Rassegna stampa 25 marzo

 

Giustizia: Manconi; servono più servizi sociali e depenalizzare

di Antonella Loi

 

www.informazione.it, 25 marzo 2010

 

Carceri sovraffollate come non mai. Il record storico dell’Italia repubblicana è stato raggiunto: oltre 67mila detenuti rinchiusi nei penitenziari dello Stato, a fronte di una capacità che non va oltre i 42mila posti disponibili. I dati, resi noti dall’associazione Ristretti orizzonti, per la quale in poco più di tre anni i detenuti sono aumentati di 38mila unità - 2.500 dal 31 dicembre ad oggi -, danno un quadro drammatico delle condizioni in cui versano i detenuti. Metro di valutazione è, in tutto il suo dramma, l’incidenza del numero di suicidi dietro le sbarre: un terzo di tutte le morti, 1.005 dal 1990 ad oggi. A questo si aggiunga un altro terzo di morti oscure, catalogate come "da accertare". Stefano Cucchi e dintorni, per intenderci.

"Una situazione al di là del tollerabile, di collasso, sotto tutti i profili". Luigi Manconi, ex senatore diessino, presidente dell’associazione "A buon diritto" e già Garante dei diritti dei detenuti del comune di Roma, a questo quadro aggiunge "i turni stressanti e più lunghi che mai per gli agenti di polizia penitenziaria, numero ridottissimo di educatori e di psicologi, cifre evidenti di un disastro totale".

 

Manconi, il governo interverrà costruendo nuove carceri: è questa la soluzione?

"Il governo ha fatto il gioco delle tre carte. All’interno delle carceri ad oggi ci sono 67.046 detenuti. Il che significa che sono quasi 25mila più della capienza prevista. Il governo dei detenuti in esubero non parla, ma dà il dato secco, 67mila. Poi dice che verranno creati tanti posti in più da arrivare a 87mila. Qual è il gioco: annuncia l’obiettivo di 80mila posti carcere ma di questi, 25mila sono già in eccedenza rispetto alla misura prevista e passeranno altri tre anni. A questo ritmo di crescita, la popolazione carceraria fra tre anni sarà ben oltre le cifre previste dal governo. Un dato strutturale: nelle carceri italiane il saldo mensile, cioè il numero di detenuti in più è di 700-800 unità, 10mila in un anno. Se non si provvede su un altro piano, i famosi 67mila e 43 di oggi a dicembre saranno magari 75mila, non 25mila ma 32mila in più della capienza".

 

Sta dicendo che la strada giusta non è quella di costruire nuove carceri?

"Sto dicendo che l’idea di inseguire l’aumento della popolazione, facendo finta di costruire nuovi posti carcere, è una follia e che l’unico provvedimento saggio e razionale è ridurre il numero di coloro che entrano in carcere. Cioè fare quello che tutte le commissioni di riforma del procedimento penale, create da governi di destra e di sinistra, con giuristi di destra e di sinistra, hanno detto, cioè ridurre il numero dei reati, cioè depenalizzazione e decarcerizzazione".

 

Depenalizzazione e decarcerizzazione dice lei: ma la tendenza è contraria. Per esempio il reato di clandestinità.

"Più che altro l’aggravante di clandestinità, forse. Nel senso che il reato di clandestinità tanto è difficilmente sanzionabile che si sta rivelando più un urlo ideologico che un provvedimento concreto. Mentre l’aggravante fa sì che alcuni reati che non comportavano l’ingresso in carcere, se compiuti da extracomunitari senza il permesso di soggiorno, determinano la carcerazione. E poi c’è tutta la materia della droga. Se un tossicodipendente invece di andare in carcere andasse in qualunque altro posto che non fosse il carcere, forse la situazione sarebbe diversa".

 

A proposito di droga: secondo una denuncia fatta dalle Comunità Saman e Villa Maraini, che da tempo si occupano della cura dei tossicodipendenti, nelle carceri ci sarebbero più drogati che in comunità. Stiamo parlando del 25% della popolazione carceraria.

"È molto semplice: quanti soldi destini alle comunità o alle strategie messe in campo per combattere la tossicodipendenza, quindi denaro destinato a servizi pubblici, assistenza psicologica, interventi di strada, tutte quelle cose che possono ridurre il numero di persone che vanno in galera per reati legati all’uso di droga, piccolo spaccio, scippo e così via? Se lo Stato taglia i fondi a queste attività di assistenza, ecco che i drogati finiscono inevitabilmente in carcere".Il caso Cucchi e altri simili emersi ultimamente ci dicono che i diritti dei carcerati sono di fatto diritti affievoliti.

"È così, purtroppo non solo in questo Paese, praticamente ovunque. Il carcere inquieta e si nasconde, finché rimane nascosto e nessuno ne conosce i tratti, le tragedie, la vita là dentro, il problema non sussiste. Tutto qui, è un tema rimosso e cancellato dallo sguardo pubblico".

 

Che ne è quindi del principio sancito dalla Costituzione secondo cui il reo va "recuperato" che dovrebbe essere un cardine del sistema carcerario?

"Due questioni: dal ‘90 ad oggi i reati specie quelli più gravi sono diminuiti. Addirittura gli omicidi volontari si sono ridotti a un terzo nonostante tutto ciò, la questione della sicurezza è diventata la prima emergenza nazionale. Quando accade un fatto del genere si capisce che il dettato costituzionale, quindi il recupero che è una parola che io non uso, la risocializzazione del condannato non interessi nulla ad alcuno se non a quei pochi garantisti che tutt’ora hanno la possibilità di far sentire la propria voce".

 

L’opinione pubblica latita.

"Questo è un fattore importante perché se non c’è una sensibilità collettiva non si ha nemmeno la capacità di tutelare quei diritti, di cui la risocializzazione e la rieducazione è parte costitutiva della pena oltre a essere iscritta nell’articolo 27 della Costituzione italiana. E arriviamo alla seconda questione: l’attività di rieducazione e risocializzazione in un sistema carcerario come quello italiano è praticamente resa impossibile: moltissimi psicologi di carcere hanno a disposizione 10 minuti al mese per ciascun detenuto, penso di aver detto tutto".

Giustizia: il piano carceri? renderà istituti ancora più disumani

di Enrico Sbriglia (Segretario Nazionale del Si.Di.Pe.)

 

Pagina di Radio Carcere su Il Riformista, 25 marzo 2010

 

I direttori dei penitenziari: costruire nuove sezioni carcerarie in strutture già esistenti renderà ancora più disumani i nostri istituti di pena. Perché il ministro Alfano o il Dap non ha mai convocato chi le italiche prigioni le dirige ogni giorno?

La proposta contenuta nel "piano carceri" che vuole realizzare dei padiglioni penitenziari all’interno delle strutture detentive già esistenti, oltre che far inorridire, sbeffeggia le normali intelligenze. È evidente infatti che, costruire nuove sezioni carcerarie in penitenziari che già oggi non riescono ad ottemperare alle finalità rieducative della pena, si tramuterà in un’ulteriore diminuzione degli spazi e renderà ancor più ingovernabili e disumanizzanti le nostre prigioni. Eppure il numero di suicidi di detenuti registrati dall’inizio dell’anno avrebbe dovuto orientare diversamente! Se è questo lo sforzo ideativo delle alte sfere del Ministero della Giustizia, vediamo già ora i segnali di un clamoroso fallimento. È pericolosissimo sottrarre i pochi spazi aperti esistenti, le aree verdi, scampoli di vivibilità strappata a forza, e così rendere più tetre, cupe e spersonalizzanti quelle realtà dove vivono folle di persone detenute e gli stessi operatori penitenziari.

Si rimane basiti all’idea di sarcofagi realizzati dentro realtà carcerarie già stressate e che, spesso, non sono state neanche adeguate al regolamento penitenziario del 2000. Carceri, con gli impianti tecnologici non sottoposti regolarmente a manutenzione ordinaria e dove le condizioni igienico-sanitarie sono il più delle volte inadeguate.

Operando nel senso indicato dai vertici del Dap, si corre il rischio che un programma politico in materia penitenziaria atteso da anni, si traduca nell’ennesima occasione mancata, privando la collettività di carceri per davvero civili e dignitose per chi subisce la pena e per quanti, operatori "incolpevoli", ci lavorano.

Molto più utile e meno dispendioso sarebbe, invece di realizzare nuove sezioni in carceri già esistenti, recuperare le numerose caserme dismesse presenti sul territorio nazionale, riqualificandole e restituendole ad un uso pubblico, magari destinandole ai detenuti in attesa di giudizio e meno pericolosi.

Siamo tra i primi a ritenere inadeguate molte delle vecchie strutture penitenziarie, ma la soluzione al sovraffollamento non può risiedere soltanto nella realizzazione di nuove prigioni: occorre, invece, puntare anche su una riforma del sistema delle pene e del processo penale. Una riforma che consenta l’applicazione di sanzione diverse dal carcere, sanzioni che siano, perché no, anche esecutive in primo grado. Si deve, inoltre, intervenire su una seria depenalizzazione perché: una sanzione amministrativa forte è più efficace di una sanzione penale debole. Il tutto senza dimenticare la necessità di ricorre alle nuove tecnologie, quali l’adozione dei braccialetti elettronici, che potrebbero incentivare misure custodiali non detentive utili a far decrescere il sovraffollamento.

Come Sindacato dei direttori penitenziari, abbiamo chiesto l’aiuto di architetti, ingegneri, docenti universitari, di sociologi e criminologi, per trovare soluzioni adeguate a quei luoghi dove la libertà è consumata che sono le carceri. Abbiamo cercato di volare alto, abbiamo cercato di pensare che non abbiamo bisogno di nuovi lager, sull’onda emotiva dell’emergenza, ma di carceri funzionali, palestre sociali di legalità e di responsabilizzazione: per una nuova ideazione penitenziaria.

