Ristretti News Speciale

 

Chiude la sezione di Alta Sicurezza della Casa di Reclusione di Padova

Una “deportazione” che spezza tante vite, interrompe percorsi, tronca legami famigliari faticosamente ricostruiti

 

SOMMARIO

 

Capitolo I

Chiude la sezione di Alta Sicurezza di Padova

 

Capitolo II

Massacrati dal 41 bis, stritolati dall’Alta Sicurezza, nell’estenuante attesa di una declassificazione

 

Capitolo III

Ristretti Orizzonti, e la convinzione che non ci siano “cattivi per sempre”


Capitolo I

 

Chiude la sezione di Alta Sicurezza di Padova

Una “deportazione” che spezza tante vite, interrompe percorsi, tronca legami famigliari faticosamente ricostruiti

 

I detenuti che hanno passato anni della loro vita in regime di 41 bis e poi di Alta Sicurezza sanno bene che cosa sono i trasferimenti improvvisi che ti distruggono anche quel po’ di vita che ti eri costruito faticosamente in un carcere. Noi eravamo convinti che l’Amministrazione penitenziaria applicasse finalmente la circolare del 2014 "Disposizioni in materia di trasferimenti dei detenuti" riducendo al minimo i trasferimenti, non trincerandosi sempre dietro i motivi di sicurezza per giustificare gli spostamenti di persone detenute da un capo all’altro dell’Italia, senza nessuna preoccupazione per le loro famiglie, costrette a viaggi sfiancanti, costosi, per vedere i loro cari per poco tempo in sale colloqui squallide. Il vocabolario definisce la deportazione come una pena consistente nella relegazione del condannato in un luogo lontano dalla madrepatria, con privazione dei diritti civili e politici”: ecco, certi trasferimenti assomigliano tanto a deportazioni, e privano i detenuti di tutto, anche del diritto a preservare i loro affetti.

Quelle che seguono sono le testimonianze di detenuti che, dopo anni passati in carceri di massima sicurezza lontano dalle famiglie, sono arrivati a Padova, dove sono riusciti a ricostruire i legami spezzati e a dare un senso alla loro carcerazione, ma ora pare che chiuderanno davvero la sezione di Alta Sicurezza, e chi vi è rinchiuso verrà trasferito, a Parma, a Sulmona, a Asti, a Opera, in Sardegna, e perderà di nuovo quel po’ di umanità che aveva ritrovato. È desolante che le persone detenute troppo spesso siano trattate come pacchi e spostate senza avere la minima possibilità di decidere qualcosa della loro vita. Come se la perdita della libertà significasse perdere anche la dignità propria di ogni essere umano.

 

 - Trasferimenti che distruggono drammaticamente i legami famigliari, di Gaetano Fiandaca

 

Dopo quasi otto anni trascorsi nella Casa di reclusione di Padova, nei prossimi giorni sarò trasferito, poiché la sezione di Alta Sicurezza dove attualmente mi trovo sarà chiusa per motivi a me ignoti, che sicuramente riguardano delle convenienze ministeriali, ma che non rispettano per niente le vite delle persone.

Questo immotivato trasferimento comporterà un totale azzeramento di quello che è stato il mio percorso in questo istituto, il quale mi ha dato la possibilità di crescere sul piano culturale e ha reso i contatti con i miei familiari molto più umani, cosa che verrà meno se verrò trasferito in altro luogo.

Da quando mi trovo in questo istituto ho sempre usufruito di 6 ore di colloquio e da un paio di anni di altre due telefonate straordinarie, questo mi ha permesso di coltivare meglio i miei rapporti familiari con mia figlia, mia moglie e con i miei anziani genitori. I colloqui si svolgono in una sala accogliente che nasconde il grigiore del carcere. In particolare mi preme segnalare che da circa 3 anni effettuo colloqui esterni con mia figlia nella struttura protetta “ Piccoli passi” poiché la bambina manifestava gravi disagi psichici ogni volta che veniva a trovarmi in carcere.

Se andrò via da qui tutto ciò verrà meno e sicuramente andrò in un carcere dove dovrò ripartire da zero, iniziare con 2 telefonate mensili, 4 ore di colloquio e trascorrere le mie giornate chiuso in cella per 20 ore lasciandomi logorare totalmente dall’ozio. Sicuramente quello che mi peserà particolarmente sarà il dovere interrompere i contatti con mia figlia, in quanto temo che in altri posti non troverò la sensibilità e la comprensione che ho trovato qui.

Subire questo è veramente ingiusto dopo 20 anni di carcere, sono questi i motivi per cui cresce la delusione e la diffidenza nei detenuti, ai quali spesso viene spazzato via quello che hanno costruito, anche con sacrifici e ulteriori privazioni

Trovo che questi trasferimenti avvengano senza tenere minimamente in considerazione i detenuti come esseri umani, né le famiglie che devono pellegrinare su e giù per l’Italia per andare a trovare il loro caro. E sono proprio queste condizioni di detenzione che spesso causano molti allontanamenti fra i detenuti e le loro famiglie. Forse a quasi 50 anni sono ancora un po’ ingenuo a non capire che queste lunghe distanze hanno proprio il fine di creare una vera e propria rottura con ogni affetto familiare. Ma insieme alla distruzione degli affetti, viene cestinato anche il percorso carcerario che un detenuto per anni svolge con impegno costante, cercando in tutti i modi di partecipare a quelle iniziative culturali e lavorative che sono così importanti per ricostruire la propria vita.

Questi comportamenti delle istituzioni determinano delusione e sfiducia e fanno perdere alle persone la voglia di intraprendere ulteriori percorsi carcerari in altri istituti di destinazione, dove dovrebbero ripartire da zero, magari dopo più di vent’anni di carcere alle spalle, con l’angoscia di sapere che poi questi percorsi saranno quasi sicuramente spazzati via dalla prossima, immotivata deportazione di massa. Perché di deportazione si tratta, non c’è niente di umano in questi trasferimenti, nessun rispetto, nessuna considerazione per la dignità delle persone.

 

Il mio reinserimento, oggi a rischio di essere devastato

 

Da quando mi hanno detto che chiuderanno la sezione di Alta Sicurezza, ho ripensato alla mia esperienza di studio qui in carcere. Al momento in cui ho lasciato la scuola nel 1983, dopo avere conseguito la licenza media, pensavo che la mia esperienza scolastica si fosse conclusa per sempre.

A 43 anni, a seguito della mia detenzione, ho avuto la possibilità di iscrivermi a ragioneria e devo dire che fin da subito mi sono reso conto di quanto fossero importante l'istruzione e la cultura e di quanto io ne avessi bisogno. I benefici di ciò sono veramente tanti, sono passato dall'ozio quotidiano, fatto di consuetudini ripetitive, a un'attività completa per accrescermi sul piano culturale.

La scuola per me è stata una notevole apertura sul mondo, mi permette di confrontarmi con gli insegnanti e mi apre tutti quegli spazi, che diversamente sarebbero rimasti invalicabili.

Sull'immediato ho notato solo benefici a livello mentale e interiore, nel futuro spero che possa servirmi nella vita sociale e lavorativa, dico spero poiché il mio ergastolo ostativo non mi consente di avere una certezza, visto che le attuali leggi, a riguardo, dicono che la mia pena finirà con i miei giorni di vita.

Questa esperienza della scuola, che auguro a tutti, in particolar modo a quelle persone che come me vivono una situazione di ristrettezza, consente di poter vivere più serenamente con se stessi i problemi, ma anche di potersi meglio aiutare e difendere nella vita, uscendo dal vuoto in cui si vive quando non si ha una adeguata istruzione. L'ignoranza infatti è una brutta bestia. Spero di continuare in questo percorso, che mi consente un ampliamento totale della visione della vita. Mi affascina molto anche l'aspetto competitivo che automaticamente s'innesca con me stesso, in una attività di studio che non affronto più da adolescente.

Chiaramente, tutti questi buoni propositi oggi non dipendono esclusivamente dalla mia volontà, io sono condizionato dalle possibilità che offrono i posti in cui mi trovo, che non sempre garantiscono una continuità nelle attività didattiche, anzi, a breve chiuderà la sezione di Alta Sicurezza dove attualmente mi trovo, e io sarò deportato per la tredicesima volta chissà dove per motivi che esulano da mie responsabilità, ma che riguardano convenienze e comodità del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, che spesso ci considera e ci tratta come dei pacchi postali da stipare in posti deve occupiamo meno spazio e possibilmente sempre più difficili da raggiungere ai nostri familiari, i quali sono colpevoli di essere ancora molto legati a noi.

Tali iniziative stridono fortemente con il tanto decantato reinserimento dei detenuti, visto che quello che i detenuti costruiscono con molto impegno e sacrificio viene spesso spazzato via da decisioni prive di considerazione per le persone, motivo per cui molti detenuti rimangono scettici e diffidenti verso coloro che in teoria dovrebbero aiutarli ad un reinserimento, ma che di fatto fanno una cosa diversa.

Il mio più vivo auspicio è che venga rivista la possibilità di questa imminente deportazione di massa, in modo che io, cosi come altri detenuti che in questo istituto da tempo abbiamo intrapreso un percorso didattico e lavorativo, possiamo continuare a crescere sul piano culturale, nella remota speranza che anche per noi possa esserci un futuro.

 

 -   Sto frequentando l’ultimo anno delle scuole superiori, non voglio spezzare questo percors, di Antonio Papalia

 

Mi chiamo Antonio Papalia, sono nato a Platì (RC) il 26/03/1954 e sono detenuto dal settembre 1992. Sono stato trasferito nella casa di Reclusione di Padova nel giugno del 2009, dopo sei anni di detenzione speciale e otto anni di 41bis, e, da subito, ho intrapreso un percorso di rieducazione frequentando un corso di cultura generale e poi iscrivendomi alla scuola media superiore Einaudi-Gramsci di Padova, dove sto frequentando il 5° anno, cioè l’ultimo, per poter prendere il diploma di ragioneria.

Inoltre sto frequentando la redazione del giornale Ristretti Orizzonti e frequento da quasi 2 anni un gruppo di catechesi. E mi impegno a scrivere libri di favole e poesie partecipando ai vari concorsi che vengono periodicamente promossi sia all’interno che all’esterno delle strutture penitenziarie.

Da quando sono in questo istituto inoltre, ho avuto la possibilità di avere più colloqui con la mia famiglia e ho potuto parlare più spesso per telefono con i miei nipotini rispetto al passato, perché il Direttore di questo carcere, devo dire in modo umano, ha concesso oltre alla telefonata settimanale ordinaria, anche due straordinarie. Oltre a questo, il Direttore ha concesso dei colloqui “lunghi” per stare più ore con la famiglia permettendo, in queste occasioni, anche di poter pranzare assieme in palestra.

