contattato il gestore del server e abbiamo scoperto che si trattava di un attacco massivo - svela Francesco, responsabile della rassegna stampa di Ristretti Orizzonti.
Il gestore ci ha detto che durante la notte erano stati caricati sul nostro sito oltre 40 gigabyte di dati, quantità che corrisponde a circa venti milioni di accessi e che ha sovraccaricato il server fino a farlo sprofondare. Il gestore inoltre ci ha detto che si tratta di accessi reindirizzati da Facebook, ora attendiamo il rapporto per capire se l’attacco è stato doloso o meno. Di sicuro si è trattato di un afflusso anomalo, che ha cancellato il nostro database con 180 mila notizie raccolte in vent’anni: si può recuperare tutto perché abbiamo sempre fatto dei backup, ma per farlo dovremo rimboccarci le maniche”.
Due giorni prima dell’attacco a www.ristretti.org (il nuovo sito “dinamico” della rivista) c’era stato anche quello a www.ristretti.it (il vecchio sito “statico”, che nel frattempo era tornato online e ieri ha ospitato la rassegna stampa).
“Per ora ce la siamo cavata così, ma il nuovo sito va assolutamente ripristinato - dice Francesco. Due episodi di questo tipo nell’arco di 48 ore non mi sembrano una casualità: forse qualcuno non è contento del lavoro che facciamo, anche perché le nostre informazioni sono gratuite e queste interruzioni non ci procurano un danno economico”.
Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti e presidente della Conferenza nazionale Volontariato e giustizia, ha la stessa sensazione: “Sono avvilita, una cosa del genere non ci era mai successa, si vede che diamo fastidio per i temi che trattiamo. La nostra rivista è nata con l’obiettivo di essere una creatura molesta ma utile: abbiamo sempre fatto un’informazione non urlata e non vittimistica, con cui ci siamo conquistati credibilità e speravo anche un minimo di sicurezza. Purtroppo in questo periodo prevale chi dice che più le pene sono dure e più le città sono sicure, cioè il contrario di quel che abbiamo sempre sostenuto noi, e dobbiamo anche affrontare altri tipi di problema, come il ridimensionamento della rivista voluto dalla nuova direzione del carcere”.
L’attacco informatico infatti è arrivato a una settimana dalla pubblicazione della lettera “Nelle carceri si sta perdendo la speranza nel cambiamento. E anche Ristretti Orizzonti è a rischio”, in cui Ornella Favero chiedeva scusa ai lettori per i ritardi nelle consegne della rivista e chiamava in causa il direttore del Due Palazzi, Claudio Mazzeo: “La decisione di ridimensionare tutti i progetti di Ristretti Orizzonti è stata presa dalla direzione prima di qualsiasi confronto - si legge nella lettera. Per noi questo significherebbe licenziare qualcuna delle persone che, dopo un’esperienza di carcere, hanno continuato a lavorare con noi”. L’appello aveva raccolto la solidarietà dell’unione delle camere penali italiane. E dopo l’attacco informatico di ieri, sono arrivati tanti altri messaggi di affetto e incoraggiamento.

Ristretti Orizzonti vittima degli hacker
di Damiano Aliprandi

Il Dubbio, 28 agosto 2018


Il sito della rivista, realizzata nel carcere di Padova, ha subito un attacco informatico: il terzo. Grave attacco informatico al sito di Ristretti Orizzonti. Ieri notte, il server della redazione è stata vittima di un hackeraggio che ha distrutto tutto l’archivio. “È la terza volta in 20 anni, ma le altre volte non era stato così grave”, spiega Francesco della redazione di Ristretti Orizzonti e curatore del dossier sulle morti in carcere.
“È cosa gravissima, un danno irreparabile per noi tutti”, dice Rita Bernardini del Partito Radicale esprimendo solidarietà per l’accaduto. Un sito, quello di ristretti, che fornisce giornalmente una rassegna stampa su tutto ciò che riguarda il sistema penitenziario e giudiziario, oltre a documenti, report, approfondimenti sulle criticità che sistematicamente coinvolgono il mondo carcerario. Un sito che viene spesso utilizzato da varie associazioni, ma anche giornali, per documentare dati statistici, notizie che passano inosservate. Un lavoro che la redazione di Ristretti Orizzonti fa accuratamente, nei minimi dettagli.
Realizzata nella Casa di Reclusione di Padova, in questi anni Ristretti Orizzonti è diventata in Italia una fra le più qualificate e autorevoli riviste sui temi del carcere e del disagio sociale legato alla carcerazione. E continua a esserlo. Un pungolo, una luce accesa dove molti non guardano. È una redazione fatta di volontari e detenuti intorno alla quale, in più di vent’anni d’attività, sono nati progetti straordinari, percorsi culturali che tante cose in meglio hanno cambiato, nel carcere e nelle persone. Ricordiamo che attualmente sta attraversando un periodo difficile, come ha denunciato Ornella Favero, che di Ristretti Orizzonti è direttore.
Non solo, per mancanza di fondi, rischia di chiudere e per questo c’è l’invito ad abbonarsi, ma all’interno dell’istituto di Padova ha avuto un drastico ridimensionamento dei suoi progetti, senza che la direzione del carcere si sia confrontato. “Un pungolo dell’Amministrazione penitenziaria, senza il quale l’amministrazione penitenziaria spesso dormirebbe”, disse a suo tempo Roberto Piscitello, direttore della Direzione generale Detenuti e Trattamento del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, riferendosi proprio alle attività di Ristretti.
Un esempio a rischio ridimensionamento è quello relativo al progetto - che dura da 15 anni a questa parte - che si occupa di prevenzione pensando ai giovani studenti e ai loro comportamenti a rischio.
“Protagonisti di questi percorsi - ha scritto Ornello Favero nel suo appello - sono la redazione di Ristretti Orizzonti e i suoi detenuti, che hanno deciso di portare le loro testimonianze mettendosi a disposizione delle classi che entrano in carcere, ma anche il personale della Polizia penitenziaria che accompagna i ragazzi con grande disponibilità e attenzione”.
Il comune di Padova crede nel valore di questo progetto e lo sostiene da sempre, dai primi incontri dedicati a poche classi, al progressivo coinvolgimento di tantissime scuole. Oggi, come denuncia Favero, c’è il rischio concreto di un ridimensionamento pesante del progetto, da due incontri in carcere a settimana a uno al mese. Altro esempio è la rappresentanza dei detenuti per elezione, non prevista dall’Ordinamento, ma neppure proibita, sperimentata da anni con successo nel carcere di Bollate - e recentemente a Sollicciano, che la scorsa direzione del carcere di Padova aveva approvato: c’erano state le prime elezioni, era in preparazione una formazione per gli eletti, e invece tutto è stato bloccato dal Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria per il Triveneto in nome del rispetto della legge.
“Ma allora Bollate e Sollicciano sono fuorilegge?”, si chiede Ornella. E poi, come ha già riportato Il Dubbio, la sospensione del progetto virtuoso “Mai dire mail”, avviato da più di un anno e apprezzato da tutti, detenuti, familiari, difensori e tutor universitari, perché permette una comunicazione perenne con i familiari, visto che attualmente, nelle carceri italiane, un detenuto può fare una telefonata di dieci minuti a settimana. Ora si aggiunge questo attacco informatico, fatto da professionisti, non certo da persone qualunque e si sta lavorando per ripristinare il sito. A chi può dar fastidio il lavoro di Ristretti Orizzonti?