Purtroppo fino oggi, nonostante i nostri sforzi, nessuna delle organizzazioni sindacali rappresentative dei direttori penitenziari è stata coinvolta o ascoltata dal Ministro Alfano sul "piano carceri". Eppure era ragionevole che vi fosse uno scambio d’opinione, quantomeno al fine di agevolare l’importante programma del Governo.

Per questa ragione, come segretario nazionale del Sindacato dei direttori penitenziari, mi auguro che il Ministro Alfano convochi la nostra organizzazione sindacale insieme con le altre per confrontarci serenamente e per discutere in modo razionale del piano carceri.

Giustizia: penalisti; il Governo intervenga sul sovraffollamento

 

Adnkronos, 25 marzo 2010

 

L’Unione delle Camere Penali torna a lanciare l’allarme sulla situazione delle carceri e sollecitare un intervento "urgente" di Governo, Parlamento e forze politiche. Il Sindacato degli Agenti di Polizia Penitenziaria fa proprio l’allarme dell’Ucpi e sollecita interventi sulle misure alternative.

"È necessario che Governo, Parlamento e Forze politiche intervengano urgentemente sul problema carcerario per garantire e tutelare i diritti dei detenuti, adottando provvedimenti che prevedano l’uso della misura cautelare carceraria quale extrema ratio ed il ripristino delle misure alternative alla detenzione". È quanto dichiara Roberto D’Errico, responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane".

In Italia non c’è allarme criminalità - sostiene D’Errico - e l’attività di contrasto delle Forze di Polizia consente il controllo del territorio e la significativa diminuzione del numero dei reati. Il numero dei detenuti nelle carceri italiane invece cresce di 800 unità al mese, con un preoccupante aumento del numero dei suicidi, sintomatico delle condizioni di disagio fisico e psichico in cui vivono i detenuti. Le Camere penali sono favorevoli sia alla creazione di nuovi posti nelle carceri sia all’assunzione di nuovi agenti della polizia penitenziaria, si tratta però di misure insufficienti per rimuovere le cause del sovraffollamento.

Anche il percorso intrapreso dal ministro Alfano, seppure segno di un’inversione di tendenza nella politica legislativa del governo in materia penitenziaria - prosegue l’avvocato - nel concreto è insufficiente sia in relazione alle preclusioni soggettive ed oggettive in esso previste sia nei limiti temporali fissati. Auspichiamo - conclude D’Errico - un’accelerazione dell’iter legislativo sulla questione carceraria e manifestiamo la nostra piena disponibilità per contribuire a combattere il drammatico fenomeno del sovraffollamento carcerario".

Giustizia: Sappe; bene appello Camere Penali sull'affollamento

 

Adnkronos, 25 marzo 2010

 

"Condivido l’appello odierno dell’Unione Camere Penali Italiane a Governo, Parlamento e Forze politiche per interventi urgenti finalizzati a ridurre il sovraffollamento penitenziario". Lo afferma il segretario del Sindacato autonomo penitenziario Sappe, Donato Capece, sottolineando che "oggi le celle italiane contano 67.178 presenze (42.197 gli italiani, 24.981 gli stranieri) a fronte di una ricettività regolamentare pari a circa 43mila posti".

Anche per questo - ricorda Capece - nei giorni scorsi il sindacato ha sollecitato il Ministero della Giustizia e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria affinché il Piano carceri del Governo trovi una prima urgente applicazione nelle parti in cui si prevedono interventi normativi che permettano l’assunzione di 2mila Agenti di Polizia Penitenziaria e l’introduzione della possibilità di detenzione domiciliare per chi deve scontare solo un anno di pena residua e di messa alla prova delle persone imputabili per reati fino a tre anni, che potranno così svolgere lavori di pubblica utilità".

Il leader sindacale, auspica così che ci sia "una svolta bipartisan di Governo e Parlamento per una nuova politica della pena, necessaria e non più differibile, che ripensi organicamente il carcere e l’Istituzione penitenziaria, anche alla luce della sostanziale inefficacia degli effetti dell’indulto, per varare una legislazione penitenziaria che preveda un maggiore ricorso alla misure alternative alla detenzione, delineando per la Polizia Penitenziaria - aggiunge - un nuovo impiego ed un futuro operativo, al di là delle mura del carcere, parallelamente all’affermarsi del suo ruolo quale quello di vera e propria polizia dell’esecuzione penale".

Capece si augura che "la classe governativa e politica non ripetano gli errori del passato quando, approvato l’indulto, non ripensarono, allora, il carcere adottando rimedi di fondo al sistema penitenziario, chiesti autorevolmente più volte anche dal Capo dello Stato Giorgio Napolitano. Non si perda ulteriore tempo. Il Sindacato più rappresentativo del Corpo auspica una urgente svolta bipartisan di Governo e Parlamento per una nuova politica della pena".

Giustizia: Sappe; il piano carceri preveda ristrutturazione Ipm

 

Agi, 25 marzo 2010

 

"Mi auguro che nel piano di edilizia penitenziaria del Governo si preveda una approfondita verifica anche delle strutture destinate alla detenzione dei minorenni". È quanto dichiara il segretario del sindacato di Polizia penitenziaria Sappe, Donato Capece: "ci giungono infatti segnali che tanti edifici che ospitano Centri di prima accoglienza, Istituti penali per minorenni, Uffici di Servizi sociale per minorenni e Comunità necessitano di urgenti lavori di manutenzione. Credo - aggiunge Capece - che un coinvolgimento diretto del Dipartimento della Giustizia Minorile nel piano di edilizia sia possibile ed, anzi, da auspicare. Si pensi che nell’anno 2009 i flussi di utenza dei Centri di prima accoglienza hanno contato complessivamente, tra arrestati, fermati e accompagnati, quasi 2.500 soggetti (italiani e stranieri) mentre nei penitenziari i minorenni transitati sono stati 1.222".

Il leader del Sappe questa mattina a Roma ha incontrato il Capo Dipartimento della Giustizia Minorile Bruno Brattoli ed il Direttore Generale del Personale e della Formazione Luigi Di Mauro. "Quella della detenzione minorile - sottolinea ancora Capece - è una specificità della giustizia di cui si parla, a torto, sempre troppo poco.

Eppure è sempre più frequente l’utilizzo dei minori coinvolti in attività criminose. Le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria, personale specializzato nel trattamento dei detenuti minorenni, fanno davvero un encomiabile lavoro con una utenza particolarmente difficile e con molte criticità. Mi auguro quindi - conclude il segretario del Sappe - un coinvolgimento diretto del Dipartimento della Giustizia Minorile nel piano di edilizia penitenziaria e, più in generale, nel piano carceri del Governo".

Giustizia: stai zitto e mena, solo così avrai una… promozione

di Marco Travaglio

 

Il Fatto Quotidiano, 25 marzo 2010

 

Lo so che è bizzarro, almeno in Italia. Ma chi scrive, fra guardie e ladri, ha sempre scelto le guardie, convinto che la magistratura e le forze dell’ordine abbiano sempre ragione fino a prova contraria. Il guaio è che, sempre più spesso, dalle forze dell’ordine giungono prove contrarie. I casi di detenuti o fermati massacrati di botte, morti in circostanze misteriose coperti di lividi, come i casi di contestatori prelevati e trascinati lontano da manifestazioni del centrodestra per aver osato contestare civilmente o sventolare cartelli critici, fanno temere che qualcosa di spiacevole stia accadendo fra i "tutori della legge".

E le reazioni prudenti, ai limiti della reticenza, dei vertici lasciano la sgradevole sensazione che non si tratti di casi isolati, delle solite mele marce. La sensazione diventa qualcosa di più concreto quando si legge che il capo della Polizia, Antonio Manganelli, vuole cacciare il vicequestore Gioacchino Genchi, esperto informatico al servizio di Procure e Tribunali, già consulente di Falcone e uomo-chiave nelle indagini sulle stragi del 1992. L’anno scorso Manganelli aveva sospeso Genchi per aver risposto su Facebook a un giornalista che gli dava del bugiardo; e l’aveva ri-sospeso per avere financo rilasciato un’intervista sul suo ruolo di consulente: condotte "lesive per il prestigio delle Istituzioni" e "nocive per l’immagine della Polizia".

Ora ha disposto la terza sospensione, che porterà automaticamente alla destituzione dopo 25 anni di onorato servizio (sempreché il Tar non accolga i ricorsi di Genchi), peraltro preannunciata dal settimanale berlusconiano Panorama e sollecitata dall’apposito Gasparri ("Se il capo della Polizia Manganelli si avvalesse ancora di un personaggio del genere, la cosa sarebbe sconcertante e non priva di conseguenze..."). Senza dimenticare la violenta campagna scatenata da Libero contro il pm romano Di Leo che ha affidato a Genchi una consulenza sulla truffa Fastweb-Di Girolamo, mentre la stessa Procura indaga su di lui (per iniziativa dall’indimenticabile Achille Toro). Stavolta il peccato mortale di Genchi è aver accettato di intervenire al congresso Idv, come se un poliziotto, per giunta sospeso, fosse un libero cittadino con libertà di parola.

Curiosamente la sanzione gli è stata notificata un mese dopo il congresso, il 22 marzo, proprio un giorno prima che Genchi riprendesse servizio. E proprio mentre il Pdl cannoneggiava la Polizia per aver osato smentire il mirabolante dato sul milione di manifestanti in piazza San Giovanni: meglio non sollevare altre polemiche consentendo a Genchi di rientrare in servizio il 23 marzo. E pazienza se il vicequestore, per 25 anni, ha sempre ottenuto un punto in più del massimo nelle valutazioni di merito per le sue "eccezionali doti morali" e le capacità operative. E pazienza se la Polizia non sospende nemmeno i suoi uomini Condannati in primo grado per stupro e omicidio. E pazienza se tutti i poliziotti condannati in primo e/o secondo grado per le violenze e le torture alla scuola Diaz e alla caserma di Bolzaneto durante il G8 di Genova nel 2001, o per le violenze dell’anno precedente, sui no-global a Napoli sono rimasti in servizio, e in alcuni casi han fatto addirittura carriera.