Capite quindi che un eventuale trasferimento in un altro istituto mi penalizzerebbe molto, perché non avrei più la possibilità di partecipare alle attività predette. Prego, quindi, che non mi trasferiscano da questo istituto a un altro.

 

-   Spezzare il mio destino, di Demetrio Sesto Rosmini

 

Sono Demetrio Sesto Rosmini. Vi racconto il mio percorso detentivo iniziato il 4 dicembre 1990 quando sono stato condannato alla pena dell’ergastolo. Dal 1999 al 2002 sono stato sottoposto al 41 bis. Nei vari istituti in cui sono stato ristretto ho studiato e nel carcere di Livorno mi sono diplomato. Dal 15 giugno 2013 sono a Padova, nella sezione AS 1, e qui mi sono iscritto alla Facoltà di Storia dove sto ottenendo ottimi risultati.

Oltre a studiare, lavoro nel laboratorio di cucito dove rammendiamo le lenzuola dell’Amministrazione; poi ho partecipato al progetto di volontariato per Telefono azzurro di Padova, per cui abbiamo creato delle bambole di pezza e una coperta di Patchwork donata in beneficenza. Ho collaborato con l’associazione Passione Patchwork alla realizzazione di 17 coperte e il ricavato è stato donato all’orfanatrofio di Dolo.

Il gruppo di lavoro di cui faccio parte ha organizzato, in collaborazione con il carcere di Rebibbia, la mostra “La creatività libera” che ha riscosso un grande interesse nella società esterna.

Il mio reinserimento in questo istituto è in pieno svolgimento e un mio trasferimento in questo momento sarebbe come perdere di colpo tutti i miei venticinque anni di carcerazione.

 

-   Cerco e voglio reinserirmi nella onesta società, di Domenico Vullo

 

Mi chiamo Domenico Vullo e come tanti altri sono detenuto nella sezione Alta Sicurezza della C.R. di Padova. Ho una condanna definitiva a 30 anni di reclusione, sono detenuto da 8 anni, di cui 4 passati al regime di 41bis.

Da due anni mi trovo in questo istituto, e per l’esperienza che ho degli altri istituti di pena, posso dire che il primo obiettivo di questa Direzione è quella di recuperare le persone detenute. Qui hai la possibilità di telefonare sei volte al mese ai tuoi familiari. Hai la possibilità di stare fuori dalla cella per 11 ore al giorno. Qui frequento il corso scolastico di ragioneria, il catechismo, la palestra, abbiamo la possibilità di tenere in cella il computer. Conoscendo le regole degli altri istituti mi vengono i brividi solo a sentire la parola “trasferimento”.

Sono lontano quasi 2000 Km da casa, essendo siciliano (Gela), faccio colloquio quando la mia famiglia ha la possibilità di venire a trovarmi. Non ho di che lamentarmi di come passo le mie giornate qui a Padova. Cerco e voglio reinserirmi nella onesta società… e che cosa mi vengono a dire? Che la sezione alta sicurezza verrà chiusa e i detenuti saranno trasferiti tutti, qualcuno addirittura in Sardegna.

Che delusione! Tutto il mio impegno per tornare ad essere quello che la buona e onesta società richiede, viene annullato con un trasferimento.

 

-   Cosa potrà essere il mio trasferimento in Sardegna, di Ernesto Cornacchia

 

Mi chiamo Ernesto, sono arrivato nel carcere di Padova nel 2013, dopo 8 anni passati in regime di 41 bis ad Ascoli Piceno, dove la mia carcerazione è stata un calvario per me e per la mia famiglia. Da quando sono arrivato a Padova abbiamo trovato un po’ di serenità, io e la mia famiglia. Qui frequento la redazione di Ristretti Orizzonti, ma soprattutto ho potuto riallacciare i rapporti con la mia famiglia. Da quando sono qui mi è nato anche un bambino, che ora ha un anno e 2 mesi. Adesso lo vedo tutti i mesi, ma se mi portano in Sardegna non so quando lo potrò rivedere. Il 10 settembre 2014 mi hanno operato a causa di un tumore per cui mi hanno tolto mezzo rene e la milza; ogni sei mesi devo sottopormi a controllo all’ospedale di Padova che mi ha in cura. Se vado via da qui non so cosa mi succederà, spero che mi lascino qui per farmi curare e stare vicino alla mia famiglia.

 

-   Dalla mia esperienza so che la continuità di trattamento è prevista solo teoricamente, di Giovanni Donatiello

 

Sono Giovanni Donatiello e sono detenuto sin dal 1986 ininterrottamente. Mi trovo nel circuito A.S.1 da ben quindici anni, durante i quali ho peregrinato per i vari istituti tra cui Livorno, Voghera, Sulmona, Milano-Opera fino ad arrivare circa un anno fa in quel di Padova, dove tuttora sono ristretto.

Nel corso degli anni ho intrapreso un percorso di studi conseguendo il diploma di ragioneria informatica nel carcere di Livorno nell’anno scolastico 2004/05.

Ho continuato a studiare iscrivendomi presso l’università di Pisa alla facoltà di Scienze Politiche. Nel frattempo venivo trasferito nel carcere di Sulmona. Per poter sostenere gli esami venivo aggregato, in un primo momento, presso uno degli istituti limitrofi all’università di Pisa, a volte a Sollicciano, Livorno e molto più frequentemente a Prato. In un certo senso mi si garantiva il diritto allo studio.

Dopo un certo periodo di tempo, queste modalità sono state modificate, ovvero le traduzioni per sostenere gli esami dovevano effettuarsi nella stessa giornata. Partivo alle tre del mattino da Sulmona, arrivo a Pisa intorno alle ore 13, tempo di riprendersi dal viaggio – eufemismo – venivo esaminato e si ripartiva per Sulmona dove si rientrava verso le ore 20.00.

Ad un certo punto le traduzioni non sono più state concesse e gli esami li potevo sostenere solo tramite videoconferenza. Con molte difficoltà ho sostenuto un solo esame con queste modalità e sono stato costretto a malincuore ad abbandonare gli studi. Nel periodo di detenzione a Sulmona ho frequentato per un periodo un corso universitario di Operatore Giuridico di Impresa.

Nel 2010 vengo trasferito nella Casa di Reclusione di Milano – Opera, dove tento in tutti i modi di riprendere il percorso di studi con l’Università di Pisa, ma tutto sembra insormontabile, per farla breve, nonostante le mie ripetute lagnanze con gli operatori, in circa tre anni ho potuto avere tre colloqui con il personale preposto a seguire gli studenti universitari. L’unica risposta dopo questo periodo di tempo è stata quella che potevo fare il cambio di sede.

Nel gennaio 2014 vengo trasferito a Padova e già al colloquio di primo ingresso espongo questa mia situazione. Nell’arco di circa tre mesi ho avuto un numero di incontri con professori, tutor universitari e addetti che non ho mai avuto in tutti gli altri istituti messi insieme.

Ora sono iscritto al secondo anno della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Padova. Mi è stato consentito di fare il cambio di sede ed ho ripreso a studiare. Sono previsti una serie di esami, uno di Storia contemporanea nel mese di febbraio, un altro di economia politica nel mese di marzo e prima della pausa estiva dovrò concordare i periodi per gli esami di Storia delle Dottrine Politiche, Scienze Politiche e Analisi delle Politiche Pubbliche.

Da quando sono giunto in questo istituto ho veramente creduto che finalmente avrei potuto concludere questo percorso di studi. Inaspettatamente è giunta notizia che tutto il circuito A.S. dovrà essere rimosso e sarò trasferito in un’altra sede e così verranno meno le certezze che avevo acquisito ultimamente.

Oltre a dover interrompere il percorso di studio, saranno limitati anche i contatti telefonici con la famiglia, infatti a Padova, oltre alla prevista telefonata settimanale, sono concesse due telefonate straordinarie mensili. Questo denota da parte della direzione un’attenzione particolare affinché possano essere coltivati i rapporti con la propria famiglia.

Oltre a studiare in questo periodo ho frequentato un corso di diritto privato, un corso di inglese, un corso di yoga e ora sto frequentando un corso di Inglese, un corso di scrittura e faccio parte di un gruppo di discussione presso la rivista Ristretti Orizzonti. Sono tutte attività che mi arricchiscono culturalmente e mi impegnano in modo costruttivo.

Dalla mia esperienza so che la continuità di trattamento è prevista solo teoricamente. Infatti, ogni qualvolta sono stato trasferito in altro istituto, il trattamento non solo non ha avuto continuità ma spesso è regredito a causa della mancanza totale di attività previste dall’Ordinamento Penitenziario.

Ritrovarmi ancora nella condizione di dover stare chiuso per 20 ore al giorno in cella sarebbe veramente una iattura che spero in tutti i modi di poter evitare.

Spero qualcuno si faccia portavoce di queste mie esigenze per un carcere più umano e a dimensione d’uomo come lo è quello di Padova.

 

-   Non buttatemi via come la spazzatura, di Giovanni Zito

 

Sono Giovanni Zito nato a Catania il 02/12/1969, attualmente ristretto presso l’istituto di Padova. Sono un ergastolano, ubicato nella sezione AS1, lato A.

Da quando sono in questo istituto, la mia detenzione è cambiata radicalmente perché da subito sono stato inserito presso la redazione di Ristretti Orizzonti, partecipando ai gruppi di discussione e alle varie giornate di studio organizzate dalla redazione. Inoltre frequento il primo anno di ragioneria presso l’Istituto Gramsci e le attività di catechismo, che contribuiscono al mio percorso risocializzante, alla luce del quale vorrei che la mia persona fosse rivalutata.

Se fossi trasferito presso un altro istituto, sicuramente non avrei lo stesso trattamento che ho qui, e vi chiedoallora: cosa dovrei fare della mia vita? Che cosa dovrei fare per scontare questa mia pena di morte?

Sono stanco, sono distrutto, perché sono stato trasferito da un carcere all’altro come un pacco postale, causando disagi enormi alla mia famiglia.

Sono stato all’Asinara, Viterbo, L’Aquila, Novara, Cuneo, Voghera, Carinola, per approdare alla fine in questo istituto dove mi sento rinato e pieno di vitalità. Desidero fortemente rimanere a Padova perché sono sicuro di essere ancora utile non solo alla mia famiglia, ma anche alla società civile.

Non buttate via la mia esistenza, lasciatemi vivere migliorando sempre di più, non lasciate la mia vita vuota, fate di me un uomo nuovo, io sono pronto.