Magistratura e politica: è tornata la guerra
di Piero Sansonetti

Il Dubbio, 28 agosto 2018


Il caso Diciotti riaccende l’interventismo dei pm. Siamo tornati ai tempi nei quali varie magistrature facevano a gara per incriminare Silvio Berlusconi (e a comunicarlo in anticipo ai giornali). Credo che furono una settantina i sostituti procuratori che gli mandarono un avviso di garanzia, ma il bilancio in termini giudiziari - fu magro: una sola condanna per un’evasione fiscale di una sua azienda, di due o tre milioni di euro su un bilancio miliardario, della quale lui fu considerato responsabile oggettivo, sebbene in quel periodo facesse il presidente del Consiglio, e c’è da supporre che non si occupasse delle dichiarazioni dei redditi di Mediaset.
Scarno il bilancio giudiziario ma ricchissimo il bilancio politico: alcuni suoi governi “sgarrettati” e poi il suo allontanamento dal Parlamento. Stavolta un Procuratore ha indagato non proprio il premier ma il leader politico che tutti considerano la vera guida del governo, e cioè Matteo Salvini. E lo ha fatto accusandolo di reati molto altisonanti: sequestro di persona (come l’anonima sarda degli anni settanta), arresto illegale (reato di solito riservato agli agenti di polizia o ai carabinieri) e poi il più classico e diffusissimo abuso d’ufficio.
Il risultato di questa operazione? È triplice. Il primo risultato è la quasi certezza che le accuse non supereranno la barriera del tribunale dei ministri se, come tutti ci auguriamo, questo tribunale sarà composto da magistrati saggi e pensanti. Il secondo risultato sarà l’enorme aumento della popolarità di Salvini e, probabilmente, l’aumento conseguente del sentimento di odio, di una parte non piccola della popolazione, verso i profughi e i migranti.
Il terzo risultato sarà la crescita dell’imbarazzo all’interno del movimento 5Stelle (che già è in gran sofferenza perché una parte del suo elettorato non vede di buon occhio la politica un po’ xenofoba di Salvini), e che ora dovrà anche spiegare perché dopo aver chiesto le dimissioni - per dire della Guidi o di Lupi, o di Alfano (dei tre, solo quest’ultimo era indagato) ora non chiedono anche quelle di Salvini. In ogni caso da questo momento, comunque vadano le cose, è riaperta, in modo ufficiale, la guerra tra magistratura e politica.
E la riapertura delle ostilità è stata certificata dall’Anm (il sindacato dei magistrati che in realtà è il loro massimo organo di rappresentanza politica) il quale ha chiesto al ministro Bonafede di intervenire per frenare gli attacchi di Salvini alla magistratura. Ora a me pare che in questi mesi e in questi giorni Salvini abbia attaccato un sacco di gente, anche con una certa violenza: soprattutto le Ong che fanno soccorso in mare, e i migranti abbandonati, malati e stremati, nelle navi che li hanno soccorsi. E poi la Boldrini, il Pd, Saviano e tanti altri. Ma nel suo rapporto con la magistratura, dobbiamo essere onesti, è lui la vittima di un attacco.
Non è che Salvini ha rimosso il dottor Patronaggio o ne ha chiesto la rimozione. No. È il dottor Patronaggio che ha inquisito Salvini proponendo accuse contro di lui che - nell’improbabilissima ipotesi che andassero in porto - porterebbero il nostro ministro a un lungo periodo di carcerazione. Sequestro di persona (articolo 605 del codice penale: da 3 a 12 anni se ci sono i minori); arresto illegale (articolo 606 da uno a tre anni); abuso d’ufficio (da 1 a 4 anni). Fate un po’ di conti: da 5 a 19 anni (se non saltano fuori aggravanti…). Ora io dico: uno per il quale vengono proposti 19 anni prigione, avrà o no il diritto, almeno, di protestare? E se protesta è ragionevole che i magistrati chiedano l’intervento di un suo collega ministro che lo zittisca?
Si capisce: è tutto un po’ paradossale. Come d’altra parte è paradossale tutta la vicenda della Diciotti. E se Salvini ha fatto un’ottima figura (e i Pm una pessima figura) nella fase finale di questa vicenda, è vero esattamente il contrario per quel che riguarda la fase iniziale.
Riassumiamola. Salvini ha bloccato in porto più di 150 persone, tra le quali parecchi minori e un numero consistente di persone seriamente malate. Le ha bloccate pur sapendo che venivano dall’Eritrea e che avevano certamente diritto all’asilo. Le ha bloccate sebbene fossero vittime di un naufragio. E nonostante le richieste dei medici di farli sbarcare perché la situazione sanitaria era allarmante. E nonostante gli appelli dell’Onu. E nonostante le pressioni dell’Europa. Perché lo ha fatto? Perché è un uomo spietato? O più probabilmente perché valuta che in questo modo si aumentano i consensi nell’elettorato? E la necessità di aumentare i consensi può essere la bussola per un un uomo di Stato?
Non è che se uno fa queste domande è perché ha deciso di fare il tifo contro il governo. Semplicemente le fa perché ritiene (come il Presidente Mattarella) che il buonsenso non deve avere paura del senso comune. Anzi, deve sfidarlo. E che il senso comune, magari, potrebbe essere più equilibrato se fosse messo a conoscenza di tutti i numeri. Cioè dello stato reale delle cose. Per esempio, se sapesse che i rifugiati in Italia sono 2,4 ogni mille abitanti, mentre in Germania sono 8 ogni mille abitanti, cioè più di tre volte i rifugiati in Italia.
In Svezia sono 23 ogni mille abitanti, cioè quasi dieci volte più dei nostri. A Malta, nella tanto vituperata e vigliacca Malta, sono 18 ogni mille abitanti, cioè circa 7 volte più dei nostri. Tra i paesi Europei (se escludiamo la Gran Bretagna, che ormai è fuori) solo la Grecia prende meno rifugiati di noi. Redistribuiamo, giusto, imponiamo all’Europa di farlo. Tenendo però conto che al momento noi siamo quelli che ne hanno di meno.
È vero che poi ci sono gli irregolari (i cosiddetti clandestini) che secondo le stime dell’Ocse sono circa mezzo milione in Italia, e cioè lievemente al di sopra della media europea (di un paio di decimali: 0,80 per cento contro una media dello 0,65), ma nessuno al mondo, come è ovvio, può chiedere la redistribuzione degli irregolari, che è ovviamente impossibile.
Per ridurne il numero ci sono solo due strade: o facilitare la regolarizzazione, cioè concedere più permessi (linea tedesca) o aumentare le espulsioni (linea ungherese). Ciascuno è libero di optare per una o l’altra di queste soluzioni, senza essere accusato di lassismo o di perfidia. Quello che non è bello è nascondere le cifre, impedire che si conoscano le cose come stanno.
E se poi qualcuno avesse voglia di fare un paragone con la feroce America di Trump, scoprirebbe che lì gli irregolari sono circa 12 milioni, cioè (sempre in proporzione sulla popolazione) circa cinque volte più che da noi. Da noi c’è circa un irregolare ogni 120 persone, da loro uno ogni 25. Cioè, in percentuale, da noi lo 0,8 per cento, da loro il 4 per cento. Pensate un po’.

Gli attacchi ricompattano le toghe. Anche i moderati tornano in trincea
di Giuseppe Salvaggiulo

La Stampa, 28 agosto 2018


Fastidio per la frase del premier dopo il crollo di Genova, poi l’escalation del leader leghista. Zittite anche le correnti pronte al dialogo col governo. Appello al M5S per il nuovo Csm. L’escalation polemica di Salvini ha compattato la magistratura sanando ferite profonde, ha costretto i più moderati al riarmo in trincea, ha mandato in fuorigioco i settori che avevano puntato sul cambiamento del governo pentastellato. 
A fine maggio solo due correnti della magistratura associata (quella progressista di Area democratica e quella centrista di Unicost) avevano firmato un documento in difesa del presidente della Repubblica Mattarella, minacciato di impeachment da M5S e Lega. Segno dell’aria che tirava. Le altre due - i moderati di Magistratura Indipendente e la neonata Autonomia e Indipendenza di Davigo - si erano dissociate. In luglio le elezioni del Csm le avevano premiate e Area, dopo una campagna battagliera e iperpolitica, aveva registrato una sconfitta storica (da 7 a 4 seggi). 
Dunque tra le toghe si era delineato un atteggiamento prevalentemente non ostile al governo. Un equilibrio che in pochi giorni è stato prima incrinato dall’uscita del premier Conte sul disastro di Genova (“Non possiamo aspettare i tempi della giustizia”) e poi travolto da Salvini. “Le sue frasi hanno fatto scattare un allarme - dice un magistrato di primo piano -. Di fronte a un ministro e leader politico che non critica legittimamente ma sbeffeggia la magistratura, scatta un riflesso difensivo, più forte di ogni altra considerazione. E la necessità di avvertire che così non si può andare avanti”. 
Nelle mailing list dei magistrati c’è fermento, il clima di “non pregiudizio” evaporato in fretta. L’immigrazione è tema su cui c’è forte sensibilità. Si discute sulla configurabilità in concreto dei reati ipotizzati dalla Procura di Agrigento, sul cui operato non mancano riserve anche se si riconosce l’eccezionalità del caso. Ci si divide sui limiti dell’intervento della magistratura in una delicata vicenda politica. Il 21 agosto Magistratura Democratica aveva apertamente attaccato Salvini, sollevando “interrogativi inquietanti” e dubitando della legittimità delle sue azioni, con un appello finale a “non rimanere in silenzio”. Due giorni dopo aveva circostanziato le accuse a sostegno dell’inchiesta giudiziaria. Le altre componenti della magistratura non si erano accodate a quella progressista, ringalluzzita dopo la scoppola elettorale. Ma Salvini, dicendo che “è vergognoso indagarmi perché difendo gli italiani”, le ha costrette a schierarsi, chiedendo all’unanimità un intervento formale del Csm. 
Un magistrato di lungo corso cita Calamandrei: “I giudici sono come i maiali: quando ne tocchi uno, gridano tutti”. Ora il cerino è in mano al M5S. Il presidente dell’Associazione magistrati Minisci, intervistato da “Repubblica”, ha chiesto al ministro della Giustizia Bonafede una difesa dagli attacchi di Salvini. Il quale rilancia la separazione delle carriere, col plauso di Berlusconi. Ritorno al passato.
E tra poche settimane si eleggerà il nuovo vicepresidente del Csm in un clima di battaglia. Impossibile per le toghe votare un esponente di Lega o Forza Italia, mentre sparano contro “i pm politicizzati”. Problematico il profilo del dem Ermini, troppo politico e troppo renziano. Non restano che i professori designati dal M5S. In pole position potrebbe esserci il costituzionalista fiorentino Donati. A patto che dal M5S arrivi un segnale.

Il ministro Bonafede: “è anacronistico parlare di pm politicizzati”
di Liana Milella

La Repubblica, 28 agosto 2018


La magistratura va rispettata. Parlare di pm politicizzati oggi è del tutto fuori tempo. Quanto alla separazione delle carriere il progetto non esiste, tant’è che non ve n’è traccia nel contratto di governo. Sono questi i tre puntuali messaggi che, durante la giornata, partono dal vertice di via Arenula indirizzati al presidente dell’Anm Francesco Minisci.
Il suo appello, lanciato ieri dalle pagine di Repubblica - `Bonafede stia dalla nostra parte” contro la campagna di Salvini - non cade nel vuoto. Anche se il ministro della Giustizia non chiama direttamente il capo del sindacato delle toghe, e ne vedremo le ragioni, la sua scelta di campo è netta. E conferma la reazione, consegnata alla sua pagina Facebook, una manciata di ore dopo il violento attacco del ministro dell’Interno ai giudici: parlando di “inchiesta boomerang”, Salvini ha annunciato di voler rinunciare all’immunità.
Nessuna apertura soprattutto al progetto di separare le carriere, il leit motiv storico di Berlusconi, finito in soffitta ne12011 con la caduta del suo governo, e che si riaffaccia nelle dichiarazioni di Salvini. anche stavolta come minaccia ricattatoria rispetto a indagini sgradite. Ma tra i progetti di Bonafede la separazione delle carriere non esiste affatto.
Neppure nella formula edulcorata, e elle non avrebbe bisogno di una legge costituzionale, di paletti più duri per vietare il passaggio dalla funzione di pm a quella di giudice e viceversa. Altri sono i suoi obiettivi legislativi in vista dell’autunno: legge anticorruzione, riforma del processo civile e fallimentare, nuove regole per le carceri.
Ci si ferma qui. Subito dopo toccherà alla prescrizione. Chi ha parlato ieri, anche a lungo, con Bonafede affida all’esterno l’immagine di un ministro determinato a restare fedele al comportamento tenuto nella precedente legislatura quando dagli scranni di M5S non ha mai attaccato le toghe. Certo, il guardasigilli “non fa il sindacalista dei magistrati”, e questo spiega l’assenza di un contratto diretto tra lui e Minisci. Ma, come lo stesso ministro ha detto più volte in questi mesi, la sua strategia è quella “di tutelare al massimo l’autonomia dell’azione giudiziaria e l’indipendenza della magistratura”.
Netta quindi la presa di distanza da chi attacca la magistratura accusandola di essere “politicizzata”, e quindi autrice di inchieste che non hanno un fondamenti reale, ma mirano a colpire un “nemico politico”. In questo momento il procuratore di Agrigento Patronaggio farebbe “politica” con la sua inchiesta per colpire Salvini. Ma la linea di Bonafede è che “parlare di pm politicizzati, oggi, è totalmente fuori tempo”.
Quindi Salvini, quando attacca i pm con questo slogan sbaglia. Fatto salvo il diritto di critica, sono inaccettabili l’offesa e la sfida. Soprattutto perché, come ha senile Bonafede, “ventilare un movente politico dietro l’azione dei magistrati appartiene a una stagione politica ormai tramontata con l’arrivo della terza Repubblica e del governo del cambiamento”. All’Anm Bonafede ribadisce, corno spiegano i suoi, che uno degli obiettivi adesso è tirare fuori la giustizia dal pantano in cui la politica l’ha costretta negli ultimi decenni. 