Vincenzo Canterini, condannato a 4 anni in primo grado per la mattanza alla Diaz, è stato promosso questore e ufficiale di collegamento Interpol a Bucarest. Michelangelo Fournier, condannato a 2 anni in primo grado, è al vertice della Direzione Centrale Antidroga. Alessandro Perugini, celebre per aver preso a calci in faccia un quindicenne, condannato in primo grado a 2 anni e 4 mesi per le sevizie a Bolzaneto e a 2 anni e 3 mesi per arresti illegali, è divenuto capo del personale alla Questura di Genova e poi dirigente in quella di Alessandria. Evidentemente le loro condotte non erano "lesive per il prestigio delle Istituzioni" e la loro permanenza in servizio non è "nociva per l’immagine della Polizia". Mica hanno scritto su Facebook o parlato a un congresso.

Giustizia: dopo la morte di Uva omissioni bugie e prove sparite

di Piero Colaprico e Sandro De Riccardis

 

La Repubblica, 25 marzo 2010

 

Dalla caserma all’ospedale, tutte le lacune dell’inchiesta Il tasso alcolico non compatibile con l’autolesionismo Al momento del ricovero niente slip I traumi notati solo nel referto sul decesso. Prima nessuno ha chiesto una radiografia.

L’ultima notte del "Pino", come chiamavano Giuseppe Uva, sembra non aver mai fine. Il processo pubblico a due medici che forse "non" lo curarono bene comincia il 10 giugno, ma ci sono due ricostruzioni opposte, e dieci enigmi da risolvere. Testimonianze e referti, alcuni sinora inediti, non appianano le divergenze tra famiglia e investigatori. E le due versioni su quanto avvenne tra Uva e alcuni carabinieri, nella notte tra il 13 e il 14 giugno 2008, sono come due trincee.

 

Chi ha fatto sparire gli slip di Uva?

 

L’autopsia, eseguita dall’anatomopatologo Marco Motta, nota (pagina 4): "All’atto della prima ispezione il cadavere indossava un pannolone e una maglietta bianca". L’ispettore superiore T.T., dirigente del posto di polizia dell’ospedale, nella relazione sul decesso, scrive che gli slip non si trovano e non si sa chi abbia "provveduto" alla loro "rimozione dal corpo": e l’indumento - continua T.T. - non è stato "neppure consegnato ai parenti, probabilmente perché intriso di sangue".

 

Sottovalutati alcuni indizi, come le scarpe?

 

I parenti di Uva sapevano già che sui blu jeans marca Rams di Pino c’era "tra il cavallo e la zona anale una vistosa macchia di liquido rossastro". Ma, continua il poliziotto dell’ospedale "c’è un particolare inquietante riscontrato anche sulle scarpe di stoffa, che stanno verosimilmente a indicare un’estenuante difesa a oltranza dell’uomo effettuata anche con calci". La parte anteriore è "vistosamente consumata".

 

Come mai il ricovero avviene così tardi rispetto al fermo?

 

Pino Uva, che aveva 43 anni, e Alberto Biggiogero, oggi trentacinquenne, secondo "l’annotazione di polizia giudiziaria" del brigadiere P.R. e dell’appuntato scelto S.D.B., "alle 2.55" girano per la città e sono ubriachi. Litigano tra loro, il caos nottambulo coinvolge altri passanti e vicini, infine Uva e l’amico vengono acciuffati "dagli scriventi" e portati nella caserma di via Saffi, dove "Uva dà in escandescenze". Alle 4.15 arriva la guardia medica Desire Augustin Noubissie. Ma, attenzione, solo alle 6.03 - dice la cartella clinica - Uva viene ricoverato in ospedale.

 

Il tasso alcolico è compatibile con l’autolesionismo?

 

Il tasso alcolico di Pino era alto, 1,6. Secondo le tabelle del pronto intervento stradale, con una quota simile "lo stato di euforia viene sostituito da uno stato di confusione mentale e di totale perdita della lucidità, con conseguente sopore e sonnolenza molto intensa". Stando però ai carabinieri, che hanno anche chiamato i poliziotti delle volanti in rinforzo, Uva in caserma è "in continuo stato di agitazione" e mentre "procedevamo alla compilazione degli atti, si buttava giù dalla sedia, si divincolava, resisteva e "riusciva a dare calci contro un armadio metallico e scrivania procurandosi delle lesioni lievi e delle escoriazioni agli arti inferiori".

 

Autolesionismo o pestaggio?

 

La versione dell’amico di Uva è nota ed è opposta: "c’era via vai di carabinieri e poliziotti, mentre udivo provenire (...) le urla di Giuseppe, che echeggiavano per tutta la caserma assieme a colpi dal rumore sordo". Anche Biggiogero viene acciuffato, "sopraffatto con vari ceffoni e scarpate" (così il testo della sua denuncia alla procura della Repubblica) e non può difendere l’amico: "Mi hanno imposto di stare zitto se non volevo fare la stessa fine... Udivo le urla incessanti di Giuseppe per circa un’ora e mezza ancora". Poi Biggiogero dirà che Pino "è stato massacrato per una relazione con la moglie di un militare".

 

Perché rifiutare l’autoambulanza?

 

Biggiogero riesce a prendere il cellulare e chiama il 118: "Stanno massacrando un ragazzo", dice all’operatore. Il quale chiama in caserma per avere conferma. E si sente rispondere: "No, sono due ubriachi, ora gli togliamo i cellulari". L’autoambulanza non partirà.

 

Come mai la polizia resta ore in caserma per due ubriachi?

 

Il territorio di Varese resta sguarnito, le due volanti di turno più quella del capoturno confluiscono in via Saffi: "È normale che tre pattuglie siano impegnate per due ore e nessuno fa relazione su quello che hanno fatto?": è questa la domanda di Agostino Abate, pm con fama di uno che va sino in fondo. Il commissario Capo G.D., dirigente delle volanti, tentenna, per lui comunque non c’erano "esiti particolari da riferire".

 

Ma la cartella clinica aveva le informazioni corrette?

 

"Agitazione psicomotoria", così recita la cartella sinora inedita che accompagna Uva in corsia. Viene detto che è il "primo ricovero per la specifica diagnosi", è in "Tso, trattamento sanitario obbligatorio". Al punto 16, "provenienza del paziente", non viene indicata la caserma. Inoltre, punto 20, in caso di "traumi o intossicazioni", esiste un’altra voce: "violenza altrui", casella 4. Anche in questo caso non c’è alcuna x, nessuno sbarramento. Quest’uomo diventa la pratica 108013834.

 

Come arriva la morte?

 

Uva è allergico ai farmaci, ma nonostante sia ubriaco, gli vengono iniettati ansiolitici dai due medici ora sotto processo. Si agita, avrà presto un arresto cardiaco. Appena cinque ore dopo l’ingresso di Uva, sulla cartella clinica si legge a penna l’ora della morte, le "11.10". La diagnosi, sempre a penna, vede cose che all’atto del ricovero sembravano essere passate inosservate. Parla di "abusi misti, shock cardiogeno e traumatismo faccia e naso".

 

Come leggere l’autopsia?

 

Il medico legale segnala "abbondanti ipostasi violaceo rossastre", ma soprattutto trova nei polmoni (pagina 11), a parte le tracce di nicotina, una "distelectasia con prevalente enfisema acuto... vasti campi edematoso-emorragici... molteplici immagini di embolia adiposa". Questo è il passaggio che mette in allerta il dottor Renato Rondinella, consulente di parte: "L’embolia adiposa vede tra le sue cause principali eventi fratturativi di segmenti scheletrici con successiva embolizzazione polmonare". Nessuna radiografia era stata fatta, e anche questo è apparso strano alla difesa della famiglia Uva. Queste le dieci stranezze che oggi l’avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia Uva, e il procuratore capo Maurizio Grigo cominceranno ad affrontare in un incontrano oggi alle 12, dove sarà chiesta la riesumazione del corpo di Pino, morto al termine di una notte in cui il sangue si mischiò al vino.

Giustizia: Giuseppe denunciato da morto, incredibile ma vero

di Davide Milosa

 

Il Fatto Quotidiano, 25 marzo 2010

 

Una denuncia post mortem. Incredibile, ma vero. Emerge anche questo nel caso di Giuseppe Uva, il 43enne artigiano di Varese deceduto il 14 giugno 2008 nel reparto di psichiatria dell’ospedale. Morte ufficialmente attribuita all’uso spregiudicato di farmaci da parte di due medici che sono attualmente indagati. In realtà sul fatto si agita l’ombra di un vero massacro perpetrato da uomini delle forze dell’ordine all’interno della caserma dei carabinieri in via Saffi a Varese. Un’ipotesi sulla quale la Procura di Varese ha aperto un fascicolo a carico di ignoti.

Il documento di denuncia, protocollato con il numero 30.47, porta la data del 15 giugno 2008, cioè 24 ore dopo la morte di Giuseppe avvenuta alle 10 del mattino del 14. "Un fatto incredibile - sostiene Fabio Anselmo, legale della famiglia Uva -. In tutta la mia carriera non mi è mai capitato di vedere una denuncia a morte avvenuta". E allora perché? "Evidentemente - prosegue l’avvocato - il motivo sta nella necessità di trovare una motivazione ai fatti". Va detto, poi, che in quello stesso 15 giugno Alberto Biggiogero deposita in Procura la sua querela. Otto pagine in cui l’amico di Uva ricostruisce gli eventi; dal fermo alle ore terribili passate in caserma.