 

-   Chiedo che mi venga data la possibilità di terminare gli studi e realizzare i miei progetti, di Giuseppe D’Agostino

 

Sono Giuseppe D’Agostino, nato a Laureana di Borrello (RC) il 12/09/67. Mi trovo nell’istituto di Padova Due Palazzi, sez. A. S. da giugno 2014, proveniente dall’istituto A.S.1 di Biella dove ero arrivato nel 2010. Nei quattro anni in cui ero stato lì avevo iniziato un percorso di rivisitazione personale, rinunciando alle attività ricreative interne per frequentare il liceo artistico istituito nello stesso carcere. Il percorso richiedeva la frequenza delle lezioni e l’impegno per giungere alla maturità alla fine dei cinque anni di studi. Con la storia dell’arte non avevo mai avuto nessun contatto se non per l’aver ammirato le opere che abbiamo in Italia. Con sacrifici e abnegazione ho incominciato ad apprezzare l’arte e tutto ciò che comporta. Questo però mi è stato precluso alla fine del terzo anno di liceo artistico quando sono stato trasferito senza una motivazione plausibile e senza che venisse tenuto in considerazione il trauma psicologico a cui un detenuto va incontro in questi casi. Quando sono stato trasferito a Padova ho subito lo stesso stress che avevo subito nei trasferimenti precedenti, ritrovandomi senza la cosa su cui avevo fatto progetti e riversato speranze per il mio futuro, avevo perso l’opportunità di terminare gli studi. Mi sono sentito come il primo giorno in cui avevo fatto ingresso in carcere, tutto provvisorio e senza nessuna prospettiva futura. Tutto era crollato, dovevo ricominciare daccapo, riavvolgere il nastro, e cercare di dare un senso a questa nuova realtà carceraria così diversa dalle mie abitudini e lontana dai miei studi.

Mi sono subito attivato anche grazie alle pressioni del Liceo Artistico di Biella attraverso i docenti che si sono prodigati nel trovarmi un liceo artistico qui a Padova, cosa che in poco tempo è avvenuta. Non poteva concretizzarsi niente senza l’impegno dell’educatrice della mia sezione, la dott.ssa Sattin (è stata lei ad incitarmi a continuare con l’indirizzo artistico), grazie alla quale sto frequentando come uditore la 5° ragioneria per avere il punteggio finale necessario a sostenere gli esami di maturità da privatista, e sono seguito nelle varie materie dai tutor. Ora che incominciavo a trovare nuovamente un certo equilibrio e a ripartire con molte difficoltà, di nuovo mi ritrovo a essere trasferito a seguito della chiusura della sezione A.S.1. Mi ritrovo catapultato all’indietro nel tempo rivivendo il trauma passato per il trasferimento e l’abbandono forzato degli studi. Non credo che sarei nelle condizioni di rifare tutto quello che ho fatto finora, credo che abbandonerei gli studi e il sogno di iscrivermi all’Università. Sarà vanificata ogni cosa fatta fino adesso, tutte le rinunce, le notti trascorse a studiare, non saranno servite a nulla. Non chiedo nulla di eccezionale se non di avere la possibilità di potermi diplomare dove sono iscritto (Liceo Artistico Pietro Selvatico di Padova) per poi continuare a studiare per conseguire una laurea, così almeno potrò rendere la mia esistenza e la mia presenza in carcere in qualche modo utile per la società, dimostrando che anche se si è reclusi ci si può mettere in discussione, confrontandosi con le realtà esterne e facendo venire fuori quello che di buono permane in ogni essere umano.

La certezza di vedersi mantenere il percorso che un detenuto riesce ad intraprendere è di vitale importanza, lo fa sentire vivo e utile per gli altri e per se stesso. Alle speranze devono seguire fatti concreti, non si possono usare i detenuti come merce di scambio per soddisfare le esigenze delle carceri sparse attraverso il paese. Il mio urlo è che mi venga data la possibilità di terminare gli studi e poter realizzare così i miei progetti donando un senso alla mia stessa esistenza.

-   Dopo tanti anni di percorso, va tutto buttato al vento, di Giuseppe Montanti

 

Mi chiamo Giuseppe Montanti, ho 60 anni, 9 li ho passati al 41 Bis, che si è preso tutti i miei sogni, i miei affetti, le mie parole. Sono uscito da questo regime nel 2010 e sono stato trasferito nella Casa di reclusione di Padova dove con tantissima difficoltà gli operatori hanno iniziato a coinvolgermi in alcune attività, oggi partecipo alla sala hobby dove costruiamo delle bambole che vanno donate ai bambini del mondo, si fanno coperte e si rammendano le lenzuola dell’amministrazione. Oggi riesco ad esprimermi un po’ meglio, riesco a vedere un futuro migliore, anche se sono condannato alla pena dell’ergastolo ostativo, ma questo istituto mi apre gli orizzonti e riesce a farmi avere una visione migliore delle istituzioni, contro cui prima avevo solo rabbia e odio, avevo creato un mondo tutto distorto, oggi cerco di vedere la realtà in un modo diverso.

Ora riesco a tenere un bel rapporto con la mia famiglia, che vive in Germania, anche perché il direttore di Padova ci dà la possibilità di fare 6 telefonate al mese, 6 ore di colloquio e da poco possiamo accedere a Skype, che per una persona che non fa colloquio e ha i parenti all’estero è un’occasione importante per vedersi, anche se solo in video. Ci sono concessi alcuni colloqui prolungati di domenica, in cui abbiamo potuto mangiare con le nostre famiglie e siamo riusciti a giocare con i nostri nipotini, che abbiamo conosciuto in carcere. Tutto questo ha permesso di diminuire almeno un po’ la condanna per le nostre famiglie. Perché ora tutto questo ci viene tolto? Cosa ci dobbiamo aspettare?

Oggi che ci è detto che la sezione di alta sicurezza di Padova verrà chiusa, cosa sarà di tutto il nostro percorso? Cosa sarà per le nostre famiglie? Non ci voglio credere che devo ritornare cattivo e odioso verso le istituzioni, perché devono sempre decidere loro quando farci diventare buoni o cattivi?

È giusto che siamo trattati come merci di scambio?

 

-   Qui a Padova ho incominciato a pensare, a sognare, e soprattutto a sperare, di Giuseppe Zagari

 

Mi chiamo Giuseppe Zagari e da circa cinque anni mi trovo in questo istituto di Padova dove ho intrapreso un percorso molto importante nella redazione di Ristretti Orizzonti, mettendomi in gioco e facendo autocritica del mio poco piacevole passato.

Ora sento dire che la sezione in cui mi trovo sarà chiusa e tutti i detenuti saranno tradotti.

Non so, per questo mi domando e vi domando, cosa deve fare un uomo per dimostrare che non è più ciò che è stato un tempo? che le sue vedute vanno oltre a quelli che sono i limiti che lo caratterizzavano fino a quando non ha finalmente incominciato a vedere un barlume di speranza grazie al percorso citato?

Durante alcuni convegni sono intervenuto dando testimonianza della mia storia umana e giudiziaria, cosa non facile visto l’ambiente in cui mi trovo, ma grazie a Ristretti Orizzonti sono riuscito a esternare ciò che non avrei mai potuto fare se non mi fosse stata data questa possibilità.

Ho incominciato a pensare, a sognare, e soprattutto a sperare, dando a mia volta speranza alla mia famiglia che da ormai ventiquattro anni circa mi segue in questo inferno senza fine.

Il rammarico più grande non è di per sé la fine di questo mio percorso, ma la delusione che darò ancora una volta alla mia famiglia.

Certo ciò non dipende da me, ma mi sento comunque responsabile di dare ancora una volta prova dei miei fallimenti.

Non solo io ho creduto che la giustizia possa in qualche modo venire incontro a chi dopo tanti anni di solitudine e pene varie abbia intrapreso una via diversa, ma anche la mia famiglia, viste le possibilità che si sono presentate in questo istituto, ha incominciato ad avere un po’ di pace nel cuore.

Sarebbe un nuovo trauma per i miei cari vedermi catapultato in un altro pozzo senza fondo.

 

-   A che cosa serve diventare “buono”?, di Ignazio Bonaccorsi

 

Mi chiamo Ignazio Bonaccorsi, sono in carcere da tantissimi anni, il mio percorso è stato sempre deludente, giravo tantissimi istituti con rabbia, violenza, delusioni, non accettavo mai di sottomettermi alle istituzioni, sono stato sempre un ribelle, credo anche per la cultura del paese da cui provengo, dove per sopravvivere dovevi combattere, dove dovevo rubare per dare da mangiare a me e alla mia famiglia. Io vengo da una famiglia povera, eravamo tanti fratelli, mio padre lavorava con i carretti siciliani, trasportava grano, io da piccolo andavo sempre dietro di lui per poter portare del pane a casa, ho conosciuto tanto freddo, tanto lavoro, tantissima fame, era il periodo dopo la fine della seconda guerra e per i siciliani iniziava la terza guerra, quella per sopravvivere alla fame, purtroppo erano quelli i tempi. La mia vita deraglia, fin da piccolo conosco solo pane e carcere, non conoscevo scuole, non conoscevo una casa calda, il mio posto caldo lo trovavo solo in carcere, quel carcere che non è mai riuscito a darmi una educazione, afarmi capire dove abbia potuto sbagliare.

Oggi avevo trovato una mia stabilità nel carcere di Padova, dove ho iniziato un percorso con le scuole, sono al quinto anno di ragioneria, e sono inserito nel corso di catechesi, che frequento con tantissima passione, riesco a trovare una mia identità, trovo la parola che mi era stata tolta nel regime di 41 bis. Gli operatori hanno fatto tantissima fatica per farmi trovare un senso per andare avanti, oggi ci sono riusciti, ho conosciuto i miei professori che considero una parte della mia famiglia, ho conosciuto dei volontari che hanno capito le mie difficoltà e sono stati bravi ad aiutarmi, oggi ho trovato anche un piccolo lavoro in sezione, con cui riesco a comprarmi qualcosa. Sempre qui sono riusciti a trovare le medicine giuste per curare certe mie patologie. Ho la possibilità di vedere la mia famiglia tramite Skype, era da anni che non riuscivo più a vederli a causa della distanza, perché mia moglie non può viaggiare a causa delle patologie e dopo tantissimi anni di carcere non ci sono più neanche le possibilità economiche per spostarsi, sono tanti i problemi per un carcerato. Padova aveva risolto certe mie difficoltà, ma questo sogno è durato poco, oggi ci dicono che la sezione di alta sicurezza verrà smantellata, saremo trasferiti, inizia di nuovo il mio panico, mi chiedo se ritornerò al passato, ho paura di perdere quel calore familiare che avevo trovato con i professori, i volontari e il resto, non potrò più beneficiare delle telefonate straordinarie, e questo significa perdere la mia famiglia. Forse era meglio rimanere cattivo, almeno non avrei conosciuto questa umanità che ora perderò, perché una realtà come quella del carcere di Padova non potrò mai ritrovarla.