Luigi Ferrajoli: “per Salvini il consenso legittima qualunque abuso”
di Roberto Ciccarelli

Il Manifesto, 28 agosto 2018


Il giurista di “Diritto e ragione” e “Principia Iuris”: “Su quella nave c’è stato un sequestro di persona. Il fatto che il ministro dell’Interno voglia perseverare nelle violazioni del codice penale e delle libertà fondamentali conferisce al suo comportamento un carattere eversivo”.

Professor Luigi Ferrajoli è emerso un orientamento che spiega il comportamento del ministro dell’Interno Salvini sui migranti della nave Diciotti come un atto politico nell’esercizio delle sue funzioni. E che l’inchiesta per “sequestro di persona” sarebbe addirittura un “atto sovversivo”. Cosa ne pensa?
È una tesi senza senso che attesta solo l’analfabetismo istituzionale del nostro governo e di quanti lo difendono. Nello stato di diritto tutti i poteri sono soggetti al diritto. In una democrazia costituzionale, quale è ancora quella italiana, la politica è soggetta alla Costituzione, il cui articolo 13 afferma che “non è ammessa” forma alcuna di “restrizione della libertà personale se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”. La presa in ostaggio dei migranti sulla Diciotti è quindi chiaramente un sequestro di persona, come ha ipotizzato la procura di Agrigento, severamente punito dall’articolo 605 del codice penale e addirittura aggravato allorquando è commesso da un “pubblico ufficiale” quale è appunto il ministro dell’Interno.

Salvini ha promesso che se ci sarà un’altra nave non attraccherà in Italia…
È l’aspetto più grave della vicenda, che conferisce al comportamento del ministro un carattere eversivo: persisterà nella violazione del codice penale e delle libertà fondamentali costituzionalmente garantite. Il rischio è che questo ministro intenda - con il sostegno dell’intero governo e della sua maggioranza - alterare i fondamenti dello stato di diritto: non più la legalità costituzionale, ma il consenso elettorale quale fonte di legittimazione di qualunque abuso. Una simile pretesa era già stata avanzata da Berlusconi. Ma mai in maniera così sfrontata e arrogante come sta facendo Salvini.

Quanto pesa su questa situazione l’incapacità dell’Unione Europea che non riesce a fare rispettare le decisioni sull’immigrazione?
Moltissimo. Tutti i paesi membri sono variamente impegnati nella limitazione della libertà di accesso e di circolazione delle persone, in accuse e recriminazioni reciproche e in una guerra contro i migranti.

Luigi Di Maio appoggia Salvini, ma considera quello della magistratura “un atto dovuto”. Come giudica questa posizione?
Scandalosa. Per anni hanno gridato “legalità!!!”, “legalità!!!” ed oggi difendono un ministro indagato per un delitto gravissimo nella cui commissione, oltre tutto, intende perseverare. Eppure ci troviamo di fronte non a un qualsiasi reato, ma a un chiaro e consapevole disegno di alterazione del paradigma costituzionale della nostra democrazia. In passato ci eravamo distinti per il salvataggio di centinaia di migliaia di naufraghi, oggi stiamo diventando i capofila dei paesi del gruppo di Visegrad.

Nel comportamento di questo governo riscontra una continuità con i precedenti?
Una linea molto dura e crudele era già stata avviata con successo dal ministro Minniti del passato governo. La differenza è che la pratica disumana del respingimento, che in passato veniva negata e occultata, viene oggi sbandierata proprio perché fonte di facile consenso. Salvini non si limita a interpretare la xenofobia, ma la alimenta e la amplifica, producendo effetti distruttivi sui presupposti della democrazia.

Si dice che l’opinione pubblica sia insofferente, teme l’”invasione”, l’emergenza…
Non esiste alcuna invasione e comunque gli arrivi, anche quando erano ben più grandi degli attuali, non hanno mai messo a rischio la sicurezza. Questa situazione è invece il risultato di una campagna disumana e immorale riscontrabile in formule come “prima gli italiani” o “la pacchia è finita” a sostegno dell’omissione di soccorso. È gravissimo che siano praticate ed esibite dalle istituzioni. Così facendo non sono solo legittimate, ma sono anche assecondate e alimentate. Diventano contagiose e si normalizzano. Hanno screditato, con la diffamazione di quanti salvano vite umane, la pratica elementare del soccorso di chi è in pericolo di vita venendo meno alla Convenzione di Amburgo del 1979, al diritto del mare e al diritto a migrare stabilito dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e dal Patto internazionale sui diritti civili e politici. Queste politiche stanno fascistizzando il senso comune. Stanno svalutando, insieme al principio della dignità delle persone solo perché persone, anche i normali sentimenti di umanità e solidarietà che formano il presupposto elementare della democrazia. Tutti gli esseri umani hanno diritto di lasciare il loro paese. Fermarli a metà strada è comunque illegittimo.

Quali sono gli effetti di questa criminalizzazione dei migranti sulla società italiana?
Porta al mutamento delle soggettività politiche e sociali: non più le vecchie soggettività di classe, basate sull’uguaglianza e sulle lotte comuni per comuni diritti, ma nuove soggettività politiche di tipo identitario - italiani contro migranti - i - basate sull’identificazione delle identità diverse come nemiche e sul capovolgimento delle lotte sociali: non più di chi sta in basso contro chi sta in alto, ma di chi sta in basso contro chi sta ancora più in basso, dei poveri contro i poverissimi. I migranti sono stati trasformati in nemici contro cui scaricare la rabbia e la disperazione generate dalla crescita delle disuguaglianze e della povertà.

Giustizia, per evitare litigi Lega-M5S slittano prescrizione e intercettazioni
di Ilario Lombardo e Alberto Mattioli 

La Stampa, 28 agosto 2018


Il ministro Bonafede prende tempo. Il leghista prepara il decreto sicurezza: aumentano i reati per cui si verrà espulsi e i tempi di permanenza nei Cpr: da 90 a 180 giorni. A dicembre gli Stati generali sulle registrazioni degli investigatori. Con il solito fiuto che lo contraddistingue, Matteo Salvini ha già trovato nella giustizia la preda d’autunno.
Il bel tempo finirà, le temperature che scenderanno renderanno impossibile la navigazione dei barconi nel Mediterraneo, e l’immigrazione sarà un tema meno spendibile mediaticamente, da sostituire in fretta con altre campagne ad effetto. Ci aspetta un autunno all’insegna di pistole, corrotti, agenti sotto copertura, misure restrittive.
L’occasione a Salvini è arrivata facile dall’inchiesta sulla nave Diciotti che lo vede indagato. Dopo l’attacco ai magistrati dal sapore berlusconiano, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha evitato una risposta frontale al partner di governo, e annunciato “una riforma rivoluzionaria contro le mazzette”.
Il punto è che anche il leader della Lega ha annunciato sul Messaggero una riforma della giustizia, senza troppo pensare al fatto di sconfinare in un territorio che è di prerogativa di Bonafede che sui capitoli di quella riforma lavora da tempo. Anche se due pilastri, prescrizione e intercettazioni, verranno rinviati e il sospetto che lo si faccia per evitare strappi è molto forte. Secondo il contratto, i punti da affrontare sono chiari e precise le competenze, ma Salvini vuole comunque ficcare il naso. E a modo suo lo farà.
Le iniziative leghiste Innanzitutto, il vicepremier è intenzionato a ritagliarsi una personale riforma della giustizia a colpi di atti amministrativi. “Il decreto sicurezza è pronto - tuona ovunque in questi giorni. Agli inizi di settembre lo presenteremo”. Una delle novità della stretta securitaria di Salvini sarà l’ampliamento dei reati peri quali un migrante può perdere il diritto d’asilo ed essere espulso, non più soltanto quelli di cosiddetta “pericolosità sociale”.
Verrà trasferito in un Cpr dove i tempi di permanenza raddoppieranno da 90 a 180 giorni. Contestualmente la Lega sta cercando di circoscrivere la legittima difesa, rendendo più facile spingere sul grilletto, e la riforma firmata dal sottosegretario Nicola Molteni è un boccone che i grillini sono costretti a ingoiare per ottenere in cambio che la Lega dimentichi la sua riluttanza su altro. Per esempio l’agente provocatore e il Daspo avita per i corrotti che arriveranno a settembre nel pacchetto anti-corruzione di Bonafede.
“Vediamo prima i testi nel concreto - spiega alla Stampa il sottosegretario alla Giustizia, il leghista Jacopo Morrone. Fino ad ora ci siamo occupati di emergenze, tribunali e carceri senza personale, giudici di pace tagliati fuori dalla riforma dell’ex ministro Orlando”. Salvini non nasconde lo scetticismo su molte delle idee che il M5S ha sulla giustizia e, tra comizi e interviste, non fa nulla per nasconderlo. Intendiamoci: i due partiti hanno più di un punto di contatto ed entrambi respirano dallo stesso polmone iper-legalitario.
Vorrebbero più carceri e fare piazza pulita delle correnti della magistratura e i grillini sono pronti con una legge di iniziativa parlamentare. Ma il leghista viene anche da anni con Forza Italia, che ha fatto del garantismo una vera e propria battaglia identitaria. Non solo: Salvini conosce gli imprenditori e tutto vuole tranne che creare un clima di caccia al colpevole che secondo i leghisti spaventa gli affari. Per questo Bonafede si sta affannando a spiegare che “non ci sono intenti punitivi” ma solo “di deterrenza”.
Una delle promesse dei grillini è stata la riforma della prescrizione che il ministro vorrebbe bloccare dopo il primo grado. Salvini si appella al giusto processo e dice che i procedimenti non possono durare in eterno. Entrambi i partiti ricordano come questo sia stato uno degli scogli principali sul tavolo delle trattative per il contratto di governo.
Il compromesso trovato è il seguente: la prescrizione sarà affrontata dopo la cura dimagrante del processo civile per snellirne i tempi (attesa per ottobre) e dopo aver rinforzato - se ci riusciranno - il personale della giustizia a tutti i livelli. Solo allora i due partiti si risiederanno al tavolo per decidere se toccare la prescrizione.
Altro tema altamente infiammabile è quello delle intercettazioni. Si sa come la pensa Salvini: “Non è civile un Paese in cui leggi sui giornali stralci di verbali”, ha detto al Foglio a inizio agosto. L’entrata in vigore della riforma Orlando che prevedeva forti limiti alle pubblicazioni è stata prorogata. Bonafede prende tempo. Ha coinvolto i procuratori distrettuali e il Consiglio Nazionale Forense e a dicembre farà il punto organizzando gli Stati generali sulle intercettazioni. 