Nella denuncia dei carabinieri firmata dal tenente Piera Stornelli, agli indagati Giuseppe Uva e Alberto Biggiogero viene contestato il reato di "disturbo delle occupazione o del riposo delle persone". Reato che si estingue con una semplice multa. Giuseppe e Alberto avevano bevuto un goccio di troppo, probabilmente avevano alzato la voce, effettivamente stavano spostando transenne in mezzo alla strada. Nulla di più. Soprattutto nessun tipo di aggressività nei confronti dei carabinieri. Questo emerge dalla denuncia.

Il tutto in contraddizione con quello che gli stessi militari hanno scritto in una precedente annotazione redatta alle 7 di mattino del 14 giugno (tre ore prima della morte di Uva). Si tratta di due pagine in cui Uva sembra avere un atteggiamento molto aggressivo nei confronti dei militari. Nel documento si riportano, addirittura, gli insulti dell’artigiano ai carabinieri. "Non sposto un cazzo, anche se siete carabinieri non me ne frega un cazzo, toglietevi la divisa, poi vediamo". E ancora. "Sia Uva che Biggiogero picchiavano con calci e pugni contro i portoni delle case". E così "per evitare che la situazione degenerasse veniva richiesto l’ausilio di personale delle volanti". Ne arriveranno tre con a bordo sei uomini, praticamente l’intero turno. Il giorno dopo nessuno dei sei agenti farà una relazione approfondita sui fatti.

Si capisce subito che i due documenti sono in contraddizione. Incongruenze che proseguono sentendo Alberto Biggiogero, per il quale "l’atteggiamento di Giuseppe era totalmente remissivo, chiedeva solo che gli venissero messe le manette". Dopodiché nella sua querela lo stesso amico di Uva ha scritto di un carabiniere "quello grosso" che aveva "uno sguardo stravolto e terrificante". E il perché di un tale sguardo, Biggiogero lo spiega al carabiniere che sta compilando gli atti. L’appuntato così annota anche la frasi di Alberto: "Il tuo collega è pazzo - dice Biggiogero -. Si fa di cocaina! Hai visto che pupille dilatate che ha!".

Nessuna certezza, invece, che tra quei carabinieri ci fosse il marito dell’amante di Uva. Una relazione confermata da diversi testimoni e che, sostiene l’avvocato Anselmo, "resta complicata da provare". E in effetti sulla vicenda Uva più che il movente sono i fatti che devono essere accertati. Per questo oggi a mezzogiorno il legale della famiglia Uva sarà ricevuto dal procuratore di Varese Maurizio Grigo. Sul tavolo del magistrato due giorni fa è stato portato un piccolo dossier che ricostruisce la vicenda. Oggi, invece, dovrebbe essere consegnata una breve perizia fatta sul fascicolo dell’autopsia. Fascicolo alto pochi centimetri e dove stranamente comparirebbero solo le foto del corpo di Uva completamente vestito.

Lettere: troppe morti in carcere, sembra la legge della jungla!

 

Il Tirreno, 25 marzo 2010

 

La commissione parlamentare che ha indagato sulla morte di Stefano Cucchi ha emesso il suo "verdetto": è morto non per le percosse subite, ma per disidratazione. Poco cambia, la commissione ha accertato che Cucchi è stato massacrato di botte dalla polizia penitenziaria o dai carabinieri. A causa delle gravi ferite viene chiesto il ricovero urgente dal medico del carcere, ma Cucchi entra al Fatebenefratelli dopo quattro ore di attesa, poi viene portato dal Fatebenefratelli al Pertini senza cartella clinica, non viene visitato e quando la situazione precipita non viene mandato in rianimazione.

Il Parlamento ha quindi messo nero su bianco tutto questo ma probabilmente nessuno pagherà per i suoi comportamenti violenti o semplicemente omissivi, così come è successo con il caso Lonzi. La procura di Livorno ha chiesto l’archiviazione del procedimento sulla fine di Marcello Lonzi, trovato cadavere nella sua cella, con evidenti segni di violenze sul corpo, incredibilmente attribuiti a una "caduta accidentale".

Ultimo è il caso di Giuseppe Uva 43 anni, rimasto per quasi tre ore nelle mani di un gruppo di carabinieri e poliziotti all’interno di una caserma, nella città di Varese. Violenze, forse sevizie e, poi, il Trattamento sanitario obbligatorio (Tso) nel reparto di psichiatria di un ospedale varesino: in questo reparto a Uva fermato in stato di ebbrezza vengono somministrati farmaci che ne determinano la morte. La lista di questi episodi è lunghissima, si continua a morire in carcere, senza motivo, solamente perché ci si trova dove vive la legge della giungla anziché lo stato di diritto.

 

Daniele Carcea

Lettere: care candidate ora voltate pagina sulle galere laziali

di Vittorio Antonini (Coordinatore dell’associazione culturale Papillon-Rebibbia)

 

Pagina di Radio Carcere su Il Riformista, 25 marzo 2010

 

Lettera aperta dell’associazione Papillon alla Bonino e alla Polverini. Gentilissime Emma Bonino e Renata Polvarini, rappresento l’associazione culturale Papillon-Rebibbia, nata nel 1996 all’interno del carcere romano di Rebibbia, composta da detenuti, da ex detenuti e diffusa, oltre che a Roma, nel Lazio ed in tante altre carceri italiane.

Vi scriviamo questa lettera aperta, non per sottolineare la nota drammatica realtà delle carceri italiane o di quelle del Lazio in particolare, ma per formulare una proposta sui possibili interventi che la Regione Lazio potrebbe operare all’interno dei penitenziari di sua competenza.

Secondo noi infatti sarebbe oltremodo necessario intraprendere una serena riflessione pubblica sulla necessità di metter fine alla favola del cosiddetto "Garante dei Detenuti", ragionando invece sulla possibilità che la Regione affidi ad una Commissione il compito di vigilare, con tutta la sua autorevolezza, sull’applicazione integrale ed uniforme per tutti i detenuti del dettato costituzionale e delle Leggi e dei Regolamenti vigenti. Chiediamo che questa Commissione operi una verifica concreta e che lavori insieme alla Magistratura di sorveglianza, ma pronta a sottolinearne, senza ipocrisie, anche i limiti e gli errori.

Noi ci auguriamo che almeno sulla delicata materia del carcere, Voi abbiate la forza di sottrarvi alle tante pressioni (per lo più di carattere affaristico) e sappiate imporre a tutto il nuovo Consiglio Regionale un metodo quasi elementare, che dovrebbe essere preliminare a qualsiasi decisione in materia: ossia l’obbligo di compiere un bilancio particolareggiato dell’esperienza quasi settennale del Garante dei Detenuti e una valutazione delle effettive "ricadute pratiche" (concrete e verificabili, e non quelle fumose dei comunicati stampa) che hanno avuto sulla vita dei detenuti e degli ex detenuti tutti gli interventi della Regione e in particolare la Legge Regionale approvata nella primavera del 2007.

Legge sulla "Difesa dei diritti dei detenuti" che prevede l’assunzione di educatori, l’aumento dei fondi per le attività culturali e per i corsi di formazione per detenuti, ex detenuti e operatori, ed anche la creazione di un organismo regionale ("Tavolo interassessoriale") per programmare la destinazione del denaro a disposizione di ogni Assessorato al fine di sostenere la formazione e il reinserimento lavorativo dei detenuti e degli ex detenuti. Legge rimasta pressoché inapplicata, forse perché alla programmazione comune si è preferita la classica spartizione lottizzatrice.

In fondo, gentili Candidate, non ci sembra di chiedere molto e siamo certi che non appena avrete modo di riflettere su questa nostra semplice richiesta, la Vostra decennale esperienza in campo politico e sindacale vi suggerirà che forse anche in materia di Sicurezza Sociale e Diritti dei Detenuti è ormai arrivato il momento di voltare pagina.

Infine, lasciateci anche dire che con questa nostra piccola richiesta si otterrebbe un primo importante risultato: si smantellerebbero tutte quelle piccole ma ben pasciute combriccole di "parassiti del disagio sociale" che tanti guai hanno combinato in questi ultimi sette anni, e che quotidianamente pascolano negli uffici dell’amministrazione o di qualche potente Assessorato della Regione Lazio.

Emilia Romagna: Uil; quasi il doppio dei detenuti regolamentari

 

Ansa, 25 marzo 2010

 

Il dato che emerge dall’ultimo bollettino emanato dal Coordinamento Nazionale Penitenziari sui numeri delle carceri emiliano romagnole è allarmante. "Dall’attento esame dei numeri, ha detto Eugenio Sarno, Segretario Generale della Uil Penitenziari -, emerge in modo netto il drammatico quadro di sovraffollamento nelle strutture penitenziarie emiliane. Al 28 febbraio, infatti, a fronte di una capienza massima pari a 2.386 detenuti si è registrata la presenza di 4585 ristretti". I dati più inquietanti provengono dai carceri delle città più grandi. Alla Dozza di Bologna su un totale regolamentare di 494 detenuti appaiono presenti 1.200 persone. Il doppio dei 256 consentiti sono invece al carcere di Ferrara così come in quello di Forlì, che ne prevedrebbe al massimo 135. A livello di percentuale anche quello di Ravenna non scherza, con 59 posti occupati da 136 persone. L’unico carcere "a norma" è quello di Castelfranco Emilia, con 118 residenti per 139 posti.

A questo dato va inoltre aggiunto che manca pure del personale che gestisca la vita penitenziaria. "In Emilia, rispetto agli organici previsti per il personale amministrativo, mancano 8 Dirigenti Penitenziari, 43 educatori, 33 assistenti sociali, 22 contabili, 111 tecnici e 17 collaboratori. La polizia penitenziaria conta su 1926 unità a fronte delle 2401 previste. Questo dato - avverte il Segretario Generale Sarno - non tragga in inganno perché la situazione è ben peggiore di quella che si evince dal pur negativo dato numerico".