 

-   A Padova hai la possibilità di telefonare sei volte al mese e usare Skype, di Letterio Campagna

 

Mi chiamo Letterio Campagna, sono detenuto da cinque anni, di cui due li ho passati in regime di 41bis. Il 31 Ottobre del 2014 mi è stato revocato il 41bis e sono stato trasferito nella C.R. di Padova, dove ho trovato questo carcere adatto al reinserimento di un detenuto che come me ha ancora da scontare molti anni. Mi trovo in questo istituto da pochi mesi, ma sono bastati per farmi capire che le opportunità che offre la Direzione di questo carcere non si trovano altrove. L’ultimo colloquio che ho fatto è stato il 18 Dicembre 2013, ero a Novara in 41bis, sono venute a trovarmi mia madre, mia sorella e una mia nipote. Non vedo mia moglie da tre anni e otto mesi e i miei figli da due anni e otto mesi. Qui la Direzione, a chi non fa colloqui da almeno tre mesi, dà l’opportunità di usufruire di un video-colloquio attraverso il collegamento Skype, garantendo il collegamento con i propri familiari una volta al mese per la durata di 15 minuti. Inoltre, qui hai la possibilità di telefonare sei volte al mese. Per uno che si trova nella mia stessa situazione, che non fa colloqui, poter vedere la propria moglie e i propri figli, anche se attraverso un video e solo una volta al mese, e poter sentire la loro voce una volta alla settimana, aiuta a superare questo muro di malinconia, tristezza e ansia.

Io sono attore e regista teatrale, titolare di una compagnia teatrale denominata “Compagnia teatrale LA FILANDA” di Lillo Campagna, e parlando con l’educatrice, pare ci sarebbe l’occasione di mettere a disposizione la mia esperienza teatrale e iniziare un percorso di teatro con la partecipazione di altri detenuti. Tutto questo, se dovesse avvenire questo trasferimento, sarà solo una delusione.

In un altro istituto carcerario sei rinchiuso nella tua cella 20 ore al giorno, e questo serve solo a fare incattivire una persona. In tutti gli altri istituti hai diritto solo a due telefonate al mese, ci sono sempre difficoltà per i familiari per i colloqui e nessuna opportunità di reinserimento nella società.

Trovarsi dall’oggi al domani in un posto con regole diverse dalla C.R. di Padova, crea soltanto malumore e perdita di fiducia per chi aveva speranza per un reinserimento.

 

-   Mi ritroverò a stare in cella per 20 ore al giorno ad oziare, di Giuseppe Scarlino

 

Mi chiamo Giuseppe Scarlino, sono detenuto nel carcere di Padova da circa sei anni durante i quali ho sempre tenuto un comportamento esemplare partecipando a tutte le attività che sono state proposte in questo istituto.

Nel corso degli anni ho svolto attività lavorativa a turnazione, frequento un corso di cultura generale, ho frequentato un corso di yoga, ho fatto parte del gruppo di discussione di Ristretti Orizzonti, ho frequentato un corso di scrittura. Tutte attività certamente riportate nella sintesi di osservazione redatta dall’equipe di osservazione e trattamento, conclusa con pareri lusinghieri.

Da circa sette mesi faccio parte del corso di cucito, in cui abbiamo prodotto lavori che sono stati esposti, hanno suscitato interesse per la manifattura, ma hanno anche portato ricavi da destinare in beneficenza.

Questo mi ha dato una grande gratificazione, oltretutto sto acquisendo competenze nel campo del cucito che potrebbero essermi utili per un reinserimento nel mondo del lavoro.

Ma l’aspetto più importante che vorrei evidenziare riguarda i rapporti con i famigliari. Faccio presente che non posso effettuare colloqui regolari e che quindi devo supplire questa mancanza con i colloqui telefonici. In questo istituto sono previste oltre alla telefonata settimanale due telefonate straordinarie al mese concesse dalla direzione. A quanto è dato sapere, in questo istituto non sarà più previsto il circuito A.S. e a breve sarò trasferito in altro istituto, con le conseguenze che tutto verrà vanificato e mi ritroverò a stare in cella per 20 ore al giorno ad oziare. Ci sarà una regressione notevole in quanto in questo istituto si garantisce la vivibilità e la civiltà. Mi auguro che qualcuno possa intervenire per una soluzione più favorevole.

                                                                               

-   Ancora una volta condannato, di Tommaso Romeo

 

Sono Tommaso Romeo e sono detenuto ininterrottamente dal 27/5/93. Il mio fine pena è 9999. Dal 18/6/2009 mi trovo nella casa di Reclusione di Padova, nella sezione AS1, dove sono arrivato dopo aver trascorso sedici anni di carcere, di cui otto sottoposto al regime del 41 bis. In quei sedici anni non avevo mai incontrato un giudice di sorveglianza, ammetto che allora vedevo tale figura come un nemico, e per quanto riguarda gli educatori e i volontari, non solo non li avevo mai incontrati, ma nemmeno sapevo della loro esistenza. Esco dal regime del 41 bis che avevo perso l’affettività della mia famiglia per colpa di quel maledetto vetro che ai colloqui mi toglieva la possibilità di dare una carezza alle mie figlie. Mia moglie cade nell’inferno della depressione.

Arrivo nel 2009 a Padova con dentro un bel po’ di rabbia, ma subito ho il colloquio con l’educatrice che mi consiglia di iscrivermi all’università e così faccio, anche se avevo grande difficoltà, non riuscivo più a esprimermi dopo il lungo periodo di isolamento del 41 bis, mi ha aiutato molto pure l’incontro con i volontari, quel poco tempo che dialogavo con loro mi aiutava ad avvicinarmi alla società esterna. Anche la possibilità di telefonare una volta a settimana ai miei familiari e poterli riabbracciare ai colloqui mi ha dato molta serenità. Comincio allora ad avere un’altra visione, così mi decido a fare la prima richiesta a conferire con il giudice di sorveglianza, in poco tempo accetto volentieri il reinserimento, tanto che quando mi viene proposto di partecipare al gruppo di discussione di Ristretti Orizzonti e al corso di scrittura accolgo con gioia questa proposta, adesso sono tre anni che frequento queste due attività che mi hanno aiutato ancora di più a riavvicinarmi alla società esterna, sono riuscito a superare gli strascichi lasciatimi dal lungo periodo del 41bis tanto da dare due esami all’università. Dopo quasi ventitré anni di carcere finalmente sono arrivato a buttare via tutta la mia rabbia e vedo il mio futuro passo dopo passo verso la speranza di uscire da uomo sereno e cambiato, ma invece arriva la notizia di questo trasferimento. Se accadesse ciò significherebbe perdere, oltre alla speranza, tutto il percorso di reinserimento, e la mia paura più grande è di ritornare indietro di vent’anni pieno di rabbia e senza un futuro.

 


 

Capitolo II

 

Massacrati dal 41 bis, stritolati dall’Alta Sicurezza

Condannati a essere mafiosi per sempre: anni di 41 bis, poi anni di Alta Sicurezza. E la declassificazione che non arriva mai

 

Possiamo già indovinare quali saranno i titoli dei giornali dei prossimi giorni: a Padova chiude la sezione di Alta Sicurezza, trasferiti “i mafiosi”. Perché a questo sono condannati i detenuti dell’Alta Sicurezza, a essere mafiosi per sempre. Un sistema incancrenito con i suoi perversi meccanismi, per cui si può uscire dal regime di tortura del 41 bis perché “non viene ritenuto più attuale il collegamento con l'ambiente criminale associato di appartenenza”, per poi restare anni, decenni addirittura in Alta Sicurezza senza venire declassificati perché “non si può escludere in maniera certa l'attualità dei collegamenti del detenuto con la criminalità organizzata”. Allora per favore, se vogliamo davvero, e non per finta parlare di umanizzazione della pena, parliamo anche di DECLASSIFICAZIONE. E tiriamo fuori questi esseri umani dalla condizione disumana di dover essere “cattivi per sempre”.

 

-   Mia figlia non riusciva a guardarmi dietro quel maledetto vetro al 41 bis, di Tommaso Romeo

 

Quando vengo arrestato le mie figlie avevano un anno e per nove anni sono stato in un carcere (Locri) vicino a casa, mi ritenevo fortunato perché ogni settimana le potevo vedere e i nostri colloqui erano pieni di baci e abbracci. Dopo nove anni la procura tira fuori la carta della pericolosità e vengo sottoposto al regime del 41bis, subito vengo trasferito in un istituto lontano dalla mia regione, arrivo nel carcere di Spoleto, fra le restrizioni di quel regime che mi hanno colpito di più una era che ogni mia lettera sia in arrivo che in partenza veniva censurata, il fatto che un estraneo leggesse le lettere che scrivevo a mia moglie e alle mie figlie mi bloccava, non scrivevo più lettere ma tre parole (sto bene ciao). L’altra restrizione era che potevo usufruire di una telefonata al mese sempre se in quel mese non facevo colloquio, ma la cosa assurda è che io non potevo telefonare a casa ma nel carcere più vicino. A parlare del mio primo colloquio ancora oggi che sono passati tredici anni mi cresce dentro una rabbia indescrivibile, perché rivedo nella mia mente l’immagine delle mie figlie che sembravano due statue di cera, non sono riuscite a farmi un sorriso. Trovarsi a passare dai colloqui pieni di abbracci e baci a vedermi dietro un vetro è stato traumatico, tanto che quel giorno quando ho visto una delle mie figlie guardare a terra per più di cinque minuti e mia moglie che non riusciva a convincerla a farle alzare la testa, ho dovuto interrompere il colloquio: quella mia figlia poi per tutta la mia permanenza al 41bis non è venuta a trovarmi, oggi che è mamma di un maschietto e di una femminuccia quando facciamo il colloquio per tutta la durata parla pochissimo, però i suoi occhi sono sempre puntati sul mio viso, e quando le ho domandato il perché lei mi ha risposto che deve recuperare tutti quegli anni che non è riuscita a guardarmi dietro quel maledetto vetro.

 

-   Il “collegamento del detenuto con l'ambiente criminale di appartenenza”, di Giovanni Donatiello  

 

Un collegamento misterioso, che non esiste più quando viene revocato il 41 bis e che torna a sussistere quando serve per tenerti per anni in regime di Alta Sicurezza.

Sono detenuto fin dal mese di luglio del 1986. Nel luglio del 1992 sono stato sottoposto al regime del 41 bis. Ci sono rimasto per quasi otto anni, gli anni più bui per me come credo per tutti coloro che si sono ritrovati nel suddetto regime. Dopo di che sono stato assegnato al circuito E.I.V. (Elevato Indice di Vigilanza), ora A.S.1, sicché a conti fatti ho trascorso quindici anni nel succitato circuito. Le carceri in cui sono stato detenuto nel periodo successivo alla revoca del regime del 41 bis sono Livorno, Voghera, Sulmona, Milano-Opera, attualmente Padova.