Forza Italia pressa la Lega: ora la riforma della giustizia
di Fabrizio de Feo

Il Giornale, 28 agosto 2018


Il centrodestra d’accordo sulla necessità di intervenire. Ma frena il ministro della Giustizia grillino Bonafede. Riforma della giustizia a trazione centrodestra o a trazione Cinque Stelle? All’indomani dell’affondo della procura di Agrigento contro Matteo Salvini la necessità di intervenire per delimitare in maniera più chiara le invasioni di campo della magistratura risuona con forza nelle dichiarazioni di intenti di quasi tutte le forze politiche.
Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia ritrovano compattezza e scelgono uno spartito sostanzialmente unico. Il leader della Lega, però, dovrà fare i conti con le idee non esattamente garantiste dei partner di governo e sedersi a un tavolo con il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Un dialogo obbligato che rischia di portare allo scoperto un approccio che appare agli antipodi. “Il nostro Paese ha bisogno urgentemente di una riforma della giustizia, ma se a metterci le mani saranno i Cinque Stelle con la loro visione manettara e giustizialista sarà un totale fallimento” dice l’azzurro Alessandro Cattaneo.
“I leghisti forse dimenticano che dovranno fare la riforma della giustizia con loro. Auguri”. L’idea, insomma, è quella di una strada in salita e di una inevitabile incomunicabilità tra due mondi molto diversi, visto che uno dei temi cardini della visione grillina è l’allungamento della prescrizione con una moltiplicazione del potere dei magistrati d’accusa. Senza dimenticare che il ministro della Giustizia inizia a essere chiamato in causa anche dal presidente dell’Anm Francesco Minisci. “Chi ricopre incarichi istituzionali, in particolare il ministro della Giustizia, deve difendere le prerogative costituzionali della magistratura” dice Minisci.
“Se nella vicenda della nave Diciotti sono stati commessi reati e, in caso positivo, chi li ha commessi, spetta stabilirlo a chi indaga: questo significa autonomia e indipendenza della magistratura”. Le voci dei massimi dirigenti di Forza Italia si uniscono comunque in difesa delle prerogative del ministro Salvini. “Questa vicenda della Diciotti pone con grande forza il problema della riforma giustizia, non possiamo più perdere tempo, rischiamo di avere conflitti tra poteri dello Stato, non si può mica processare una linea politica” dice Antonio Tajani ai microfoni de “L’aria che tira” su La7.
“Alla fine Salvini sarà prosciolto dal tribunale dei ministri e diventerà solo uno scontro propagandistico che non risolverà il problema vero: né quello dell’immigrazione né quello della separazione dei poteri. La vicenda - aggiunge - pone con forza il problema della riforma della giustizia, non possiamo più perdere tempo”.
Una linea altrettanto chiara viene assunta da Mariastella Gelmini. “Ipotizzare la commissione di un reato da parte del ministro Salvini appare davvero incomprensibile. Le norme costituzionali sul punto sono più che chiare ed evidenti e quindi la decisione del ministro, che può essere condivisibile o meno, di certo non può trovare sindacato da parte dell’autorità giudiziaria”.
“Berlusconi ha espresso solidarietà a Salvini perché è l’ennesima vittima di uno scontro che purtroppo dura da troppo tempo nel nostro Paese tra la politica e la giustizia” continua la capogruppo alla Camera. Detto questo è evidente che la vicenda della nave Diciotti non vede vincitori, perché questo muro contro muro tra l’Italia e l’Unione europea non porta da nessuna parte e non fa bene a nessuno”. 

Genova G8, la democrazia mai risarcita
di Lorenzo Guadagnucci*

Il Manifesto, 28 agosto 2018


Risarcimenti per danni d’immagine. Tre milioni per i risarcimenti pagati ai torturati, 5 per i danni d’immagine: tanto vale, per il pm della Corte dei Conti, la bella impresa compiuta il 21 luglio 2001 dalla nostra polizia alla scuola Diaz. Tre milioni per i risarcimenti pagati ai torturati (incluso il sottoscritto), 5 per i danni d’immagine: tanto vale, per il pm della Corte dei Conti, la bella impresa compiuta il 21 luglio 2001 dalla nostra polizia alla scuola Diaz.
Non si può invece contabilizzare la lesione inferta al corpo della democrazia, mai risarcita a causa della condotta tenuta negli anni dai vertici di polizia e dai ministri degli interni, che in nessun momento hanno pensato di schierarsi dalla parte dei cittadini sottoposti a tortura e quindi di operare per fare chiarezza e pulizia a beneficio del bene pubblico. Così lo stato si trova a fare i conti con l’eredità di Genova G8 solo in senso letterale, contando gli euro da recuperare.
Non è granché ed è successo lo stesso con la vicenda di Bolzaneto, quartiere genovese passato alla storia come il Garage Olimpo dei generali argentini, con la sua caserma di polizia divenuta sinonimo nazionale di tortura: per la Corte dei conti (sentenza dell’aprile scorso) l’ordalia di violenze fisiche e psicologiche inflitte a decine di malcapitati nella palazzina chiamata amichevolmente “Auschwitz” vale 6 milioni di euro, a carico di 28 agenti e sanitari penitenziari. Le cifre, in casi del genere, sono ben poca cosa, ma parlano anch’esse. Ad esempio dicono che i danni d’immagine, secondo i pm, valgono più di quelli patrimoniali, lasciando intendere che il tema della credibilità (perduta) delle forze dell’ordine è ben più importante di quanto si pensi a Palazzo. Non può sfuggire, sotto questo profilo, che fra i 25 funzionari chiamati a risarcire lo stato per il caso Diaz figurano personaggi che sono rientrati in polizia dopo aver scontato i cinque anni di interdizione dai pubblici uffici, nonostante la Corte europea per i diritti umani prescriva nelle sue sentenze, per i casi di tortura (l’Italia è stata condannata sia per la Diaz sia per Bolzaneto), la destituzione dei funzionari condannati.
Insomma, da qualsiasi parte si affronti l’eredità di Genova G8, ci si trova di fronte a un disastro: professionale, morale, politico, economico. Eppure poteva andare diversamente. Proviamo a immaginare un’altra storia. Un capo della polizia e un ministro dell’interno che il giorno dopo il disastroso blitz nella scuola aprono un’inchiesta interna, sospendono tutti i funzionari e chiedono il licenziamento di quelli maggiormente responsabili (fra parentesi, è quanto suggerì Pippo Micalizio, dirigente inviato dal capo della polizia per un’inchiesta lampo, in una relazione rimasta chiusa in un cassetto).
Contestualmente, continuiamo a immaginare, capo della polizia e ministro si dimettono, con il preciso scopo di tutelare la dignità e la credibilità del corpo e dello stato. I loro sostituti a quel punto collaborano con i magistrati, chiedono solennemente scusa e si impegnano a far sì che niente del genere possa mai più ripetersi. Il parlamento, intanto, avvia una riforma delle forze di polizia: regole di trasparenza, codici sulle divise, legge sulla tortura (una vera legge, naturalmente, non quella fasulla approvata l’estate scorsa e già bocciata da istituzioni come il Consiglio d’Europa e il Comitato Onu contro la tortura). Un sogno, un’utopia? Forse, per una “democrazia reale” qual è la nostra, incapace di fare i conti con gli abusi di stato, ma un’ovvietà per una democrazia normale.
L’Italia ha scelto la via che conosciamo, lastricata di falsi e menzogne, una via che lascia sul corpo della polizia di stato lo stigma della tortura e sulla sua dirigenza il tratto dell’ambiguità, nonostante i lodevoli ma insufficienti sforzi dell’attuale capo Franco Gabrielli, anche lui rimasto invischiato nel pantano creato attorno a Genova G8. È la polizia che è stata consegnata ai nuovi uomini di potere. Oggi al Viminale siede un esponente della destra radicale che su questi temi ha sempre sposato le posizioni più arretrate e più oltranziste emerse in seno alla polizia. Non è il momento di improvvisarsi Cassandre e vaticinare chissà quali futuri eventi, ma se a volte capita di fare cattivi pensieri è (anche) perché siamo coscienti che dopo l’estate del 2001 non è stato fatto quanto necessario - tutt’altro - per voltare pagina e garantire una seria opera di prevenzione.
*Comitato Verità e Giustizia per Genova

L’ingente quantità di denaro non basta per il riciclaggio se manca il reato presupposto
di Patrizia Maciocchi

Il Sole 24 Ore, 28 agosto 2018


Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 27 agosto 2018 n. 39006. Il possesso di un’ingente somma di denaro contante, detenuta da un soggetto che si prepara ad uscire dal territorio nazionale, non basta per far scattare il reato di riciclaggio se manca la prova di un reato presupposto, o di un legame con ambienti criminali.
La Corte di cassazione, con la sentenza 39006, accoglie il ricorso contro l’ordinanza con la quale veniva negata la revoca del sequestro penale di una somma, di poco inferiore ai 163 mila euro, trovata in possesso dell’indagato che era in procinto di prendere un volo per Lagos: denaro contenuto in numerosi pacchetti con sopra scritti a penna nomi e numeri di telefono. Elementi che avevano indotto la polizia giudiziaria a sequestrare i soldi con un provvedimento convalidato dal Pm, che aveva poi respinto l’istanza di restituzione avanzata dal difensore per l’assenza di presupposti dai quali desumere la provenienza illecita.
Per la Cassazione il ricorso è fondato. Il decreto di sequestro probatorio di cose che costituiscono il corpo del reato deve essere supportato da una motivazione che regga la contestazione del reato di riciclaggio: è necessario dunque che si possa ipotizzare un reato presupposto.
“Nello specifico caso di somme di denaro genericamente collegato ad un fatto di reato - scrivono i giudici - benché non sia necessaria la prova del carattere di pertinenza o di corpo del reato delle cose oggetto del vincolo, deve essere evidenziata la possibilità effettiva, cioè non fondata su elementi astratti ed avulsi dalle caratteristiche del caso concreto, della configurabilità di un rapporto di queste con il reato stesso”. Mentre il semplice possesso di un’elevata somma di denaro non basta per l’accusa, senza alcun riscontro investigativo sull’esistenza o meno di un reato presupposto o anche: di relazioni con ambienti criminali, della commissione di precedenti reati o dell’esistenza di pregresse operazioni di investimento di natura illecita.
La Cassazione annulla dunque l’ordinanza senza rinvio, facendo venire così meno il sequestro penale. Il denaro non può però tornare nella disponibilità del ricorrente. Il Dlgs 195/2008 impone, infatti, di dichiarare, sia in entrata sia in uscita dal territorio nazionale, il possesso e il trasporto di somme superiori ai 10 mila euro. E l’omissione comporta una violazione delle norme in materia di valuta. La notizia va dunque trasmessa all’Ufficio Dogane di Malpensa, per l’adozione dei provvedimenti del caso. E il denaro può tornare in possesso del proprietario solo se l’ufficio competente ritiene di non dover adottare alcun provvedimento sulla somma. 