Calabria: Uil; 1.800 posti e 3.000 detenuti, le carceri alla deriva

 

Agi, 25 marzo 2010

 

"Ben consapevoli che dal 28 febbraio scorso la situazione delle presenze detentive si è ulteriormente aggravata con lo sfondamento di quota 67.000 detenuti, riteniamo comunque dover divulgare il rilevamento ufficiale del Dap datato, appunto, 28 febbraio. Mi pare di poter svolgere una piccola e breve considerazione per quanto attiene la situazione penitenziaria della regione: siamo alla deriva completa nel più clamoroso degli allarmi che nessuno di chi ha competenza sembra voler raccogliere". Con queste parole Eugenio Sarno, segretario generale della Uil Pa-Penitenziari, illustra le cifre e i numeri della situazione nei penitenziari della Calabria.

"Dall’attento esame dei numeri - dice - emerge in modo netto il drammatico quadro di sovraffollamento nelle strutture penitenziarie calabresi. Al 28 febbraio, infatti, a fronte di una capienza massima pari a 1.849 detenuti si registrava la presenza di 2.922 ristretti. Le condizioni disumane e incivili della detenzione si coniugano con la quotidiana contrizione dei diritti elementari per il personale penitenziario ed in particolare per la polizia penitenziaria. Una situazione insostenibile, destinata a provocare pulsioni e tensioni all’interno delle carceri che potrebbero non essere adeguatamente fronteggiate e gestite dall’ Amministrazione Penitenziaria con le ridotte risorse umane a disposizione. Non è solo - sottolinea Sarno - un problema di allarme sociale ma anche, se non soprattutto, un problema di ordine pubblico che potrebbe avere dirette conseguenze sulla sicurezza dell’intera collettività.

Responsabilmente non ci sottraiamo, in tempo e per tempo, ad allertare i politici, la stampa e la società nella speranza che si inneschi quella consapevolezza della indifferibilità a procedere alla legiferazione sulle misure accompagnatorie del piano carceri annunciate dal Ministro Alfano. L’affidamento in prova, il ricorso alla detenzione domiciliare, la necessaria e urgente assunzione di circa 4mila unità di polizia penitenziari: queste sono le risposte reali ed urgenti che necessitano al sistema penitenziario ma di cui non si sente parlare se non attraverso sporadici annunci. Lo stesso piano carceri sembra aver subito un rallentamento nella sua incerta definizione. Noi ne abbiamo perso le tracce. In Calabria rispetto agli organici previsti per il personale amministrativo mancano 8 Dirigenti Penitenziari, 39 educatori, 33 assistenti sociali, 19 contabili e 45 collaboratori. La polizia penitenziaria conta su 1.624 unità a fronte delle 1.498 previste. Ma questo dato - avverte il segretario generale - non tragga in inganno. Non c’è sovra dotazione perché l’età media anagrafica del personale è molto alta; molte unità sono in congedo straordinario per malattia a lungo corso; moltissime unità sono alle soglie della quiescenza e i carichi di lavoro sono pressoché raddoppiati e si sono anche aperte nuove strutture".

Trento: il suicidio di Frapporti fu imprevedibile, caso archiviato

 

Il Trentino, 25 marzo 2010

 

Stefano Frapporti si è impiccato nella cella numero 5 del carcere di via Prati per "autonoma e libera scelta, verosimilmente favorita dalle condizioni stressanti che un arresto inevitabilmente comporta", ma le motivazioni profonde del gesto restano - secondo il gip Riccardo Dies che firma il decreto di archiviazione depositato alcuni giorni fa - "imperscrutabili" e "non emergono in alcun modo elementi idonei a configurare una penale responsabilità a carico di terzi per quanto avvenuto".

Le tre pagine abbondanti di motivazione sono uno scrupolo piuttosto raro nelle procedure di archiviazione, che di norma si limitano al semplice dispositivo: poche righe per dire che gli atti sono destinati all’archivio. Con ogni evidenza, il gip Dies intendeva dimostrare di non aver preso la vicenda sottogamba e il documento affronta ogni singolo elemento sollevato dal legale della famiglia Frapporti, l’avvocato trentino Giampietro Mattei.

Innanzi tutto, Dies sostiene che per quanto l’assunzione di cannabis comprovata dai modesti quantitativi di Thc trovato nel corpo di Frapporti possa "aver favorito" un effetto depressivo, non è qui che va cercata la causa della decisione di togliersi la vita. Il gip scrive che non si possono rimproverare gli agenti della polizia penitenziaria, poiché Frapporti, dal suo ingresso in carcere (ore 23.15) fino a quando è stato trovato senza vita (ore 00.05) non aveva manifestato "un tono dall’umore depresso", "intrattenendo una conversazione col personale del carcere del tutto serena". La decisione di togliersi la vita appare "un evento del tutto imprevedibile e inevitabile".

L’ultimo controllo alla cella numero 5 è stato eseguito alle 23.35 "senza che fosse rilevato segno di anomalia". Infondati poi, secondo il giudice, i rimproveri per il mancato controllo del detenuto, il mancato sequestro del laccio dei pantaloni della tuta e la tempestività nei tentativi di rianimazione. Secondo il referto medico legale, l’"impiccamento atipico", con il nodo scorsoio in posizione laterale sinistra, conduce in soli dieci secondi alla perdita di conoscenza e alla morte per anossia dell’encefalo. Il laccio inoltre non era visibile e comunque sarebbe stato valutato non idoneo "per ottenere un effetto tanto devastante". Quanto ai due buchi rilevati sul braccio e di cui la famiglia chiede conto risalirebbero a "48 ore prima del decesso", quando Frapporti era ancora libero. Infine l’arresto: obbligatorio perché con oltre 100 grammi di hashish in casa non era ipotizzabile l’uso personale. Mentre l’ipotesi di formazione di prove false da parte dei carabinieri è "al limite della calunnia".

Empoli: il ministero ha bloccato arrivo dei detenuti transessuali

 

Il Tirreno, 25 marzo 2010

 

Bloccato. Questa volta l’inghippo viene dal ministero. Angelino Alfano ha messo il veto al trasferimento dei transgender da Sollicciano a quello di Empoli. E la struttura di Pozzale rimane ancora vuota e improduttiva, sulle tasche dei contribuenti. Doveva essere aperto il 9 ma a ieri non si sa quale sarà il suo destino. Il progetto dei transessuali è stato congelato. Quale è, però, il motivo di questo ennesimo blocco dopo che il carcere è vuoto da quasi un anno? Sconosciuto. La domanda è stata girata all’amministrazione penitenziaria. Ma il provveditore, Maria Pia Giuffrida, non c’è. Dall’ufficio spiegano che: "la situazione è stata fermata dal ministero, siamo in attesa di ulteriori disposizioni".

Altro non emerge. Se non che il carcere di Pozzale, che era femminile a custodia attenuata, è vuoto da quasi un anno ormai e che i lavori di riconversione sono ormai terminati e collaudati da tempo. Tanto che era stato predisposto anche un corso di formazione per il personale che doveva lavorare nel carcere. E che a un tratto è stato sospeso in attesa di ulteriori disposizioni. Che il ministro Alfano ci abbia definitivamente ripensato e che abbia optato per una diversa categoria di detenuti? Forse Pozzale avrà un destino diverso.

Ma rimangono gravi il susseguirsi di ritardi e il fatto che tutto questo avvenga a dieci chilometri da una struttura, quella dell’Opg, dove gli ospiti sono ammassati in celle vecchie, sporche e inadeguate. Nel frattempo il garante per i detenuti di Firenze Franco Corleone ha lanciato di nuovo un appello per Pozzale. "Lo chiedo ancora una volta: cosa succede nel carcere di Empoli? - ha detto - dal 9 marzo doveva ospitare detenute transessuali, invece è ancora vuoto. E questo di fronte a un sovraffollamento che riguarda tantissime situazioni, da Sollicciano al carcere minorile di Firenze.

Proprio al Comune, tra l’altro, abbiamo chiesto di trovare una sede per i detenuti in semilibertà". Non solo. Corleone va avanti. Un’iniziativa giudiziaria, sotto forma di denuncia, contro Franco Ionta, capo del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria e, forse, anche nei confronti di Angelino Alfano, ministro della giustizia, per la violazione del regolamento di esecuzione per l’ordinamento penitenziario del 2000 che riguarda il trattamento dei detenuti e le loro condizioni di vita in carcere. È questa l’ipotesi su cui sta lavorando Franco Corleone, garante dei diritti dei detenuti del Comune di Firenze.

"Ci riferiamo all’area fiorentina - ha detto Corleone - ma ci sono situazioni simili in Italia". Corleone ne ha parlato ieri mattina. "Stiamo valutando, con i nostri avvocati, se ci sono gli estremi", ha aggiunto il garante. "Il Dap ha sempre spiegato la mancata applicazione del regolamento con la scarsità di risorse ma ora i fondi ci sono: 500 milioni dalla Finanziaria per il piano carceri e altri 150 dalla cassa ammende. Non ci sono più scuse".

Empoli: quel carcere vuoto… è una sconfitta, per tutta la città

di Patrizia Tellini *

 

La Nazione, 25 marzo 2010

 

"Mi auguro davvero che si stia lavorando a progetti che possano aiutare la popolazione detenuta a vivere la propria detenzione da esseri umani".

Egregio Franco Ionta, direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, l’argomento del carcere di Empoli (vuoto) e delle condizioni disumane nei penitenziari, sono all’ordine del giorno. Le chiedo di fare qualcosa per la situazione generale nelle carceri e per il congelamento del progetto transgender a Empoli. Come possiamo stare zitti, aspettare eventi che non arrivano mai? Mi auguro davvero che si stia lavorando a progetti che possano aiutare la popolazione detenuta a vivere la propria detenzione da esseri umani, intensificando le misure alternative, vista l’emergenza legata al numero della popolazione carceraria italiana; misure che non vengono mai applicate nei termini giusti.