In tema di declassificazioni vorrei per un attimo poter fare delle domande al Gruppo di Osservazione e Trattamento dei diversi istituti in cui finora sono stato assegnato, proprio rispetto alla mia permanenza nel circuito A.S.1: la prima domanda è se veramente io sono stato valutato in base al mio percorso e al mio comportamento, o se piuttosto le decisioni del GOT non siano state funzionali alle “esigenze” dei vari apparati statali, quali D.D.A (Direzione Distrettuale Antimafia) e P.N.A (Procura Nazionale Antimafia), che a me non risultano affatto chiare.

Negli istituti succitati infatti a mio parere non si è proceduto a un rigoroso vaglio della mia posizione in relazione ad un’eventuale declassificazione. Questo nonostante che il provvedimento di "REVOCA" del regime di 41 bis emesso dal Ministro della Giustizia fosse di palmare evidenza (“vista la nota del 15 dicembre 1999, pervenuta il 22 dicembre 1999, con la quale la Procura Distrettuale della Repubblica di Lecce ha segnalato di non ritenere più attuale il collegamento del Donatiello con l'ambiente criminale associato di appartenenza (…) il Ministro revoca il decreto ministeriale del 23 dicembre 1999 con il quale era stato disposto nei confronti del detenuto il regime detentivo speciale di cui all'art.41 bis, 2° comma, dell’Ordinamento Penitenziario”).

La mia assegnazione al circuito AS-l, per i motivi generali che la determinano, non appare legittima, anche alla luce della circolare DAP 21104/2009 n. 3619\6069, nonché della Circolare DAP 09/0112007 n. 20.

Ed invero, se l'inserimento dei detenuti nel circuito AS è riconducibile “più che alla pericolosità individuale, alla appartenenza degli stessi ad una organizzazione, e dunque alla potenzialità di interagire con le compagini criminali operanti all'esterno della realtà penitenziaria, ovvero di determinare fenomeni di assoggettamento e reclutamento criminale”, nel senso che “a meritare una attenzione maggiore e dunque una 'elevata' o 'maggiore sicurezza' non è quindi l'individuo in sé, ma la compagine cui egli appartiene, con la sua capacità di condizionare, dentro e fuori il circuito penitenziario, l'ordinario svolgersi dei rapporti sociali, e di fungere da moltiplicatore dei fenomeni criminali”, conseguentemente non vi è ragione alcuna di mantenere tale assegnazione nei miei confronti, visto che già si è decretatodi non ritenere più attuale il collegamento del Donatiello con l'ambiente criminale associato di appartenenza”.

Un primo aspetto che merita di essere preso in considerazione è che nella mia biografia giudiziaria sono totalmente assenti condanne recenti per reati associativi, e neppure esiste all'esterno una cosca di riferimento.

Inoltre l'esame della mia condotta carceraria porta alla luce elementi positivi, quali l'assenza di comportamenti scorretti e una costante dedizione allo studio. Senza trascurare che da alcuni anni ho intrapreso gli studi universitari, che tra mille difficoltà, poste negli istituti in cui sono stato in passato, sto ancora cercando di portare a conclusione. Infine, non per ordine di importanza, mi è stato consentito di far parte della redazione della rivista “Ristretti Orizzonti”.

Tutti elementi che credo esprimano una sincera adesione all'opera rieducativa posta in essere negli istituti di detenzione nei quali sono stato ristretto.

Tuttavia, benché siano trascorsi oltre quindici anni, la mia permanenza nel circuito A.S.1 continua inspiegabilmente!

Affinchç possa essere giustificato e legittimato questo stato di fatto, o sia invece finalmente dimostrata la sua illegittimità, se si continua a tenermi nel circuito AS1 con la motivazione di miei collegamenti con l’ambiente criminale di appartenenza, sono pronto a essere denunciato e processato per concorso morale con ogni forma di criminalità organizzata operante in tutto il territorio del brindisino. Purché finalmente qualcuno porti uno straccio di prova.

 

-   Siamo rimasti in quattrocento… eravamo giovani e forti, ora siamo dei sopravvissuti,  di Giovanni Donatiello

 

Siamo rimasti in quattrocento… credo sia questo all’incirca il numero dei detenuti assegnati al circuito Alta Sicurezza 1, dislocati nelle varie carceri italiane. Tutti, con rare eccezioni, proveniamo da lunghi periodi di tempo in cui siamo stati sottoposti al regime del 41 bis. Così accade che nel momento in cui il suddetto regime ti viene revocato, provi una sensazione di liberazione, ti illudi che il peggio sia alle spalle. Sotto un certo aspetto questo è vero in quanto, restando per diversi anni nel circuito del 41 bis, si perde quel minimo di autonomia, di “disponibilità” della propria persona, perché le regole sono al limite della tortura o meglio sono una vera e propria tortura. Regolamenti e trattamenti che tendono alla depersonalizzazione, mirando ad annullare l’individuo e ad assoggettarlo al regime e alle sue brutture quotidiane.

Il sollievo che si ha nel passaggio dal regime del 41 bis al circuito A.S.1. durerà ben poco. Infatti, con il trascorrere degli anni si incomincia a realizzare quale sia la condizione in cui si è stati sbattuti. Ci si rende conto che è come trovarsi su un binario morto, e tu stai li, e vedi passare treni in entrambe le direzioni. Come un treno fermo con gli stessi vagoni ci si ritrova per lunghi anni in queste sezioni con gli stessi detenuti con i quali ti sei detto e ridetto le solite cose, hai fatto e rifatto le solite cose, tutto: un continuo di nullità, una realtà immobile. Si una vera e propria stagnazione sia sotto l’aspetto relazionale sia sotto l’aspetto delle prospettive.

Un’altra peculiarità della composizione di questi circuiti è la lunga carcerazione che tutti hanno subito. Infatti, la stragrande maggioranza si trova in carcere da almeno venti anni se non venticinque e anche trenta, ma gli anni da scontare non basteranno mai, considerato che sto parlando di persone condannate all’ergastolo, all’ergastolo ostativo! Tanto basta per rendersi conto che nella migliore delle ipotesi ci si ritrova di fronte a persone sostanzialmente stanche e inaridite, a cui il carcere ha tolto anche la voglia di sognare.

Questo quadro non è affatto un’esagerazione, è la realtà, una dura realtà che si patisce giorno dopo giorno. In questo contesto le sezioni A.S.1 si trasformano in veri e propri ghetti. La causa principale sono le preclusioni previste dalle circolari del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, che prescrivono una serie di limitazioni in materia di lavoro, di partecipazione ad attività culturali e ricreative. Infatti, viene posto sempre in rilievo il problema della sicurezza, e in questo modo le opportunità si riducono al minimo: lavori esclusivamente all’interno della sezione, attività culturali e ricreative inesistenti, fatta eccezione per i corsi scolastici.

Un passaggio obbligato per cambiare la propria condizione è quello della declassificazione, obiettivo a cui tutti ambiscono non più per sognare, ma per illudersi che la propria situazione possa evolversi in modo positivo, magari supponendo che la declassificazione stessa possa essere un viatico per l’accesso ai benefici penitenziari, ipotesi del tutto infondata posto che lo sbarramento dell’art. 4 bis O.P. si può superare solo con l’istituto della collaborazione art. 58 ter O.P.

E ci ritroviamo così in un circolo vizioso senza via d’uscita. perché la maggior parte dei soggetti ristretti in questo circuito non accetta la collaborazione. Infatti, questo prerequisito è visto, giustamente a mio avviso, come una ulteriore ingiustizia verso la persona. Non si può chiedere a una persona di collaborare dopo che ha espiato oltre vent’anni di carcere, e ha scelto così anche di proteggere la sua famiglia, lo spirito di questa norma è solo di matrice repressiva.

Credo che siano maturi i tempi per un’attenta riflessione riguardo a una modifica sostanziale di questo circuito. La sua finalità principale è il controllo accurato del soggetto. Se questa esigenza potrebbe sembrare giustificata nel primo periodo di assegnazione al circuito in questione, appare del tutto ingiustificata la lunga permanenza in quel circuito, che a volte dura anche per decenni. Infatti, le declassificazioni, di pertinenza del DAP., sono divenute sporadiche, con questo metodo non si hanno prospettive di nessun genere. Allora di fronte a questo stato di cose bisogna chiedersi quale sia la vera funzione del circuito A.S.1.. Non credo sia un azzardo sostenere che un circuito così pensato e soprattutto attuato abbia una finalità persecutoria, contravvenendo, come spesso accade, ai dettati costituzionali dell’art. 27.

Un primo passo sarebbe quello che si riappropriassero della competenza delle declassificazioni i direttori, che attraverso il loro lavoro di osservazione del detenuto possono far valere le valutazioni del percorso risocializzante e rieducativo che quasi sistematicamente vengono disattese dal D.A.P.. Questo metodo, di ignorare i percorsi delle persone chiuse in quei circuiti, non solo è causa della ghettizzazione del circuito stesso, ma è anche causa di spreco di quelle risorse limitate che non solo dovrebbero essere utilizzate con più costrutto, ma soprattutto incentivate. Sempre in questo senso, un’altra proposta potrebbe essere quella di istituire all’interno degli istituti, dove sono previsti questi circuiti, una commissione preposta esclusivamente alla valutazione del percorso rieducativo del condannato, che potrebbe essere prevista con scadenza annuale. In tal modo si avrebbe effettivamente sia una continuità trattamentale sia un fattivo utilizzo delle risorse. In sintesi, credo che necessiterebbe un riordino che vada nella direzione di un decentramento amministrativo, affinché si ponga fine a questo sistema. Altrimenti… continueremo a sopravvivere ugualmente, nella consapevolezza che non di vita si tratta, ma di pura sopravvivenza.

 

-   Il tuo destino lo decido io, di Biagio Campailla

 

“Niente più mafiosi al due palazzi di Padova, Alta sicurezza verso la chiusura”: era questo il titolo di un quotidiano padovano qualche giorno fa.

Mi chiamo Biagio Campailla, condannato alla pena poco umana dell’ Ergastolo Ostativo, sono stati tanti gli anni passati in regime di 41bis, area riservata, forse neanche il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sa come si vive in quel regime, che ti toglie ogni genere di dignità, parola, affetti, emozioni, dolori, trasformandoti in un mostro, che semina solo odio, rabbia, vendetta verso le istituzioni, un regime dove finiscono le persone che per lo stato sono nemici, sono dei cattivi e mostri per sempre. In tale regime ci vai a finire prima di essere giudicato, tanto se ti andrà bene, e sarai assolto, se la caveranno solamente con: “Scusa ci siamo sbagliati”, intanto hai subito il regime di tortura. E se ti lamenti, sicuramente, la DDA (Direzione Distrettuale Antimafia) troverà un pretesto per dire che sei un mafioso per sempre. Questo regime, che è stato introdotto dopo le stragi che hanno ucciso Falcone e Borsellino per evitare contatti tra le persone affiliate, è aggravato nel nostro Paese dall’art 4bis che rende difficile se non impossibile l’accesso ai benefici. Il nostro è un paese che ha promosso la moratoria contro la pena di morte, che si definisce uno stato democratico, ma mantiene la pena di morte viva, come chiamiamo l’ergastolo ostativo. Anche papa Francesco dichiara che l’ergastolo è una pena di morte nascosta. Dopo 10, 20, 25 anni decidono di diventare buoni, umani e vieni declassificato ad un regime meno pesante, Alta Sicurezza 1.