L’esiguità della somma sottratta con la rapina non fa scattare la tenuità del danno
di Patrizia Maciocchi

Il Sole 24 Ore, 28 agosto 2018


Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 27 agosto 2018 n. 38982. L’esiguità della somma sottratta con la rapina non basta per meritare l’attenuante della particolare tenuità del danno, se si è esercitata una violenza sulla vittima a prescindere della minima gravità delle lesioni.
Con questa motivazione la Cassazione, (sentenza 38982) ha respinto il ricorso dell’imputato, al quale era anzi stata attribuita l’aggravante per aver agito con il supporto di un complice. La presenza di più persone è, infatti, tale da di rafforzare la condotta di chi opera materialmente. Non passa neppure la tesi della difesa secondo la quale non si sarebbe trattato di rapina ma di furto con strappo. Alla signora era stata tolta la borsa con un violento strattone che l’aveva fatta cadere a terra, riportando lesioni superficiali.
Per i giudici si può parlare di furto con strappo solo quando la violenza è esercitata nei confronti della cosa ma non della persona. Per finire è giustificato anche il no all’attenuante, chiesta perché la somma rubata era di soli 100 euro. Per il danno di speciale tenuità in caso di rapina, spiegano i giudici, non basta che il bene sottratto sia di modestissimo valore economico, ma è necessario valutare anche gli effetti dannosi legati all’aggressione alla persona contro la quale è stata esercitata la violenza o la minaccia.
Il reato in questione ha, infatti, una natura “pluri-offensiva” perché lede non solo il patrimonio, ma anche la libertà e l’integrità morale e fisica della persona aggredita a fini di profitto. E solo se la valutazione globale del pregiudizio è di speciale tenuità di può riconoscere l’attenuante. Nello specifico la valutazione è negativa.

Bancarotta per liquidatore che non acquisisce contabilità anni precedenti
di Francesco Machina Grifeo

Il Sole 24 Ore, 28 agosto 2018


Corte di cassazione - Sentenza 27 agosto 2018 n. 39009. Scatta il reato di bancarotta semplice documentale per il liquidatore che ometta di depositare la contabilità relativa agli anni precedenti. E ciò anche se l’azienda fallita ne era sprovvista. Sul liquidatore infatti incombe il dovere di attivarsi per ricostruire i conti dell’azienda e ridurre le conseguenze pregiudizievoli per i creditori anche se in carica per un periodo breve. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza n. 39009/2018, respingendo il ricorso di un professionista condannato per omessa tenuta dei libri contabili dal 2008 nonostante la sua nomina risalisse al 2011.
“Sul liquidatore, come sull’amministratore - spiega la Cassazione - gravano una posizione di garanzia ed il dovere di vigilanza”. In particolare, spiega la Corte, “anche il liquidatore deve controllare tutta l’attività svolta entro l’impresa fallita e riveste una posizione di garanzia del bene giuridico penalmente tutelato (l’impresa, i soci, i creditori e i terzi), sicché liquidatore (come l’amministratore) è penalmente responsabile anche delle condotte di tutti coloro che abbiano agito in via di diritto o di fatto per conto di un ente fallito in tutti i casi nei quali, pur essendone inconsapevole, non abbia fatto tutto quanto in sua possibilità per attuare una efficace vigilanza ed un rigoroso controllo, ovvero non si sia dato un’organizzazione idonea non soltanto al raggiungimento degli scopi sociali, ma anche ad impedire che vengano posti in essere atti nei confronti dei soci, dei creditori e dei terzi”.
Alla luce della “assoluta omogeneità” di compiti, ruoli e responsabilità di amministratori e liquidatori, anche a questi ultimi dunque si applica l’art. 2487 bis, comma terzo, c.c., attinente alle scritture contabili”. Tali soggetti hanno perciò “l’obbligo di ricevere in consegna i libri sociali e, pertanto, risulta priva di fondamento la prospettazione difensiva di una assenza di responsabilità del liquidatore che non riceve libri contabili e che omette ogni controllo sulla loro esistenza e sulla loro regolare tenuta, come verificatosi nel caso de qua”.
In definitiva, il liquidatore “aveva l’obbligo di ricevere le scritture contabili della società e, constatata la loro effettiva inesistenza o non recuperabilità, avrebbe dovuto efficacemente attivarsi per ridurre le conseguenze negative derivanti dall’accertata omissione”. Al contrario, prosegue la sentenza, a fronte della mancata tenuta della contabilità per 3 anni (a eccezione di qualche registro consegnato al curatore), “l’imputato non ha affatto provveduto alla sua ricostruzione, né ha tentato di minimizzarne gli effetti pregiudizievoli per i creditori, consistenti nell’impossibilità di definire il volume di affari della società, nonché di redigere il bilancio”.
Non solo, una volta che sia intervenuta la sentenza dichiarativa del fallimento, ricorda la Cassazione, l’omessa tenuta delle scritture contabili è penalmente sanzionata “per la mera possibilità di lesione dell’interesse protetto dalla norma incriminatrice”. “Sicché risulta, totalmente irrilevante che si sia verificato un effettivo pregiudizio economico per creditori in conseguenza di tale omissione. Infatti, il professionista non avendo nemmeno tentato di ricostruire la documentazione contabile societaria, nel lasso temporale di riferimento - non brevissimo, trattandosi comunque di circa un mese - ha impedito ai soci e ai creditori sociali (oltre che al curatore fallimentare) di poter anche solo avere consapevolezza della consistenza patrimoniale sociale e del giro di affari, realizzando così, la condotta omissiva necessaria ai fini della configurazione della bancarotta semplice documentale”.

La ricusazione del giudice penale. Selezione di massime

Il Sole 24 Ore, 28 agosto 2018


Processo penale - Soggetti - Giudice - Ricusazione - Causa prevista all’art. 37, comma 1, lett. b) Cpp-Configurabilità. In materia di ricusazione ex articolo 37, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., come inciso dalla sentenza della Corte costituzionale n. 283 del 2000, l’attività valutativa destinata a pregiudicare la posizione di imparzialità del giudice è quella che abbia trovato espressione in un precedente giudizio che sia stato condotto sull’identico fatto e nei confronti del medesimo soggetto e per un grado di accertamento non integrato da mera incidentalità ed occasionalità; il fatto, anche ove sia contestata nei due giudizi una fattispecie associativa o a concorso necessario, deve infatti ricevere in entrambi connotazione piena e significativa del fenomeno indagato nel carattere eccezionale dell’istituto della ricusazione.
• Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 24 luglio 2018 n. 35264.

Esecuzione penale - Ricusazione - Articolo 37 c.p.p. - Post sentenza C. cost. n. 283/2000 - Ipotesi della identità delle fonti probatorie. Non dà luogo a ipotesi di ricusazione del giudice, ai sensi dell’articolo 37 cod. proc. pen., come risultante a seguito della parziale dichiarazione di illegittimità di cui alla sentenza n. 283 del 2000 della Corte costituzionale, la circostanza che il magistrato abbia già preso parte a un giudizio a carico dell’imputato per fatti diversi sebbene caratterizzati dalla pretesa identità delle fonti probatorie valutate e da valutare, atteso che una stessa fonte probatoria, considerata importante ed attendibile in un processo, potrebbe non esserlo altrettanto in un altro.
• Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 24 luglio 2018 n. 35270.

Giudice - Ricusazione - Casi - Concorso di persone nel reato - Processi separati - Precedente decreto di archiviazione nei confronti di un concorrente nel reato - Successivo giudizio nei confronti di altro concorrente - Ricusazione del giudice - Configurabilità - Condizioni. Integra la causa di ricusazione di cui all’articolo 37, comma primo, lett. b), cod. proc. pen. (come inciso da Corte cost., sent. n. 283 del 2000) la circostanza che il medesimo magistrato, chiamato a valutare la posizione di un imputato nell’udienza preliminare, abbia già pronunciato decreto di archiviazione nei confronti di un concorrente nel medesimo reato, allorquando nella motivazione di tale provvedimento risultino espresse - anche se “per relationem” alla richiesta di archiviazione del P.M. - valutazioni di merito sui fatti ascritti al soggetto sottoposto a giudizio, a nulla rilevando che dette valutazioni possano risultare ultronee, o comunque non funzionali alla coerenza e completezza della motivazione del decreto.
• Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 18 novembre 2014 n. 47586.

Giudice - Ricusazione - Casi - Concorso di persone nel reato - Processi separati - Precedente sentenza di patteggiamento nei confronti di un concorrente nel reato - Successivo giudizio nei confronti di altro concorrente - Ricusazione del giudice - Configurabilità - Condizioni. Integra propriamente una causa di integrazione, ex articolo 37, comma primo lett. b), cod. proc. pen.(come inciso da Corte cost., sent. N. 283 del 2000) e non una causa di incompatibilità di cui all’articolo 34 cod. proc. pen. la circostanza che il medesimo magistrato chiamato a decidere sulla responsabilità di un imputato abbia già pronunciato sentenza di applicazione della pena su richiesta nei confronti di un concorrente nel medesimo reato, allorquando nella motivazione di essa risultino espresse valutazioni di merito sullo stesso fatto nei confronti del soggetto sottoposto a giudizio.
• Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 3 settembre 2014 n. 36847.

Procedimento penale - Ipotesi di incompatibilità del giudice - Giudice del dibattimento - Pronuncia di patteggiamento in separato procedimento nei confronti di un concorrente necessario - Incompatibilità - Sussistenza. L’ipotesi di incompatibilità del giudice derivante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 371 del 1996 - che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’articolo 34, comma 2°, del Cpp,”nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio nel confronti di un imputato il giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare una precedente sentenza nei confronti di altri soggetti, nella quale la posizione di quello stesso imputato in ordine alla sua responsabilità penale sia già stata comunque valutata” - sussiste anche con riferimento alla ipotesi in cui il giudice del dibattimento abbia, in separato procedimento, pronunciato sentenza di applicazione della pena su richiesta nei confronti di un concorrente necessario dello stesso reato.
• Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 3 settembre 2014 n. 36847.