Lei conosce benissimo la storia della Casa circondariale femminile a custodia attenuata di Empoli. Contini ad avere a cuore quella struttura senza destinazione, perché quel progetto rivolto alle donne poteva essere benissimo riapplicato a madri e bambini, senza togliere alle donne detenute della nostra regione una grande opportunità di recupero della persona. Invece si vanno a spendere altri soldi per ristrutturare un altro edificio, a Firenze, destinato a madri con bambini al di sotto dei 3 anni ed in più si vuole costruire un padiglione completamente nuovo, che andrà a deturpare il lavoro fatto per realizzare il "Giardino degli incontri", che tutti conosciamo.

Mi dispiace che in tutto questo tempo di incertezza, attesa e poca trasparenza, siano state fatte solo anticipazioni sulla nuova destinazione del carcere di Empoli, dando tutto per certo, senza coinvolgere né chi lo ha diretto da 10 anni con tanta passione e buon lavoro; né ascoltare noi che abbiamo vissuto in prima persona quella struttura fin dalla sua apertura che risale all’8 marzo 1997: una festa della donna indimenticabile per noi dentro quelle mura e per i cittadini empolesi che festeggiarono con noi. È stato deciso tutto a tavolino. Nessuno ha potuto dire la sua. Imbavagliati. Zitti. E per che cosa? Per continuare a dire che il carcere di Empoli è costato, costa e, alla fine, lo stiamo facendo passare come un involucro di ferro che non serve a niente. È stato convertito in maschile ma ad oggi non c’è nessun utente, nessun progetto. Anzi il ministro della Giustizia Angelino Alfano ha congelato tutto per chissà quanto tempo.

L’auspicio è che qualcuno sblocchi la situazione e che si riparta con spirito collaborativo e tanta passione. C’è grande tristezza anche nel personale di polizia penitenziaria di Empoli, che ha perso fiducia nel proprio ruolo e nel proprio mestiere. Io mi auguro che il carcere di Empoli torni a vivere e ad essere comunque importante come opportunità per chi ha sbagliato nella propria vita, uomo, donna o trans gender che sia, e vuole tornare a viverla nel modo più giusto.

 

(*) Giornalista, redattrice della rivista "Ragazze fuori"

Trieste: ha sclerosi multipla, il carcere non ha soldi per curarlo

di Claudio Ernè

 

Il Piccolo, 25 marzo 2010

 

Chiede di essere liberato un giovane detenuto rinchiuso da un mese nel carcere del Coroneo. È indagato per spaccio di droga ma è anche affetto da sclerosi multipla, una malattia neurodegenerativa che se non è tenuta costantemente sotto controllo con farmaci costosissimi, lo potrebbe ridurre in pochi anni su una carrozzina. Paralizzato. Al momento vede doppio, perché il suo nervo ottico è leso ed è costretto ogni 10-15 minuti a ricorrere al bagno. Ieri il difensore, l’avvocato Sergio Mameli, ha chiesto ai giudici del Tribunale del riesame di attenuare o al limite annullare la misura cautelare inflitta al suo assistito. Scopo dell’iniziativa quello di consentire al giovane cittadino sloveno di curarsi adeguatamente e costantemente con un farmaco il cui acquisto costa circa 1.650 euro al mese, interamente a carico dell’amministrazione penitenziaria. Il farmaco si chiama "Copexone".

È questo il secondo ricorso che il difensore presenta al Tribunale del riesame. Il primo ha avuto esito negativo: una successiva istanza di liberazione per motivi di salute presentata al gip Fabrizio Rigo ha avuto identica risposta ma il magistrato allo stesso tempo ha disposto che il detenuto fosse sottoposto a perizia medico legale. Il "via libera" all’accertamento porta la data del 16 marzo, ma fino a ieri nessun medico aveva visitato il giovane. La situazione appare ancora più grave perché la cura per tenere sotto controllo il progressivo avanzamento della sclerosi che ha colpito il detenuto, sta creando non pochi problemi alle risicate risorse finanziarie del carcere del Coroneo. Quali sono i problemi lo spiega il direttore Enrico Sbriglia.

"Abbiamo l’obbligo non solo morale di salvaguardare la salute delle persone che ci vengono affidate in custodia: ma l’acquisto di questo farmaco rischia di travolgere il "capitolo" della spesa farmaceutica del carcere. A fine anno andremo in rosso e lo sbilancio dovrà essere ripianato da risorse pubbliche, da denaro dei cittadini. Il carcere a mio giudizio rappresenta l’estrema ratio. Esistono anche altre misure cautelari previste dalla legge. Ad esempio gli arresti domiciliari, dove le spese mediche affrontate dal detenuto non ricadono sulla nostra gestione.

Al contrario l’amministrazione penitenziaria paga in pieno le spese di ricovero in ospedale, quando i detenuti-ammalati devono essere piantonati. Un giorni di ricovero in rianimazione costa circa duemila euro e l’Azienda ospedaliera ci manda la fattura. Lo ripeto: il diritto alla salute del detenuto lo vogliamo e lo dobbiamo tutelare". Ieri mattina il giovane sloveno coinvolto nell’inchiesta su un traffico di eroina, è stato portato nell’aula del Tribunale. Nel corridoio aveva le manette ai polsi che gli sono state invece tolte quando è entrato al cospetto dei giudici.

"Finora il mio assistito ha potuto essere curato perché la moglie gli ha fatto recapitare in carcere la scatola con il farmaco che già usava a casa" spiega l’avvocato Sergio Mameli. "Ma la scatola che contiene 28 fiale di Copexone oggi o domani sarà vuota e non è certo che l’amministrazione ne comprerà subito un’altra, visto anche il prezzo di vendita. Ecco il motivo per cui ho chiesto la scarcerazione o una misura alternativa al carcere del mio assistito che peraltro risulta incensurato". Va aggiunto tra esigenze di sicurezza e diritto alla salute, in passato nel corso di altre detenzioni cautelari, la Cassazione non aveva avuto dubbi e aveva consentito l’effettivo e completo esercizio del diritto di curarsi.

Trieste: un laboratorio di panificazione all’interno del Coroneo

 

Il Piccolo, 25 marzo 2010

 

Un laboratorio di panificazione all’interno del Coroneo, per formare alcuni detenuti alla produzione di pane e prodotti di pasticceria che verranno poi commercializzati all’interno delle catene di commercio equo-solidale. È questo il succo dell’iniziativa per il reinserimento socio-lavorativo dei carcerati. Promossa dal Villaggio del Fanciullo e realizzata con il contributo della Cassa delle ammende del ministero della Giustizia, l’iniziativa coinvolgerà 22 detenuti, il 10% della popolazione carceraria della Coroneo, in un percorso di formazione professionale di 800 ore (400 ore di teoria e altrettante di pratica) che culminerà con la consegna ai partecipanti di una qualifica riconosciuta a livello regionale come operatore alla ristorazione. Bread&Bar, questo il nome del laboratorio, è stato inaugurato e presentato ieri dal responsabile del progetto Massimo Tierno e dal direttore della Casa circondariale Enrico Sbriglia, in un incontro cui hanno partecipato anche le autorità locali e il vescovo Giampaolo Crepaldi. "Il progetto - ha spiegato Tierno - è importante soprattutto dal punto di vista dei numeri: coinvolge il 10% dei detenuti della Casa circondariale, una percentuale davvero elevata. I candidati al progetto sono stati 67, per circa il 40% italiani e per il 60% stranieri, su una popolazione carceraria di circa 250 persone: ciò dimostra l’alto grado di interesse per attività di questo tipo.

La selezione è stata poi operata tenendo conto della rappresentatività dei gruppi etnici (le principali aree di provenienza dei detenuti stranieri sono il nord Africa e i Balcani) e delle motivazioni che hanno spinto i singoli a presentarsi alle selezioni: quasi l’80% ha dichiarato di essere spinto dalla necessità di imparare un mestiere per poi trovare, una volta uscito dal carcere, più facilmente un lavoro". Secondo Tierno "Bread&Bar" potrà anche contribuire a risolvere i problemi legati al sovraffollamento del carcere: terrà fuori dalle celle, in maniera continuativa per alcune ore al giorno, una significativa percentuale di detenuti.

E impegnarli in attività lavorative aiuterà ad alleggerire le tensioni legate al sovraffollamento. Oltre al progetto Bread&Bar ieri è stato anche presentato il Consorzio Open (Offenders pathways to employment national network), una rete nazionale di enti, associazioni e cooperative impegnate nel promuovere lo sviluppo e il miglioramento di metodi e sistemi per favorire l’inserimento o il reinserimento socio-lavorativo di minori ed adulti autori di reato, di cui fa parte anche il Villaggio del Fanciullo di Trieste.

Porto Azzurro: Caritas; in carcere manca sapone e dentifricio

 

Il Tirreno, 25 marzo 2010

 

I volontari intervengono nel carcere di Porto Azzurro per porre rimedio alle carenze istituzionali e di servizio. C’è carenza anche del necessario. "Addirittura nei giorni scorsi - puntualizzano - abbiamo portato prodotti per l’igiene personale, come abbiamo fatto la scorsa estate". Mancano saponi e dentifricio, beni basilari per l’igiene personale.

"Il nostro ruolo all’interno delle istituzioni carcerarie è altro - dicono i rappresentanti della Caritas Diocesana, la San Vincenzo dei Paoli e l’associazione Dialogo - Come altri sono i nostri obiettivi verso la popolazione ristretta, soprattutto nei confronti di coloro che hanno bassissimo reddito ai quali dobbiamo fornire prodotti necessari al sostentamento fisico, alla dignità personale, all’igiene e alla salute". Porto Azzurro non fa eccezione alla crisi che investe le carceri italiane: il sistema penitenziario è prossimo al collasso con circa 67 mila detenuti stipati in strutture spesso inadeguate e adatte a riceverne almeno 40 mila. Porto Azzurro conta 300 detenuti.