La declassificazione viene concessa quando la DDA dichiara che non c’è più nessun collegamento con il gruppo affiliato o che il gruppo non è più esistente. Arrivi nel regime AS1 e tutti gli operatori devono recuperare questo essere umano, devono fargli riacquistare la parola, riabituarlo a rimanere con altre persone in cella, portarlo a contatto fisico con i familiari, come se rinascesse di nuovo. Inizia così ad andare a scuola, inizia a farsi da mangiare, inizia la confusione tra i suoi pensieri. In questo percorso di reinserimento inizi a partecipare ad alcune attività trattamentali fino a che però una certa parte delle istituzioni decide che tale trattamento deve finire, per quale motivo? Ancora non ti sei ripreso dal coma del 41 bis, che ora si rischia di ricominciare daccapo, allora non capisci nulla, inizi a farti mille domande: che cosa ho fatto di sbagliato per ritornare cattivo?

Nessuno ti spiega nulla, allora le persone più competenti ti consigliano di chiedere la declassificazione, cioè un regime uguale a questo, si chiama Alta sicurezza 3, se finisci lì ci puoi passare altri 10, 15 anni. La risposta che ti viene data è “Guarda che puoi considerarti fortunato se ti daranno questa declassificazione”. Ma ancora non capisci, chiedi perché? Perché bisogna chiedere il parere alla DDA per verificare che non ci sia ancora un collegamento con i tuoi affiliati. Poi ti arriva il diniego della declassificazione, perché il parere della DDA non è favorevole, perché c’è il sospetto che ci siano ancora rapporti con gli affiliati. Vai a vedere i rigetti dei tuoi compagni e vedi che cambia solo il nome e cognome, il resto è uguale. Cerchi di chiedere spiegazioni, ma ti viene detto solo che la DDA ha inviato parere negativo, ancora non capisci nulla ma cerchi di chiederti “ma come, quando è stato revocato il regime di 41 bis, la DDA diceva che io non facevo più parte al gruppo, adesso significa che è rinato tale gruppo?”. Ci capisco sempre meno, capisco che decidono loro quando devi diventare buono o cattivo, non serve fare qualsiasi percorso, tanto decidono loro cosa fare di te, tutte le persone, che con fatica ti hanno fatto diventare umano e persona buona, quasi le detesti, vorresti dirgli: forse era meglio che non mi educavate, non mi svegliavate da quel coma, almeno rimanevo nel mio mondo, “cattivo per sempre”.

 

-   Pericolosità a convenienza, di Tommaso Romeo

 

12 Giugno 2009, mi trovo nella cella di isolamento nel carcere di Ascoli Piceno, in quanto, dopo otto anni che ero sottoposto al regime del 41bis, mi viene revocato. Ho in mano l’ordinanza di revoca che dice “Dall’istruttoria espletata, sono emersi elementi precisi e concordanti da ritenere che non sussista nessun collegamento tra il reclamante con l’organizzazione criminale, e né che il predetto abbia compiuto atti che possono essere qualificati come partecipazione alle attività dell’organizzazione criminale e come mantenimento di contatti con gli altri affiliati, pertanto decade la pericolosità e accoglie il reclamo”.

Lo stesso Giudice di sorveglianza, nel maggio 2009, nell’ordinanza per la concessione del beneficio della liberazione anticipata dice: “In considerazione del fatto che il detenuto non ha posto in essere comportamenti tali da far desumere la volontà di avere contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza, e dalla relazione comportamentale trasmessa dal carcere di Ascoli Piceno emerge che il condannato sì è comportato correttamente con compagni e operatori manifestando impegno nelle attività lavorative”.

16 Febbraio 2015, il Giudice di sorveglianza di Padova motiva la concessione del beneficio della liberazione anticipata sostenendo che “il condannato ha serbato una condotta regolare ed adesiva al trattamento, dando prova di partecipazione all’opera di rieducazione e reinserimento sociale”.

Ebbene, tolto il 41bis, arrivo nel carcere di Padova. Dopo un paio di mesi mio padre viene ricoverato per un tumore. Faccio istanza di permesso per andare a trovarlo all’ospedale, ma mi viene rigettata perché le informative mandate dalle forze di polizie e DDA mi ritenevano pericoloso in quanto il mio gruppo criminale di appartenenza è attivo. Giustamente mi sono domandato: ma come è possibile se mesi prima mi viene revocato il 41bis dicendo l’opposto?

Dopo qualche anno, l’avvocato mi presenta l’istanza di declassificazione, che mi viene rigettata perché le solite informative affermano la mia pericolosità e collegamenti con il mondo criminale.

Mi viene da pensare: questa mia pericolosità e questi collegamenti con l’organizzazione criminale saltano fuori solo quando si tratta di declassificazione o permessi premio? Poi non capisco perché, se hanno in mano fatti concreti che provano questa mia pericolosità e questi miei collegamenti con il mondo criminale, non rivengo sottoposto al regime del 41bis. Anzi, lo so bene il perché (le informative sono solo basate su fatti antecedenti al mio arresto), ma uno Stato può ritenersi giusto e forte se mantiene la pericolosità ad una persona che si trova in carcere da ventitré anni solo sul niente o sul suo passato?

 

-   Il regime del 41 Bis ti fa diventare un mostro, di Biagio Campailla

 

Nel momento del mio arresto vengo messo in regime di 41 Bis, area riservata, che è un isolamento totale. All’inizio pensavo che era solo per il tempo prima che m’interrogasse il giudice, ma sono passati dieci anni prima che mi facessero ritornare alla detenzione con altri detenuti. Tanti mi chiedono: “Come passavi le giornate in quei dieci anni?”. Chiuso in una cella di 1,5 m. di larghezza, per 3,52 di lunghezza, cella 56, area riservata di Ascoli Piceno. La mia giornata era sempre quella, alzarmi la mattina alle 6,00, iniziare a fare le pulizie della cella, finché alle 8,30 entravano gli agenti penitenziari che con un martello battevano sulle sbarre, poi andavo per un’ora al passeggio da solo in uno spazio di 15 metri quadri, con muri alti 6 metri, rete di ferro sopra, come un animale chiuso in gabbia, era difficile vedere anche il sole. A volte, arrivava un raggio di luce e cercavo di guardare verso l’alto, in modo da allungare la vista. Quando ritornavo in cella trovavo un po’ di “libertà”, solo per il motivo che non avevo la telecamera che mi osservava, tranne se andavo in bagno, perché anche in quel luogo che dovrebbe essere intimo non avevo privacy.

Con gli anni preferivo stare sempre più chiuso in cella, non mi piaceva neppure andare al passeggio in quella misera ora d’aria, mi ero creato il mio mondo, mi sentivo più “felice” nel rimanere dentro quelle quattro mura buie, potevo fare i miei discorsi da solo, potevo creare le mie palline di carta e far finta che giocavo a Carambola.

Nella mia “zona” credevo di sentirmi meglio, lì almeno nessuno mi diceva se avevo ragione o torto, ma questo mio comportamento dava fastidio a qualche agente; tante volte, senza un motivo, venivano a provocarmi con le perquisizione buttando tutto a terra, oppure, se volevo parlare con il dottore, non mi scrivevano nella lista per la visita, oppure bloccavano le infermiere per non farmi dare la terapia. S’inventavano di tutto per farmi uscire la rabbia. Questo mi portava a reagire e prendere delle denunce, oppure rompere tutto dentro la cella: anche se avevo il bagno, lavabo e letto fissati ai muri o a terra con bulloni di ferro ed era difficile rompere tutto, ma si accumulava in me così tanta rabbia che ci riuscivo, a staccare tutto. Questo mi portava sempre a chiudermi di più e ad accumulare solo odio e rabbia verso le istituzioni.

Con il tempo questo mi ha portato a non parlare più con nessuno, sono arrivato al punto che quando facevo quel misero colloquio di un’ora al mese con la mia famiglia non sapevo più dialogare, era diventata una tortura fare il colloquio con i miei cari, volevo solamente tornare nella mia cella in modo che potevo fare i miei ragionamenti da solo.

 

Come sono arrivato al punto che non volevo più vedere i miei figli e la mia famiglia

 

Un giorno faccio il colloquio con le mie figlie e mia moglie, lei mi comunica che una delle figlie non era venuta perché c’era un problema. Io mi sono sentito morire perché non potevo intervenire in suo aiuto, e mi sono sentito assalire dal panico. Chiedevo a mia moglie di darmi notizie dettagliate, lei voleva nascondermi il problema, io allora ho iniziato ad alzare la voce,: “Mi devi dire cosa sta succedendo alla bambina”. Lei mi ha promesso che appena arrivava a casa andava in ospedale e mi dava notizie per scritto, anche con un telegramma.

Sono stati i giorni più difficili della mia vita, aspettavo quella informazione, minuto per minuto, ma non ricevevo nessuna notizia, finché mi viene notificato un blocco della censura, cioè che era stata bloccata una lettera in entrata di mia moglie. Era quella lettera che aspettavo con ansia e disperazione, mi dicono che c’è una parola che poteva essere un messaggio in codice. Prima deve essere controllata dal Magistrato di Sorveglianza e dal corpo di Polizia Giudiziaria. Non sapevo come fare per avere notizie di mia figlia, inizio a scrivere io a mia moglie, dicendo: “Mi è stata bloccata la lettera che tu mi hai inviato, vieni a trovarmi al colloquio il mese prossimo”. L’indomani ricevo una notifica nella quale viene scritto che la lettera che avevo inviato a mia moglie è stata bloccata dalla censura con motivazione che io avrei potuto rispondere al messaggio contenuto nella lettera che mia moglie mi aveva inviato. Il sangue mi è salito alla testa, la mia prima parola di risposta è stata: “Veda che io non ho ricevuto la lettera da mia moglie perché l’avete bloccata, cosa devo inviare come messaggio se non so il contenuto della lettera in arrivo?”. La risposta dell’agente penitenziario è stata: “Si rivolga al magistrato!”. La mia pazienza era finita, inizio a spaccare tutto dentro la cella, inizio a rompere il lavabo, stacco gli sportelli degli armadietti, tutto quello che mi capitava davanti. Arrivano una ventina di agenti della polizia penitenziaria del G.O.M (Gruppo Operativo Mobile) che è un gruppo speciale per le persone detenute al regime di 41 Bis. Nel vedere tutto quel gruppo perdo il controllo totale della mia pazienza, il mio pensiero era: “Adesso iniziano a darmi botte”. Mi viene d’istinto di lanciare tutto quello che mi trovavo nelle mani, per evitare un assalto dentro la cella. Per finire, hanno capito che ero uscito fuori di testa, così me la sono cavata solo con una denuncia per danneggiamenti, tentativo di oltraggio a pubblico ufficiale, ne sono uscito con 800 € di multa e un rapporto disciplinare che non mi farà ottenere i 90 giorni di liberazione anticipata al mio fine pena, che per me non sono utili dato che sono condannato alla pena dell’ergastolo e non posso finire mai la mia pena.