Molise: se il terremoto mette a rischio le strutture
di Damiano Aliprandi

Il Dubbio, 28 agosto 2018


I direttori degli istituti di Larino e Campobasso chiedono sopralluoghi e interventi. Continua lo sciame sismico in Molise e si registrano problemi in due carceri. A quello di Larino era saltato l’impianto elettrico e il direttore, Rosa La Ginestra, ha chiesto alla ditta che si occupa degli impianti idrotermici, elettrici e meccanici del carcere, di formulare un preventivo dei lavori da svolgere nel quale si quantifichino le spese e si indichino le priorità.
Per quanto riguarda il carcere di Campobasso, dopo che il Capo della Protezione Civile ha detto che non escluderebbe “scosse di magnitudo superiori alle massima già registrate”, il direttore Mario Giuseppe Silla ha scritto al Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria di Abruzzo, Lazio e Molise per chiedere “un sopralluogo tecnico urgente” della struttura penitenziaria “per la salvaguardia della pubblica incolumità e quella della popolazione detenuta”.
Lo stato del fabbricato, risalendo all’ottocento, non è ottimale perché, già prima del terremoto ferragostano, “era interessato da precarietà strutturale” scrive nella missiva il direttore. La risposta da parte del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria non si è fatta attendere. “Fermo restando che appena possibile un tecnico del provveditorato eseguirà un sopralluogo - scrivono da Roma - si rende noto che il capo nazionale dei Vigili del fuoco al fine di salvaguardare l’incolumità delle persone e l’integrità dei beni assicura gli interventi tecnici caratterizzati dal requisito dell’immediatezza della prestazione, per le quali siano richieste professionalità tecniche ad alto contenuto specialistico e idonee risorse strumentali”.
Ogni qual volta un carcere è coinvolto nei movimenti tellurici, per un detenuto la paura e il panico di morire sotto le macerie è amplificato rispetto a chi vive in libertà. Nel carcere non esiste una via di fuga o un posto dove uno può ripararsi quando si sta chiusi in una cella. Il dato oggettivo è che la maggior parte delle carceri sono spesso datate, obsolete e non costruite secondo le più recenti indicazioni antisismiche. Eppure secondo il decreto legge del 21 giugno del 2013 nato per rilanciare le infrastrutture, c’è stata la possibilità di facilitare gli interventi per la messa a norma degli edifici pubblici.
Però, nel campo della giustizia, risulta che solo nel 2013 c’è stato un intervento concreto in tal senso. Senza però coinvolgere appieno gli istituti penitenziari. Il monitoraggio e la manutenzione ha riguardato soprattutto i Palazzi di Giustizia, con particolare riguardo agli uffici giudiziari di Roma e di Napoli. Eppure dal 2010 al 2014 i vari governi avevano nominato dei commissari per occuparsi dell’edilizia carceraria e stanziato milioni di euro.
Nel 2015, però, la Corte dei Conti aveva emanato un duro rapporto. Secondo i magistrati contabili erano stati stanziati 460 milioni di euro per ristrutturare le strutture. Ma ne sono stati spesi solo 52 in quattro anni. “In termini finanziari aveva sentenziato la Corte - si è rilevato che, rispetto ai 462,769 milioni di euro assegnati ai commissari nel periodo 2010- 2014 dal bilancio dello Stato, solo 52 (l’ 11,32 per cento circa) risultano essere stati spesi alla data della cessazione dell’incarico dell’ultimo commissario (31 luglio 2014)”.
Solo 52 milioni su 462 erano stati usati allo scopo. La differenza di 410,395 milioni, avevano spiegato, è stata rimessa all’entrata dello Stato per essere riassegnata. Non sono soldi persi, ma di certo non sono stati usati per l’obiettivo previsto. E i risultati si erano visti: “I nuovi posti creati con i vari interventi immobiliari dei commissari - si leggeva sempre nel rapporto sono stati, alla fine del 2014, in base alle informazioni aggiornate del ministero della Giustizia-Dap, soltanto 4.415 rispetto agli 11.934 previsti, posti che entro il 2016 dovrebbe raggiungere il totale di 6.183 (pari al 51,81 per cento delle previsioni)”.
Quindi, con queste spese e per questi risultati serviva nominare un commissario? Risposta della Corte: “Gli sforzi dell’attività dei commissari delegati e del commissariamento straordinario nel settore dell’edilizia penitenziaria mostrano come non sia servito procedere alla nomina di un commissario per eliminare o correggere adeguatamente disfunzioni e carenze dell’azione amministrativa ordinaria”. Il problema dell’edilizia carceraria permane ancora.

Marche: “fondi per le attività trattamentali”, l’appello del Garante dei diritti dei detenuti 

marchenotizie.info, 28 agosto 2018


Ripartita la serie di sopralluoghi del Garante Nobili negli istituti penitenziari della regione. Riparte da Marino del Tronto la nuova serie di sopralluoghi messa in atto dal Garante, Andrea Nobili, negli istituti penitenziari regionali. Dopo la definitiva chiusura della sezione 41bis, il carcere ascolano è stato chiamato ad assorbire diversi detenuti destinati al circuito di alta sicurezza, con un inevitabile aumento delle problematiche già registrate nei mesi scorsi durante la visita effettuata dallo stesso Garante con la partecipazione di alcuni parlamentari marchigiani. “È indispensabile - sottolinea Nobili - garantire la vivibilità di luoghi, un adeguato aumento dell’organico di polizia penitenziaria nel rispetto di quanto previsto dalla pianta organica, ed un’attenzione costante sul versante sanitario”.
Al Garante è stata anche rappresentata l’esigenza di un intervento adeguato per quanto riguarda le attività trattamentali, oggetto nelle scorse settimane di un suo appello rivolto ai Presidenti di Giunta e Consiglio regionale in relazione allo sblocco dei finanziamenti previsti per i sei istituti operativi sul territorio marchigiano dalla legge di settore approvata nel 2008. Aspetto questo segnalato nel maggio scorso anche dal Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria.
Nobili ribadisce che “il ritardo nella messa a disposizione delle risorse continua a destare preoccupazione tra gli operatori, anche perché il protrarsi della situazione d’incertezza potrebbe determinare l’interruzione dei progetti già avviati e l’impossibilità di attivarne altri nel prossimo futuro”.
Partendo da tali considerazioni il Garante ha esteso l’invito ad intervenire anche a tutti i capigruppo consiliari ed al Presidente della Commissione sanità, Fabrizio Volpini, chiedendo, se necessario, la convocazione urgente della medesima commissione per esaminare il problema “che ha caratteristiche di valenza altamente sociale, essendo le attività trattamentali alla base dei percorsi da attivare per un più consono reinserimento dei detenuti nella società”.

Torino: suicida alle Molinette il boss romano della “Cosa Nostra Tiburtina” 
di Carlotta Rocci

La Repubblica, 28 agosto 2018


Il presunto boss della “Cosa Nostra Tiburtina”, Giacomo Cascalisci, capo di un clan sgominato in marzo a Roma da un’operazione della Direzione distrettuale antimafia, si è tolto la vita uccidendosi nella sala del Reparto detentivo dell’ospedale Molinette di Torino, dove era ricoverato. Lo riferisce il Sappe, sindacato autonomo di polizia penitenziaria. Cascalisci, aggiunge il Sappe, “aveva partecipato alla normale attività e non aveva dato alcun segno di squilibrio: aveva fatto anche alcuni esami e consumato regolarmente la cena”.
Verso le 20,40, però, all’atto della somministrazione della terapia serale, Cascalisci non ha risposto alle chiamate degli infermieri e si è scoperto che l’uomo si sarebbe stretto al collo un lenzuolo legato al telaio del letto inclinabile, per poi azionare il meccanismo e restare soffocato. La Procura ha subito disposto l’autopsia anche perché alcune circostanze dell’episodio sarebbero ancora da verificare. Il primo referto si limita a parlare di “morte per asfissia”.
“Mio suocero non si sarebbe mai ucciso”, ne è convinto il genero di Giacomo Cascalisci che ieri sera ha saputo della morte del suocero quando gli agenti della penitenziaria hanno informato la moglie del detenuto. La famiglia ha sporto denuncia ai carabinieri di Tivoli per omicidio colposo. “Giacomo stava male e lo sapevano - dice.
La moglie aveva già presentato almeno quattro istanze per chiedere che fosse fatto uscire dal regime carcerario duro a cui non poteva sopravvivere. Ormai pesava 40 chili e nessuno ha fatto nulla. Per questo dico che non si è suicidato”. La famiglia dell’uomo ha racconto nella denuncia diversi episodi che proverebbero le mancate cure al detenuto. “Non stava bene, sono stati i medici a dire che non poteva restare in carcere”, ripete il genero. Cascalisci sabato era stato trasferito a Torino nel reparto delle Molinette, “ormai troppo tardi”, dice la famiglia.
L’8 marzo scorso erano stati 39 gli arresti eseguiti dai carabinieri del Comando provinciale di Roma, tutti personaggi, secondo le accuse, capeggiati dal boss Cascalisci. Le accuse per tutti, residenti a Tivoli e Guidonia, erano di associazione per delinquere finalizzata allo spaccio aggravata dall’utilizzo del metodo mafioso. E poi armi, minacce ed estorsioni. Cascalisci secondo gli investigatori era il capo indiscusso di tutto. A lui i due reggenti delle due piazze di spaccio, una a Villanova e una a Tivoli Terme, riportavano i guadagni giornalieri.
Sul caso delle Molinette il Sappe commenta: “Questo nuovo drammatico suicidio evidenzia come i problemi sociali e umani permangano nei penitenziari, lasciando isolato il personale di Polizia penitenziaria (che purtroppo non ha potuto impedire il grave evento) a gestire queste situazioni di emergenza”, spiega Vicente Santilli, segretario regionale per il Piemonte del Sappe. Il sindacato riferisce che nel primo semestre del 2018 sono stati contati nelle carceri italiane ben 5.157 atti di autolesionismo, 46 morti naturali, 24 suicidi e 585 tentati suicidi sventati dagli uomini e dalle donne della polizia penitenziaria. Solo in Piemonte i suicidi sventati sono stati 32 in soli sei mesi.