"Non è tanto il sovrappopolamento - ammettono ancora i volontari - a preoccuparci, quanto la scarsità di risorse finanziarie. Noi ci facciamo carico anche di questa necessità per senso di umanità, ma non è certo la nostra prerogativa che deve andare ben oltre queste carenze istituzionali". C’è allora bisogno di un intervento radicale per risolvere la questione. E Caritas, San Vincenzo dei Paoli e Dialogo concordano nel lanciare una proposta.

"Basterebbe - dicono - che il Ministero della Giustizia risolvesse l’inutile contratto milionario siglato nel 2001 con la Telecom a proposito di braccialetti elettronici (sono stati acquistati 400) noleggiati e mai utilizzati, pari a un investimento di 11 milioni all’anno fino al 2011, per recuperare il sapone e quant’altro manca non solo a Porto Azzurro - concludono i volontari che operano all’interno delle istituzioni carcerarie - ma anche in tutti gli istituti italiani per mantenere il necessario decoro".

Rimini: 12 detenuti in 12 mq e in progetto un nuovo padiglione

 

Dire, 25 marzo 2010

 

Un nuovo padiglione in grado di ospitare fino a 400 detenuti. È questa l’ipotesi di ampliamento di cui può beneficiare il carcere Casetti di Rimini, a sua volta alle prese con problemi di capienza. Del progetto si è parlato questa mattina durante la visita al Casetti di una delegazione guidata dal senatore del Pdl Filippo Berselli, presidente della commissione Giustizia al Senato, nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulle case circondariali italiane.

A Rimini l’amministrazione penitenziaria dispone di un’area edificabile di un ettaro e mezzo (oggi include due campi da tennis ed uno da calcio ormai in disuso) che potrebbe essere inserita nel Piano carceri; il quale, come ha ricordato Berselli, privilegia proprio l’ampliamento di strutture esistenti rispetto alla nuove costruzioni. Il progetto sul nuovo padiglione alleggerirebbe anche altre carceri della regione come quelle di Bologna, Modena (dove domani sarà in visita la delegazione) e Parma.

Intanto, al Casetti si programma di inaugurare entro l’estate il nuovo reparto Cassiopea per i detenuti tossicodipendenti, costato 1,2 milioni di euro per un totale di 50 posti. Il collaudo è già cominciato. "Verrà costruito secondo i criteri previsti dal regolamento penitenziario, con bagno, doccia e angolo cottura in cella. Sarà a custodia attenuata e a trattamento avanzato. Si tratta di un progetto pilota, unico in Italia, un modello che ci auguriamo possa essere esportato anche in altre realtà", ha osservato nel corso del sopralluogo mattutino il segretario generale aggiunto del sindacato autonomo Sappe, Giovanni Battista Durante.

Nel frattempo si continua a fare i conti, anche nel carcere di Rimini, con i disagi. Oggi i detenuti ai Casetti sono 207 su una capienza di 105: ci sono stanze da 12 metri quadrati per 4 persone che ne ospitano fino a 12, mentre altre 18 sono state sistemate nella sala di socializzazione. "Le direttive europee prevedono che ogni detenuto debba avere a disposizione 7 metri quadrati. Un esempio, quello visto a Rimini, non dissimile dai Paesi del terzo mondo. Vediamo cosa succederà con l’approssimarsi della stagione estiva, quando i detenuti a Rimini raddoppieranno a causa dell’incremento esponenziale della popolazione", ha proseguito Durante.

Berselli, stamane in compagnia dei colleghi riminesi ex An Gioenzo Renzi e Oronzo Zilli (candidato al Consiglio regionale e vice coordinatore provinciale del Pdl), non molla: "Il Piano carceri consentirà la costruzione di nuovi padiglioni detentivi, nelle strutture già esistenti, tra queste cercherò di fare inserire anche Rimini. Inoltre - ha detto il senatore del Pdl - mi impegno per far venire in città il ministro Alfano e il capo del dipartimento Ionta in occasione dell’inaugurazione del nuovo reparto Cassiopea".

Rimini: l'Associazione Papa Giovanni; più fondi per il recupero

 

Dire, 25 marzo 2010

 

Più di 140 detenuti comuni accolti in cinque anni, con una recidiva che si abbassa dall’80% al 10%. Questi i risultati nell’azione del recupero dei carcerati ottenuti alla "Casa madre del perdono", nel riminese. Lo riporta oggi l’associazione Papa Giovanni XXIII, che si rivolge al ministero per chiedere, piuttosto che nuove carceri, un riconoscimento alla struttura.

La stessa "Casa madre", intanto, è stata inserita nel percorso del primo pellegrinaggio "Fuori le sbarre" in programma dopodomani. Si partirà dal piazzale del carcere di Rimini per proseguire verso il santuario della "Madonna di Bonora" a Montefiore Conca: circa 35 chilometri, facendo tappa, oltre che alla "Casa madre", anche ad altri santuari e realtà d’accoglienza.

Proprio nel giorno in cui il presidente della commissione Giustizia del Senato, Filippo Berselli, ha fatto visita al carcere riminese assicurando il proprio impegno per l’ipotesi di nuovo padiglione da 400 posti e per il reparto destinato ai detenuti tossicodipendenti entro l’estate, l’associazione rivolge un appello al ministro Angelino Alfano. "Noi riteniamo che la vera emergenza sia educativa. Chiediamo al ministro Alfano di sostenere le realtà che si impegnano sul piano educativo anche con un riconoscimento economico. Affinché - chiude la Papa Giovanni XXIII - invece di costruire carceri nuove ci si impegni tutti insieme a formare uomini nuovi".

Lodi: il carcere non è un contenitore di tutti disagi della società

 

Il Cittadino, 25 marzo 2010

 

"Il carcere non deve essere considerato come contenitore di tutti i disagi della società e come soluzione generale a questi", afferma Stefania Mussio, direttrice della casa circondariale di Lodi, invitata dall’Ucid (Unione cristiana imprenditori dirigenti) e dal suo presidente Walter Rasini al Circolo di lettura e ricreazione di via XX Settembre.

Dietro alla gestione dell’istituto penitenziario si trova il tentativo di rispettare la Costituzione che include, accanto alla dimensione espiatoria della pena, il reinserimento del detenuto nella società: "Bisogna tenere a mente che il 70 per cento dei carcerati in Italia sono imputati in fase processuale e perciò considerati presunti innocenti", spiega la direttrice che aggiunge: "Ora si prevede la reclusione anche per i ragazzi che si ubriacano e per gli sciatori indisciplinati, ma la severità della pena non è la risposta al problema perché queste persone, all’uscita dal carcere, commetteranno gli stessi errori".

Il tasso di recidiva del reato nel nostro Paese rimane infatti molto alto e l’effetto della sola reclusione, non accompagnata dalla trasmissione di valori positivi e rieducativi, porta i detenuti a incattivirsi. Arrestati nella maggior parte dei casi per reati connessi alla droga, questi ultimi hanno mediamente tra i 25 e i 35 anni e, una volta scontata la pena, hanno perciò molto tempo da vivere nella realtà esterna. A mancare loro saranno però gli strumenti per affrontarla in maniera diversa e migliore.

"Quello che cerchiamo di fare qui a Lodi è restituire valore al male più grande che, per me, è la privazione della libertà di un uomo, offrendo ai detenuti momenti di normalità ai quali potranno attingere una volta fuori. Perché tutti, prima o poi, escono". Se ogni istante della giornata di un carcerato fa parte di un rigido programma, operatori e volontari della casa circondariale di Lodi cercano di organizzare occasioni di espressione personale, dal semplice ascolto da parte del cappellano dell’istituto all’insegnamento di un mestiere.

"Finalmente i nostri detenuti smettono di parlare di sé, di sentirsi vittime del sistema e incominciano a interessarsi agli altri". Alla soddisfazione per i risultati positivi raggiunti nella nostra città, si unisce però la consapevolezza che in Italia non ci sono sufficienti investimenti nel reinserimento sociale: nel carcere di Opera, ad esempio, per 1.300 carcerati ci sono soltanto 6 educatori e tale sproporzione rende impossibile una riabilitazione adeguata.

"Il 94 per cento degli abusi - conclude Stefania Mussio - avviene in famiglia, ma per i responsabili, persone con evidenti problemi psicologici, è previsto il trattamento in carcere con i detenuti mafiosi". Al di là dello scarso numero di professionisti, la riabilitazione non appare quindi mirata a rieducare i detenuti nelle loro specificità.

Monza: la Polizia Penitenziaria è "Cavaliere dei diritti umani"

 

Adnkronos, 25 marzo 2010

 

Il Reparto di Polizia penitenziaria di Monza è stato insignito dell’onorificenza "Cavaliere dei Diritti Umani". Ne dà notizia Eugenio Sarno, segretario generale della Uil Pa Penitenziari, spiegando che il riconoscimento, conferito domenica scorsa presso la sede della Lega Internazionale dei Diritti dell’Uomo, è stato attribuito al Reparto a seguito dei fatti accaduti nel penitenziario monzese il 21 dicembre 2009, quando un detenuto appiccò un incendio alla propria cella. "La combustione del materasso e del cuscino provocò la propagazione di fumi ed esalazioni tossiche. L’immediato e provvidenziale intervento di agenti penitenziari scongiurò conseguenze gravissime per la restante popolazione detenuta", sottolinea Sarno.