Dopo qualche mese mi viene restituita la lettera, dove erano state visionate quelle parole che potevano essere dei messaggi: “Biagio, sono stata all’ospedale, dove ho trovato la bambina che sputava sangue dalla bocca, il dottore mi ha comunicato che dovrà fare dei controlli”. La parola “sangue” per loro creava dei sospetti, in realtà la bambina aveva problemi di tonsille che le causavano febbre e buttava sangue dalla bocca.

Non volevo più subire le stesse cose, da quel momento decido allora che il prossimo colloquio parlo chiaro con i miei cari e che non voglio più fare colloqui e non voglio che mi scrivano più, non voglio che siano coinvolti innocentemente per parole che possono sembrare dei messaggi sospetti. Arriva il giorno del colloquio, parlo con mia moglie, c’erano anche le mie figlie, comunico tale decisione. È stata una grossa ferita al cuore per tutti, preferivo che loro non mi vedessero più dietro quel vetro, era assurdo fare dei lunghi viaggi per vedermi in quei sessanta minuti di dolore. Finisce che per anni non vedo le mie figlie, non ricevo più posta, non le ho più viste crescere, non sapevo più niente di loro, il mio dolore era forte, ma preferivo così, almeno le istituzioni non potevano giocare con i sentimenti della mia famiglia. Questa lontananza ha portato sia la perdita dell’affetto con due delle mie figlie, che un raffreddamento con mia moglie. Nel loro pensiero dicevano: “Si è dimenticato di noi!”, non hanno capito che le proteggevo.

Oggi ho recuperato il rapporto con le mie figlie, e ho saputo da loro tante cose che mi avevano taciuto, i loro traumi dopo il mio arresto, le umiliazioni che subivano quando venivano ai colloqui, la loro crescita senza un papà vicino. Due delle mie figlie, ancora oggi, quando sentono il rumore di cancelli e chiavi, è come se avessero un senso di soffocamento.

Oggi ho più vicino mia figlia Veronica, mi segue nel carcere di Padova, le viene molto più facile venirmi a trovare, le altre figlie abitano in Belgio, oggi sono sposate, sono mamme, hanno una loro famiglia da gestire, non posso neanche pretendere nulla, io sono il papà che le ha lasciate da sole, il papà che non era presente mai, il papà che non voleva più vederle al colloquio, il papà che non voleva più le loro lettere, forse il papà che era diventato un mostro dietro quelle sbarre.

Oggi con il mio percorso con la redazione di Ristretti Orizzonti, principalmente con il “Progetto scuole – carcere”, sono riuscito a capire che il regime di 41 Bis mi aveva fatto diventare un mostro, non sentivo più dolore, non provavo più emozioni, volevo allontanare tutti in modo che quando io ricevevo del male da parte di qualche persona delle istituzioni, potevo contraccambiare con altrettanto male, volevo far provare il mio stesso dolore. Oggi rifletto, è giusto che se ho sbagliato io sconti una condanna, non credo giusto che i familiari paghino più di me. Spero di poter recuperare un rapporto più ampio con le mie figlie, certo è che ho perso molto della loro vita. Io dico sempre che l’affetto c’è finché stai loro vicino, quando le hai cresciute, quando hai lasciato e vissuto con loro dei bei ricordi. Di fatto io ho lasciato solo dei brutti ricordi.

 

-   O le istituzioni sono mie complici o… qualcuno dichiara il falso!, di Agostino Lentini

 

Mi chiamo Agostino Lentini, sono nato il 17 ottobre 1965 a Castellammare del Golfo (TP), attualmente mi trovo recluso nella sezione di Alta Sicurezza 1 di Padova. Mi trovo in sezioni A.S.1 fin dal giugno 2006 quando mi è stato revocato il regime del 41 bis. Da allora ho cambiato tre carceri, Sulmona, Spoleto e ora Padova, malgrado siano trascorsi quasi nove anni dalla revoca del 41 bis non so darmi spiegazioni per cui ancora mi trovo ristretto in queste sezioni senza mai aver avuto una declassificazione.

Inoltre, non mi spiego a cosa serve un percorso intramurario, con la chiusura positiva di due sintesi, con l’inserimento agli studi (a breve mi diplomo), con l’inserimento al lavoro, con il percorso con gli assistenti sociali, a cosa serve tutto questo se in questo lasso di tempo trascorso, e malgrado la revoca del 41bis a cui si fa riferimento, dovuta al fatto che non avevo più contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza, a tutt’oggi non c’è speranza che venga declassificato da questo circuito.

Eppure in tutti questi anni che mi trovo in questo regime, né io, né i miei familiari abbiamo avuto qualche problema giudiziario, per questo continuo a chiedermi il perché di questa lunga permanenza in questo circuito restrittivo.

Dalle relazioni del D.A.P. mi pare di vedere una specie di “copia incolla” sul fatto che io manterrei rapporti con la criminalità organizzata di appartenenza. Ma considerato che i rapporti che io intrattengo sono di natura epistolare e telefonici sia con la mia anziana madre, di 86 anni, che con la mia famiglia che vive all’estero, evidenzio che c’è qualcosa che suona strano. Se infatti continuo ad avere rapporti con la criminalità tramite i familiari, come mai la mia famiglia non ha ricevuto neanche un avviso di garanzia? Non voglio credere che le istituzioni preposte mi stiano “favoreggiando” con un tacito silenzio.

Il paradosso dei paradossi è che, con il 41bis avevo possibilità di difendermi andando ad impugnare un provvedimento restrittivo dinanzi ad un Tribunale di Sorveglianza, con il regime di A.S.1 subisco le conseguenze di essere un ex 41 bis e vengo accusato di mantenere rapporti con la criminalità organizzata con motivazioni spesso generiche e non dimostrate, senza avere la possibilità di difendermi.

Forse dovrei pretendere che la legge sia rigorosa nei miei confronti. Perché se è stato provato che i miei familiari hanno avuto un qualche ruolo nei miei presunti contatti con la criminalità, non mi spiego come mai non sia stato emesso nessun avviso di garanzia o non sia stata fatta un’ordinanza di custodia cautelare in tutti questi anni. O le istituzioni sono mie complici o… qualcuno dichiara il falso!

 


Capitolo III

 

Ristretti Orizzonti, e la convinzione che non ci siano “cattivi per sempre”

 

Provate a mettere un ergastolano ostativo, un “cattivo per sempre”, un condannato passato dal 41 bis all’Alta Sicurezza e stritolato da anni di carcere duro, di fronte a cento studenti sanamente curiosi e interessati a CAPIRE di più delle pene e del carcere. I ragazzi non si fanno intimorire, e se qualcuno gli racconta di quanto sia disumano il 41 bis, loro sono disposti ad ascoltare e anche a farsi venire il dubbio che forse c’è qualcosa di orribile in quel regime, però sono anche severi e non risparmiano nessuno, e la domanda la fanno sempre: ma tu, che cosa hai fatto per essere condannato all’ergastolo?

Nella redazione di Ristretti Orizzonti la vita è dura per i detenuti: perché a Ristretti si incontrano migliaia di studenti, si incontrano pezzi di società, e si incontrano tante vittime. E bisogna dare delle risposte, e sapersi mettere in discussione. Per questo la sfida più appassionante, alla quale non vorremmo mai rinunciare, è stata quella di portare in redazione i “totalmente cattivi” e di avviare con loro un confronto acceso, duro, vero.

Al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria chiediamo allora: ma non è questo un vero percorso di responsabilizzazione? Non è uno dei pochi laboratori in cui si sperimenta un percorso nuovo, con i condannati all’ergastolo ostativo che vanno a scuola di umanità da persone come Agnese Moro?

 

-   Niente giornalisti detenuti di Alta Sicurezza nella redazione di Ristretti Orizzonti, di Carmelo Musumeci

 

Nonostante che cerco di non stare mai fermo, studio, leggo, faccio ginnastica, lavoro al computer, insomma, cerco di vivere, ci sono dei giorni e dei momenti che mi accorgo che vivo e lotto senza speranza. (diario di un ergastolano www.carmelomusumeci.com).

Ci risiamo. Un’altra deportazione di carne umana. Era nell’aria. Ormai è ufficiale. La sezione di Alta Sicurezza del carcere di Padova sarà rottamata e i detenuti saranno trasferiti in altre carceri. Oggi il direttore del carcere di Padova ha dato direttamente la notizia agli stessi detenuti. E non servirà a nulla che la legge penitenziaria prevede: "Nel disporre i trasferimenti deve essere favorito il criterio di destinare i soggetti in istituti prossimi alla residenza della famiglia" (Art. 42 O. P.). Neppure che Nei trasferimenti per motivi diversi da quelli di giustizia o di sicurezza si tiene conto delle richieste espresse dai detenuti e dagli internati in ordine alla destinazione " (Art. 83 comma I del Regolamento di esecuzione O.P.) perché il carcere è il luogo più illegale di qualsiasi altro posto. E la piovra penitenziaria fa sempre come gli pare se gli pare e quanto gli pare. Non servirà a nulla che a questi prigionieri, molti detenuti nel carcere di Padova da molti anni, sarà interrotto il percorso d’inserimento socioculturale (con assidui incontri con la società esterna locale e nazionale) che avviene per alcuni attraverso il lavoro e lo studio, per altri attraverso la frequentazione della redazione di Ristretti Orizzonti. Eppure molti di loro sono culturalmente cambiati e cresciuti più con un paio di anni della frequentazione della redazione che con tanti inutili cancerogeni anni di carcere chiusi in una cella in sostanziale isolamento a parlare con le pareti della loro tomba. Ultimamente, grazie anche alla loro esperienza e testimonianza, la redazione stava affrontando argomenti scomodi come il regime di tortura del 41 bis, l’ergastolo ostativo, l’affettività negata e mutilata tra le sbarre, le sezioni ghetto dell’alta sicurezza e le deportazioni dei detenuti delle nostre Patrie Galere. Nella riunione di oggi a qualcuno è venuto il dubbio che forse la chiusura della Sezione di Alta Sicurezza è dovuta anche a questi percorsi di reale cambiamento, e al coraggio di affrontare temi complessi come questi regimi ormai “incancreniti” da anni, perché poi se i criminali cambiano e smettono di essere mostri, nessuno avrà più argomenti per non umanizzare le carceri. E mi è venuto in mente l’articolo pubblicato sul manifesto dell’11 ottobre 2012, del direttore del carcere di Spoleto Giacobbe Pantaleone, quando sono stato trasferito nel carcere di Padova, dal titolo “Trasferimento degli ergastolani da Spoleto … l’illusione di rincorrere un’utopia” (…) E non è da escludere che il trasferimento di questi detenuti sia dipeso da una sorta di fraintendimento o malinteso, forse influenzato da un eccesso di interpretazione autarchica rispetto a quello che bolliva in pentola in questo stare al gioco. Per esempio, sollevare il tema dell’ergastolo ostativo può avere generato dei sospetti? Eppure esso è stato portato tante volte all’attenzione dell’opinione pubblica con intelligenza: mai che si ricordi sia stato portato dentro un progetto rivendicativo ottuso (…). Credo che la storia si sia ripetuta, per fortuna nel frattempo sono stato declassificato ed ora spero che non trasferiscano anche la nostra direttrice di Ristretti Orizzonti Ornella Favero.