Udine: muore in ospedale detenuto 18enne, si era impiccato in cella una settimana fa
di Elena Viotto

Il Gazzettino, 28 agosto 2018


È morto nel fine settimana in ospedale a Udine, dopo aver tentato di togliersi la vita in carcere, un ragazzo pachistano di 18 anni, giovane richiedente asilo che era stato arrestato solo pochi giorni prima dai carabinieri. Era accusato di stalking, lesioni personali e minacce ai danni di una giovane donna incontrata nella struttura di cui era ospite e con cui aveva avuto una breve relazione sentimentale.
È il secondo caso, nell’arco di circa un mese, di detenuti che si tolgono la vita nell’istituto penitenziario friulano e come sempre accade in casi come questi la Procura di Udine ha aperto un fascicolo per fare luce sulle circostanze del decesso e fugare ogni possibile dubbio sulla tempestività dei soccorsi. Per il giovane straniero, appena maggiorenne, le porte del carcere si erano spalancate dopo l’ultimo grave episodio di stalking ai danni della donna, una ragazza italiana poco più grande di lui e che lavorava nella struttura di accoglienza.
I due si erano conosciuti proprio nella struttura e avevano iniziato un rapporto che la donna, già impegnata in una relazione sentimentale con un altro uomo e mamma di un bambino piccolo, aveva però ben presto deciso di interrompere a causa degli atteggiamenti del ragazzo. Una scelta, quella di troncare il rapporto, che il giovane non avrebbe accettato, perseguitandola con telefonate e messaggi anche quando lei aveva provato a cercarsi un altro lavoro.
Pare che il ragazzo avesse anche tentato di convincerla a cambiare idea minacciando di raccontare tutto al suo compagno. Poco più di una settimana fa il ragazzo l’avrebbe sorpresa nella struttura di accoglienza e l’avrebbe picchiata, colpendola con calci e pugni, provocandole delle lesioni giudicate guaribili dai sanitari del pronto soccorso con una prognosi di 30 giorni. L’episodio ne aveva fatto scattare l’arresto.
Proprio in considerazione della natura dei reati di cui era stato accusato, malvisti dalla stessa popolazione carceraria, il giovane era stato collocato in una situazione protetta. Ad accorgersi che qualcosa non andava nella sua cella, era stato uno degli agenti della polizia penitenziaria che solo pochissimi minuti prima era già passato davanti alla stanza, quando ancora tutto era in ordine. I soccorsi sono scattati immediatamente. Il giovane è stato rianimato e trasferito d’urgenza in ospedale. Ricoverato in prognosi riservata, è morto qualche tempo dopo nonostante le cure dei sanitari.
La Procura, come conferma il Procuratore capo di Udine Antonio De Nicolo, ha aperto un fascicolo per fare chiarezza sulla vicenda, come già era avvenuto un mese fa dopo il suicidio in carcere di una detenuta transessuale brasiliana di 33 anni. “I fascicoli sono affidati a due diversi sostituti spiega il Procuratore. Le indagini sono dovute come sempre quando avviene una morte in un ambiente vigilato, ma non c’è alcuna preconcetta sfiducia nei confronti degli agenti di custodia. Anzi, con il personale ridotto fanno di tutto e di più per fronteggiare i problemi che si pongono all’interno delle mura del carcere”.

Ferrara: mostra delle fotografie realizzate con i detenuti fotografi della Casa circondariale 

spreafotografia.it, 28 agosto 2018

Un progetto di Cristiano Lega. “Gli uomini devono sapere che da niente altro se non dal cervello deriva la gioia, il piacere, il dolore, il pianto e la pena. Attraverso esso noi acquistiamo la conoscenza e le capacita critiche, e vediamo e udiamo e distinguiamo il giusto dall’errato” (Ippocrate). Quel cervello è stato approfondito e quelle emozioni sono state attribuite al sistema Limbico. La scelta della forma espressiva del ritratto non è casuale: il ritratto è spesso manifestazione dei propri pensieri e specchio privilegiato di sentimenti individuali e collettivi. Fare un ritratto o farci un ritratto svela il nostro modo di guardare agli altri e a sé stessi, mettendo in gioco la sensibilità e la cultura di chi lo realizza. Si tratta di un lavoro che richiede tempo e perizia tecnica, in controtendenza in un mondo di selfie e scatti veloci che immortalano persone e luoghi quasi sempre tenendo conto dell’ immediato senza alcun approfondimento.
Laboratorio con i detenuti del carcere di massima sicurezza di Ferrara - Ne è nato un lavoro fotografico a più mani dove i detenuti, nei sei mesi di laboratorio, si ritraggono attraverso fotografie realizzate direttamente da loro e tra di loro (scatti ed autoscatti), diventando al tempo stesso fotografi e modelli. L’aula del carcere si trasforma in uno studio fotografico dove poter esprimere liberamente le proprie emozioni. La mostra verrà esposta nei giorni 5 e 6 ottobre all’interno della casa circondariale di Ferrara, e farà parte delle iniziative “La città incontra il carcere”, il cui scopo è di far conoscere alcune fra le diverse attività formative in atto all’interno dell’istituto penitenziario. L’evento fa parte del programma ufficiale del Festival di Internazionale a Ferrara.
I detenuti coinvolti - I detenuti coinvolti macchiati di gravissimi crimini sono: Lesther Batista Santisteban ragazzo cubano che, in un raptus di follia, ha afferrato un coltello da cucina e ha colpito per ventiquattro volte il corpo dell’uomo che lo aveva portato in Italia dalla sua isola e lo trattava come un figlio e deve scontare 10 anni ed 8 mesi; Desmond Blackmore è un uxoricida che dopo una violenta discussione ha soffocato con un cuscino la moglie, ed è stato condannato a 15 anni e 2 mesi; Federico Fantoni era un tecnico di palco di un importante groppo musicale che ha ucciso un amico Marco Paltrinieri; Sotirios Kalantzis è un camionista accusato di trasporto illecito in un camion frigorifero di quaranta clandestini afgani; Peter Omozogie è stato condannato per traffico di droga internazionale a 2 anni e 2 mesi
Modalità di partecipazione - Per partecipare allo spettacolo teatrale e visitare la mostra, è necessario prenotarsi entro il 5 settembre 2018, inviando una e-mail a teatroccferrara@gmail.com indicando: nome e cognome, luogo e data di nascita ed allegando la scansione della carta di identità. Posto Unico, biglietto di partecipazione allo spettacolo di 10 euro. Si ricorda che l’ingresso alla Casa Circondariale è consentito ai maggiori di 18 anni incensurati e non è permesso ai parenti dei detenuti reclusi nel carcere di Ferrara. Dopo il 5 settembre, insieme alla conferma di accesso all’iniziativa, verrà inviata comunicazione della condotta da tenere, degli oggetti vietati, degli orari di ritrovo e di quelli di ingresso.
L’evento è stato patrocinato dal Comune di Ferrara, e realizzato grazie al supporto e al contributo di Rce Foto Rovigo e Coop Alleanza 3.0. Per qualsiasi informazione potete consultare il nostro sito www.feedbackvideo.it.

Gli “haters” dei social somigliano a Cicerone? È un segnale d’allarme
di Antonio Carioti

Corriere della Sera, 28 agosto 2018


Il dilagare di quelli che oggi chiamiamo “discorsi d’odio” non causò la caduta della Repubblica, ma possiamo considerarlo un sintomo del clima brutale del mondo romano.
Certamente non fu la violenza verbale degli oratori politici a far cadere la Repubblica romana, come osserva lo storico tedesco Martin Jehne, autore di una biografia di Giulio Cesare edita anche in Italia da il Mulino. Ma lasciano dubbiosi le sue dichiarazioni al giornalista britannico Mark Bridge, apparse sul Times di ieri, in cui paragona gli insulti feroci che si scambiavano i protagonisti della vita pubblica romana (in prima linea Cicerone) alle campagne d’odio oggi ribollenti sui social network.
Dire che non bisogna preoccuparsi troppo della brutalità con cui si viene aggrediti oggi su Internet, perché avveniva lo stesso nell’antica Roma ai tempi di Cesare e Pompeo, dove anzi quel tipo d’invettive aveva “un effetto politicamente stabilizzante”, è un’arma a doppio taglio. Perché è vero che nel I secolo avanti Cristo i leader delle varie fazioni erano pronti a mettersi d’accordo dopo essersi scambiati pesanti ingiurie. Ma parliamo pur sempre di un periodo segnato da lotte di piazza, confische, liste di proscrizione, guerre civili, repressioni cruente come quella scatenata da Silla nell’82 a.C. L’esito finale, dopo decenni di sangue, fu la pace interna pagata a prezzo della libertà, con il regime sostanzialmente dispotico imposto da Ottaviano Augusto, vittorioso nel 31 a.C. su Marco Antonio.
Quindi se il dilagare di quelli che oggi chiamiamo “discorsi d’odio” non causò la caduta della Repubblica, possiamo però considerarlo un sintomo non solo della crisi che l’avrebbe infine uccisa, ma più in generale del clima brutale tipico del mondo romano.
Si tratta di una civiltà che ha avuto enormi meriti storici, ma non bisogna coltivarne un’immagine idilliaca: basti pensare che la schiavitù era comunemente accettata e le guerre di aggressione si susseguivano incessanti. Che oggi si riscontrino comportamenti tali da ricordare un’epoca del genere, sia pure solo nel campo del linguaggio e del dibattito pubblico, non è affatto un segnale rassicurante.

Gli immigrati? Oltre il 70% degli italiani pensa che siano 4 volte di più
di Valentina Iorio

Corriere della Sera, 28 agosto 2018


Uno studio dell’Istituto Cattaneo rivela che l’Italia è il Paese europeo con il maggior distacco tra la percentuale reale e quella percepita. Gli immigrati in Italia sono il 7% (9 se consideriamo quelli provenienti da altri Paesi della stessa Unione europea), ma il 70% degli italiani crede siano circa il quadruplo. A dirlo è la ricerca dell’Istituto Cattaneo “Immigrazione in Italia: tra realtà e percezione”.
Secondo lo studio, tra gli europei, “gli italiani sono quelli che mostrano un maggior distacco tra la percentuale di immigrati non Ue realmente presenti nel Paese e quella percepita, pari al 25%”. I Paesi in cui l’errore è di poco inferiore a quello italiano sono Portogallo, Spagna e Regno Unito. In Italia, sottolinea il report, la differenza tra la percentuale di presenze reali e quelle percepite cresce all’aumentare dell’ostilità verso gli immigrati e quindi non sarebbe solo frutto di una scarsa informazione ma anche di “pregiudizi radicati negli elettori”.
Come cambia la percezione - Lo scarto è maggiore tra coloro che si definiscono di centrodestra o di destra, scende invece al di sotto della media nazionale tra coloro che si considerano di centrosinistra o di sinistra. Anche gli intervistati di sinistra, tuttavia, ritengono che gli immigrati in Italia siano più del doppio di quelli realmente presenti.
L’orientamento politico non è l’unico fattore che fa variare la distanza tra realtà e percezione. Un altro elemento da considerare è il grado di istruzione. “Per chi non è andato oltre la scuola dell’obbligo - rivela il rapporto - l’immigrazione in Italia supera il 28%, mentre tra i laureati la stima si riduce di oltre 10 punti, attestandosi al 17,9”.
I dati variano anche in base all’area geografica di appartenenza. Nel Nord Italia il livello di immigrazione è stimato dagli intervistati al 20% circa, mentre al Sud arriva a superare il 27. “Questo - evidenziano dall’Istituto Cattaneo - è particolarmente significativo perché contrasta completamente con la realtà”. Nel Mezzogiorno, infatti, gli immigrati sono meno del 5% della popolazione, mentre nelle regioni settentrionali sono circa il 10. La distorsione dipende anche dal fatto che “i dati a disposizione dell’opinione pubblica sono spesso frammentari e presentati in maniera partigiana”.