 

-   L’esperienza di Ristretti Orizzonti per uno che arriva da “un altro mondo”, di Giovanni Donatiello

 

“L’altro mondo” sono le sezioni di Alta Sicurezza, luoghi chiusi dove il confronto è quasi impossibile. Qualche volta, mentre mi recavo al passeggio, volgevo lo sguardo verso quel corridoio, dove c’è la redazione di Ristretti Orizzonti, la mia era più che altro una curiosità. Volevo capire, ma per quanto uno possa avere anche una fervida fantasia, non potrebbe minimamente immaginare cosa c’è dentro quel piccolo grande mondo. Io provenivo dal carcere di Milano Opera, dove nel circuito dell’A.S. 1 non era consentito nessun tipo di attività, si doveva stare in cella venti ore al giorno chiusi. Ma a dirla tutta in questi ventinove anni di carcere non c’è stata una grande differenza tra gli innumerevoli istituti in cui sono stato detenuto. Eccetto Padova!

Arrivare nel carcere di Padova è stato come se mi avessero catapultato in un altro mondo. Già nei primi mesi mi era stato permesso di frequentare un corso di lezioni di diritto privato durante il quale mi sono ritrovato “banco a banco” dopo quasi venticinque anni con altri detenuti che facevano parte della media sicurezza. Per me è stato il primo “shock”. Purtroppo è così, anche le cose più semplici ti sconvolgono quando vivi in un ambiente chiuso, e vieni a essere plasmato da quell’ambiente, e proprio i fattori ambientali prevalgono soprattutto in situazioni di costrizione, e ti annullano, proprio nel senso che non riesci a vedere oltre.

In maniera diametralmente opposta è stato l’approccio nel carcere di Padova. Infatti, a parte i vari corsi frequentati e l’aver ripreso gli studi universitari, la vera svolta è stata quella di essere stato autorizzato a far parte della redazione della rivista “Ristretti Orizzonti”.

È un’esperienza per davvero notevole sia sotto il profilo personale sia sotto il profilo relazionale. Giorno dopo giorno scopro nuove dimensioni.

Diversi sono i momenti in cui sono suddivise le giornate all’interno della redazione.

Un momento di grande importanza sono le riunioni di redazione che si tengono con frequenza giornaliera, qui si discutono le tematiche che devono essere affrontate poi sulla rivista. Ci si confronta nel rispetto della libertà di opinione, qualunque essa sia trova sempre il suo spazio. Questo tipo di organizzazione ti accompagna a farti accettare l’altro in ogni sua dimensione, un approccio che non trova facilmente riscontro all’interno del carcere, proprio perché il carcere ha delle sue dinamiche difficili da rimuovere, mentre in quello spazio sembra la cosa più naturale che possa esserci, come d'altronde dovrebbe essere affinché si possa sperare che il carcere svolga soprattutto la funzione rieducativa.

Il momento più coinvolgente è l’incontro con gli studenti previsto dal progetto “Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere”, durante il quale, a parte il confronto che si ha con i ragazzi, c’è sempre un profondo momento di riflessione. È inevitabile, poiché avere di fronte decine di studenti che ascoltano, chiedono, ma soprattutto pensano ti rende responsabile anche della loro formazione culturale. Una situazione per davvero strana, coinvolgere in un compito così oneroso chi rappresenta nell’immaginario collettivo quella parte di società considerata spesso “peggiore per sempre”. Ecco che ti trovi davanti ad un mondo nuovo, quel mondo che non potevo mai immaginare che si celasse proprio nelle stanze di quel corridoio cui volgevo sempre il mio sguardo.

Un corridoio di un carcere!

Nella redazione non mancano gli incontri con personalità della società civile, sono spazi di cultura veramente importante che ti arricchiscono in tutti i sensi. Ultimamente ne abbiamo avuto uno con l’ex direttrice del carcere di Bollate, Lucia Castellano, in cui lei ha definito la redazione di Ristretti Orizzonti “la goccia cinese” che cade inesorabile sulla testa dell’amministrazione, ovvero una specie di tortura. Una tortura per chi non vuole capire il lavoro, le rivendicazioni, gli obiettivi e le finalità utili per cambiare la vita delle persone detenute. Ma anche una tortura per chi difende il pregiudizio, il sospetto e l’ignoranza.

In quella “goccia” ho la fortuna di esserci anch’io: è un onere dal quale non voglio esimermi… e speriamo che me la cavi!

 

- La deportazione degli uomini dell’Alta Sicurezza, di Lorenzo Sciacca

 

Ho conosciuto uomini di queste sezioni perché la redazione di Ristretti Orizzonti è convinta che la possibilità di riflettere, di rivedere delle scelte, anche le più difficili da comprendere, va data a tutti.

Scrivo dal carcere di Padova, mi chiamo Lorenzo Sciacca e sono un redattore di Ristretti Orizzonti, giornale realizzato in carcere. Ebbene sì, quello che in questi giorni accadrà nel carcere di Padova sarà una vera e propria deportazione. Le persone che vivono nelle sezioni di Alta Sicurezza verranno deportate in altri carceri. Uomini che si ritrovano in carcere da più di 20 anni e alcuni da più di trenta, verranno trasferiti in massa. Non so la vera motivazione per cui il DAP abbia deciso di smantellare queste sezioni, l’unica cosa che so è che ci sono persone che hanno iniziato un percorso, un’attività all’interno del carcere, ma qualcuno dall’alto ha deciso di porre fine a questo tentativo di reinserimento nella società. Mi chiedo se veramente si vuole che le persone detenute siano inserite di nuovo in un contesto sociale, e la risposta non è certo positiva.

Noi della redazione abbiamo sperato che si potesse trovare una soluzione che fermasse questi trasferimenti che erano nell’aria già da un po’ di tempo, e abbiamo tentato di far capire l’importanza di un percorso, intrapreso da tempo da chi è detenuto in Alta Sicurezza, a persone che hanno il potere di decidere della vita di altri uomini. Ma è stato impossibile, l’unica cosa che rimane da fare è cercare di portare a riflettere la società, quella parte di società composta da uomini e donne che forse hanno voglia di capire qualcosa di più.

Io so già lo scenario che si verrà a verificare… un giorno mi sveglierò con un gran frastuono di furgoni, guarderò fuori dalla finestra e vedendo ancora buio mi accorgerò che la notte sarà ancora fonda. Quella stessa notte che accompagnerà in sogni tranquilli le persone che hanno deciso in merito a questa deportazione, ecco in quella notte un centinaio di persone avrà grossi sacchi neri, per intenderci quelli della spazzatura, in mano, con dentro tutti gli effetti personali, pronti per essere perquisiti. Aspetteranno in celle di sicurezza, perché pur essendo in carcere la sicurezza non è mai troppa, aspetteranno, aspetteranno e ancora aspetteranno, ì con il pensiero rivolto alla propria famiglia, ai figli, ai genitori e poi il pensiero più brutto, il pensiero “buio” di una destinazione in cui quasi sicuramente perderanno tutto quel poco che si sono costruiti qui. Li faranno uscire da queste camere di sicurezza uno alla volta, gli metteranno delle manette ai polsi e faranno raccogliere ad ognuno il proprio sacco nero per caricarli sul furgone. E la deportazione abbia inizio!

Ho conosciuto uomini di queste sezioni perché la redazione di Ristretti Orizzonti è convinta che la possibilità di riflettere, di rivedere delle scelte, anche le più difficili da comprendere per alcuni, va data a tutti, nessuno deve essere escluso perché siamo, pur avendo commesso errori, siamo dei pari a tutti voi.

Cerco di immedesimarmi nelle famiglie di queste persone che fino all’ultimo non sapranno che ne sarà del proprio parente… non c’è umanità in questo. Alcune persone stanno perdendo quella sensibilità che è innata in un essere umano, tutti siamo persone sensibili e tutti siamo in grado di comprendere, ma molti cercano di estinguere questi buoni sentimenti perché vogliono mostrarsi superiori, vogliono dimostrare il “polso duro” in una società che avrebbe sempre più bisogno di umanità. Ma una parte dello Stato non crede al fatto che le pene debbano essere umanizzate, non si piega a queste stupidaggini, ritiene che uno nasce cattivo e muore cattivo, e che una persona che ha commesso degli errori deve essere estirpata come l’erba malata…

E invece noi osiamo pensare che si tratta di persone che possono dare un contributo in positivo nella società, perché l’essere umano si evolve, basta accompagnarlo a riflettere, a ragionare.

Il più grande augurio che posso fare ai miei compagni è di tenere duro e di non perdere mai la speranza di una vita diversa. Non fatevi sopraffare da quella rabbia contro le istituzioni che ha caratterizzato le nostre vite, alcuni di loro questo vogliono, vogliono dimostrare che siamo nati cattivi. La rivincita più grande che possiamo prenderci è riprenderci la vita che ci spetta di diritto affrontare un giorno nuovo sempre con la speranza e con la consapevolezza che molte persone, pur essendo al di fuori di questi imperiosi muri, sono con noi, sono al nostro fianco per una lotta giusta.

Anche se portate l’etichetta di mafiosi, avete dato un grande contributo alla redazione di Ristretti Orizzonti e, personalmente, mi avete insegnato a non mollare mai. Questo è quello che chiedo oggi a voi. Non mollate, non arrendetevi all’idea di dover tornare a essere “cattivi per sempre”.