Migranti. La creazione di invisibili che il governo rimuove
di Goffredo Buccini

Corriere della Sera, 28 agosto 2018


Oggi non c’è un problema per gli sbarchi, che sono in calo, mentre non si hanno più notizie di 600 mila extracomunitari arrivati negli ultimi anni. Più dei proclami muscolari, più della tensione tra istituzioni, colpisce lo strabismo: la difficoltà del governo italiano a inquadrare la questione migratoria di questa estate. Eppure mai come ora ci sarebbero le condizioni per lavorare seriamente e iniziare a sciogliere i nodi più ingarbugliati.
Noi abbiamo un gigantesco problema sulla terraferma: l’accoglienza criminogena. Il nostro sistema cervellotico (quasi impossibile da spiegare già dagli acronimi: Cara, Cas, Sprar, Cie, Cpr...) si è perso 600 mila migranti negli ultimi anni (il dato è della Commissione parlamentare sulle periferie). Chi sono? Ragazzi che hanno attraversato il mare per cercare fortuna o salvezza e qui non hanno trovato niente, diventando buoni a nulla pronti a tutto.
Il senegalese Mohamed Gueye, accusato di avere stuprato a Jesolo una quindicenne, è solo l’ultimo della lista. Piccolo spacciatore, balordo da bar, era stato espulso due anni fa (cioè gli avevano dato una pacca sulla spalla e gli avevano detto “vattene entro una settimana”). Lui non se ne è andato, anzi ha fatto un figlio in Italia e ci si è radicato.
È una storia assai simile a quella di Innocent Oseghale, a processo per la morte di Pamela Mastropietro. Alla Commissione periferie la prefetta di Roma Paola Basilone spiegò con efficacia la “creazione degli invisibili”: “Quando la polizia ne ferma qualcuno, lo identifica e, accertata l’irregolarità della sua presenza sul territorio, gli consegna il foglio di via. Gli viene assegnato un termine entro cui lasciare l’Italia, dopo di che è finita lì”. Che da “lì” comincino i nostri guai è di tutta evidenza.
Noi non abbiamo un problema di sbarchi, invece: non adesso. Quest’anno se ne conta un 80 per cento in meno rispetto all’anno scorso. Il merito non è di Matteo Salvini (che se lo attribuisce) ma del suo predecessore Marco Minniti, il quale con un duro lavoro in Libia pose fine ai flussi che ci stavano seppellendo (pure) per scelte sbagliate del suo partito, il Pd: la “diga” scricchiola ma regge ancora (anche se prima o poi per battere l’immigrazione illegale bisognerà riaprire accessi legali). Noi intanto, in quest’estate strabica, fingiamo che il problema, qui e ora, sia in mare e non a terra. Salvini fa di ogni sbarco un’emergenza nazionale. Colse il punto di principio con la nave Aquarius, quando riuscì a scuotere l’Europa dall’inerzia. Ma da allora si comporta come se dovesse fronteggiare flussi biblici e non qualche centinaio di disperati alla volta...
Dunque, perché il governo non si dedica a risolvere il problema a terra? Perché è più costoso, più difficile e ha tempi più lunghi, cioè non frutta dividendi di consenso. Bisogna fare più Cie (i centri dove contenere gli irregolari che chiedeva già Minniti con sdegno di parte della sinistra): ma per farli bisogna vincere le resistenze degli enti locali (chi lo vuole un Cie?). Bisogna impegnare forze dell’ordine per portare via da strade, stazioni e parchi migliaia di clandestini. Bisogna colpire la burocrazia e incidere sulla carne delle cooperative (facile a dirsi, ma si toccano interessi e voti). Bisogna trattare con Senegal, Niger, Mali, Etiopia eccetera, per fare costosi accordi di rimpatrio, bilaterali o via Europa (ma in questo caso non dovremmo mandare al diavolo l’Europa a ogni passo).
Salvini aveva promesso sotto elezioni di rispedire indietro i 600 mila invisibili. Sa che è impossibile. Così sospinge la nostra attenzione verso il mare. Fare la voce grossa in favore di telecamera con cento profughi eritrei è molto più facile. Rende moltissimo (la base pentastellata sta diventando salviniana). E costa poco. Al massimo un’inchiesta: quella per sequestro di persona dei migranti della Diciotti è il più grande regalo che i pm potessero fare al capo leghista, che infatti ha avuto un picco sui social, ma finché esiste uno Stato di diritto era un atto dovuto: con tanto di “reo confesso” che vuole politicizzare il caso quando e se arriverà al Senato.
A questo punto le prossime settimane sono decisive. Salvini ha un consenso senza precedenti per mettere mano ai meccanismi dell’accoglienza storta che il centrosinistra non ha potuto raddrizzare per timore di perdere la sua constituency. Lo faccia, portando in Parlamento un decreto Sicurezza che sia soprattutto utile allo scopo. O ci verrà il dubbio che voglia usare gli sbarchi come arma di distrazione di massa, fino al crudele autunno quando, per colpa del mare, non avrà più neanche quelli tra sé e la legge di Stabilità.

Libia. Battaglia nelle strade di Tripoli, una milizia si ribella ad Al-Serraj
di Giordano Stabile

La Stampa, 28 agosto 2018


La milizia Al-Kani della cittadina di Tarhouna, 50 chilometri a Sud della capitale, ha lanciato ieri un’offensiva verso il centro e il porto di Tripoli. I motivi ufficiali sono sconosciuti ma sembra un tentativo di prendere il controllo di tutta la zona meridionale della capitale. Sui social sono apparse foto di carri armati nelle strade ed edifici in fiamme. I combattimenti più duri, che avrebbero fatto tre morti e undici feriti, sono in corso nei quartieri di Soug al-Jouma, Khallat Furjan, Wadi Rabea e Salahaddine. 
Barricate e carri armati - A difesa della città e del governo di unità nazionale guidato da Fayez al-Serraj sono intervenute altre due milizie, il Battaglione rivoluzionario di Tripoli (Trb) e il 301esimo battaglione. I combattenti fedeli al premier hanno eretto barricate nella zona di Soug al-Jouma e Tajoura e bloccato l’avanzata. I miliziani di Tarhouna si sono adesso posizionati anche nel quartiere di Qasir Benghashir. 
Sospetti su Haftar - Alla tribù di Tarhouna appartiene circa un quarto della popolazione di Tripoli, e i leader hanno tentato più volte di prendersi i quartieri meridionali, nella zona dell’aeroporto. I Tarhouna si sono schierati contro Gheddafi durante la rivoluzione ma ora si sono avvicinati al generale Khalifa Haftar, che è nato proprio nella cittadina anche se non appartiene alla loro tribù. Haftar sta corteggiando da due anni le tribù di Tarhouna e dei Warfalla per attaccare Tripoli. Ma il generale non ha preso per ora posizione sulla battaglia in corso, che potrebbe essere soltanto una lotta interna fra milizie per spartirsi le risorse della capitale. Porto e aeroporto originano infatti consistenti flussi di denaro che finiscono nella tasche delle milizie. 
Migranti bloccati - La battaglia ha anche coinvolto un centro di detenzione per migranti, dove 500 persone sarebbero state abbandonate all’interno dalle guardie, fuggite per l’avanzata dei ribelli. Una giornalista britannica ha raggiunto uno di loro via WhatsApp: le ha detto che sono senza cibo e acqua da 24 ore e ha lanciato un appello perché qualcuno intervenga. 

Myanmar. L’Onu chiede di incriminare i generali birmani per il genocidio dei Rohingya

La Repubblica, 28 agosto 2018


Il rapporto della commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite i leader dell’esercito sono responsabili delle stragi e per questo andrebbero processati. Un rapporto della commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite mette alla gogna i generali birmani e chiede alla comunità internazionale di incriminare i leader dell’esercito per genocidio del popolo Rohingya, crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Un’accusa formulata oggi dal consiglio Onu per i diritti umani dopo l’inchiesta disposta nel marzo 2017 proprio per indagare sulle stragi perpetrate contro la minoranza musulmana. Il principale responsabile, indica il rapporto, è il comandante in capo dell’esercito birmano Min Aung Hlaing insieme a cinque alti ufficiali: colpevoli di aver ordito l’offensiva in Myanmar che l’anno scorso prese di mira le comunità Rohingya uccidendo almeno 10 mila persone nelle stragi commesse negli stati di Rakhine, Kachin e Shan.
“I principali generali birmani, tra cui il comandante in capo Min Aung Hlaing, devono essere indagati e perseguiti per genocidio, come pure per crimini contro l’umanità e crimini di guerra negli Stati di Rakhine, Kachin e Shan”, si legge nel rapporto della Missione del Consiglio per i diritti umani dell’Onu, istituito proprio per accertare i fatti accaduti in Myanmar l’anno scorso. Iniziati esattamente un anno fa, il 25 agosto 2017, dopo alcuni attacchi contro la polizia birmana causando le rappresaglie iniziate con la sanguinosa repressione nello Stato di Rakhine. Da allora migliaia di profughi sono scappati in Bangladesh a piedi o su imbarcazioni di fortuna. Molti hanno raccontato storie raccapriccianti di torture, violenze sessuali, villaggi incendiati.
Le autorità birmane hanno sempre sostenuto che l’esercito ha colpito solo gli insorti e hanno fatto anche un accordo con il Bangladesh per rimpatriare i profughi: ma pochi si sono fidati tornando indietro dicendo che non lo faranno finché la loro sicurezza non sarà garantita. Eventi che hanno portato a dure critiche del premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, che non ha condannato con abbastanza forza le violenze contro la minoranza musulmana.