"Evidentemente il coraggio e la professionalità dimostrati nella circostanza dalla polizia penitenziaria - aggiunge - hanno trovato attenzione e rispetto anche oltre le mura del carcere. Mi piace sottolineare e ricordare come quegli agenti appena dimessi dall’ospedale, dove furono ricoverati per i sintomi di intossicazione da fumo, rifiutarono il prescritto riposo medico di 10 giorni riprendendo immediatamente l’attività lavorativa, nella consapevolezza che la loro assenza avrebbe ingenerato gravi disservizi sull’organizzazione dell’intero carcere. Non possiamo,quindi, che ribadire la nostra gratitudine e il nostro vivo apprezzamento a tutti loro".

Pesaro: agente accusato per spaccio droga, truffa e corruzione

 

Corriere Adriatico, 25 marzo 2010

 

Un caso giudiziario investe la Casa Circondariale di Pesaro e l’operato di un assistente capo della polizia penitenziaria, accusato di spaccio di droga, truffa e corruzione. I carabinieri di Pesaro hanno arrestato l’assistente capo della polizia penitenziaria del carcere di Villa Fastiggi, M.D.P., 39 anni, residente a Pesaro ma di origini baresi, sorpreso in una zona isolata, fuori dal carcere, poco dopo che la cessione di una dose di cocaina.

Il poliziotto, interrogato dal giudice per l’indagine preliminare, Lorena Mussoni, avrebbe sostanzialmente ammesso lo spaccio, negando però che l’attività sia avvenuta all’interno del penitenziario. Ma l’episodio di spaccio non esaurisce i guai del poliziotto. L’assistente capo è accusato anche di truffa, perché avrebbe usufruito illecitamente di un permesso sindacale. L’accusa più grave riguarda il reato di corruzione. La procura, a questo proposito, ipotizza che il poliziotto possa essersi fatto pagare - con dosi di cocaina o soldi o altri tipi di favori - dai detenuti, che gli chiedevano a loro volta di chiudere un occhio per aggirare i vincoli di alcuni regolamenti interni. Alle indagini hanno partecipato anche gli agenti della stessa polizia penitenziaria ma la vicenda ieri ha creato una certa fibrillazione sindacale quando la notizia dell’arresto e dell’inchiesta della procura si è diffusa.

Bollate: colletta per terremotati Haiti, i detenuti si auto-tassano

 

Redattore Sociale, 25 marzo 2010

 

Il dramma del terremoto che ha sconvolto Haiti e le immagini dei tanti bambini rimasti orfani hanno fatto scattare una gara di solidarietà tra i detenuti del carcere di Milano-Bollate. "La quasi totalità dei detenuti si è auto-tassata. Il dramma del terremoto che ha sconvolto Haiti e le immagini dei tanti bambini rimasti orfani hanno fatto scattare una gara di solidarietà tra i detenuti del carcere di Milano-Bollate. "La quasi totalità dei detenuti si è auto-tassata per sostenere la colletta", racconta Viviana Brinkmann, direttrice del periodico "Salute InGrata". Piccole donazioni, compatibilmente con le condizioni di vita e la disponibilità economiche dei detenuti, sono arrivate da 1.080 ristretti di Bollate e sono state devolute a Medici senza frontiere.

Immigrati: dall’inferno alla Sicilia, le voci di un popolo in fuga

di Francesco Viviano

 

La Repubblica, 25 marzo 2010

 

Sono morti che camminano. È gente alla quale hanno strappato anche l’anima e che sopravvive sperando in un miracolo. Soffrono d’insonnia, hanno frequenti incubi, la loro mente è affollata di pensieri di morte e sensi di colpa. Sono "extracomunitari" sopravvissuti alle torture, alle traversate del deserto e del mare, che in questi anni hanno raggiunto Lampedusa o altri approdi siciliani.

I loro drammi, le loro storie, le foto con le ferite provocate dai loro carnefici in Nigeria, in Libia, in Somalia, nello Sri Lanka, sono raccolti nei dossier degli ambulatori siciliani che, tra mille difficoltà, sono riusciti a farli parlare. Queste persone sono state incarcerate, incatenate, fustigate. Le donne, violentate davanti ai loro bambini che spesso sono morti senza che loro potessero aiutarli. Un inferno, un calvario che ancora continua. Ecco le loro storie.

O. S. è nata in Nigeria, a Uga, nel 1985, ed è giunta a Lampedusa l’8 settembre del 2008. Quando è arrivata sembrava un fantasma. Non era soltanto stremata dal lungo viaggio in mare su un gommone con altri 40 disperati. Non ragionava per quel che aveva vissuto. "Sono fuggita dalla Nigeria perché ero minacciata dalla famiglia di un uomo che era stato ucciso da mio marito, che era fuggito e di cui non ho avuto mai più alcuna notizia. Così nell’agosto del 2008 ho lasciato la Nigeria insieme a mia figlia di 4 anni. Durante il tragitto nel deserto tra il Niger e la Libia sono stata fermata da un gruppo di uomini che mi hanno aggredita e stuprata ripetutamente, davanti a mia figlia. Durante la violenza mi hanno anche ferita con un coltello".

"La paziente - scrive il medico nella sua cartella - non riesce a descrivere gli eventi legati alla morte della figlia nel deserto: ricorda che si era ammalata durante il cammino e che è stata picchiata dagli stupratori poiché piangeva e dava "fastidio"". "Ho paura di avere contratto malattie veneree e di non potere avere più figli", dice ancora la donna. "La Sig.ra O. S. - di nuovo la cartella clinica - presenta importanti conseguenze dei traumi psicologici e fisici subiti. La morte traumatica della piccola figlia durante la fuga aggrava la condizione di smarrimento e di terrore in cui versa tuttora la paziente. O. S. soffre di insonnia, mutismo, inappetenza, disfagia; tale sintomatologia clinica è accompagnata da ricorrenti pensieri di morte, di inutilità della propria esistenza, di colpa nei confronti dei propri familiari rimasti nel loro paese".

D. T. B. è nato in Eritrea il 14.7.1974. Nel giugno del 2000, alla fine della guerra contro l’Etiopia (iniziata nell’aprile del 1998, e durante la quale aveva combattuto) è stato arrestato. "Sono stato spogliato dei miei vestiti e rinchiuso in una stanza piccola e molto calda, non c’era luce né servizi igienici. L’isolamento è durato 5 giorni, poi mi hanno condotto in un’altra stanza dove si trovavano 4 militari che mi hanno messo la testa dentro un recipiente colmo di escrementi umani minacciandomi di morte. Questo trattamento si è ripetuto ogni 3 giorni, io ero sempre in isolamento e all’oscuro di quale fosse l’accusa. Non ricordo per quanto tempo sia durata questa prigionia, in quei giorni non riuscivo a capire nulla, avevo delle infezioni provocate dagli escrementi nella gola e sono diventato quasi cieco. Sono stato poi condotto in una stanza sotto terra dove dei militari mi hanno fatto firmare un foglio su cui mi hanno fatto confessare di essere una spia etiope. Mi hanno colpito ripetutamente con un bastone al volto, al naso, sulla testa, anche con un sacchetto di sabbia pieno di pietre". "I mesi di reclusione successivi vengono definiti dal paziente come infernali - scrive il medico nella cartella di D. T. B. -.

Il detenuto è riuscito a fuggire dalla prigione il giorno in cui per la prima volta i detenuti erano stati condotti fuori cella; egli stesso considera miracoloso il fatto di non essere stato catturato e ucciso. A piedi ha poi raggiunto il confine con il Sudan, e da lì è giunto fino a Karthoum (15.10.2000), dove si è fermato per circa 1 anno prima di partire per la Libia con la moglie. Qui la moglie, al 3° mese di gravidanza, è stata catturata dalle autorità libiche (verosimilmente a causa della croce tatuata sulla fronte) e da allora non se ne hanno più notizie. D. T. B è giunto in Italia il 28.10.2003".

S. J. è nata ad Harare, nello Zimbawe il primo luglio del 1986. "Mia madre era nigeriana e all’età di 6 anni ci siamo trasferiti con parte della famiglia in Nigeria, nel suo villaggio natale. Da allora non ho avuto più notizie di mio padre, che era un militare dello Zimbawe.

Ho avuto una bambina dalla relazione con un uomo politico dell’etnia Shakiri, appartenente al People Democratic Partry. Il nostro matrimonio è stato violentemente ostacolato dalla famiglia del mio ragazzo, in quanto io appartenevo ad un’altra etnia, quella degli Urobo. Fui costretta a fuggire in un altro villaggio, durante la gravidanza, perché minacciata dai familiari del mio ragazzo, ma fui ritrovata e sequestrata. Sono stata tenuta prigioniera per circa un mese: durante i giorni di prigionia sono stata picchiata e maltrattata quotidianamente, perché volevano sapere dove s’era nascosto loro figlio, ma io non lo sapevo.

Sono poi riuscita a fuggire e ho lasciato il mio Paese. Sono rimasta ad Agadez, in Niger, per circa un anno, lavorando in un mercato, ma sono dovuta scappare di nuovo perché mi volevano costringere a prostituirmi. Ho raggiunto Dukru, dove sono stata sequestrata da militari e stuprata più volte, poi mi hanno portato in Libia a bordo di un camion. Mi hanno abbandonata per strada, dove sono stata intercettata dalla polizia libica. E qui nuovamente violentata e arrestata perché non avevo documenti. Dopo una settimana di carcere a Tripoli mi hanno mandataa lavorare come cuoca per il proprietario di una delle navi che trasportano clandestini. Dopo due mesi di lavoro mi sono imbarcata su un gommone e ho raggiunto Lampedusa". Nel 2008 S. J. ha avuto accolta la sua richiesta di asilo politico. Le sue condizioni stanno migliorando.

A. H. è nato in Liberia il 6.2.1958. Ha il volto sfigurato, deturpato dalla soda caustica che i suoi carcerieri gli hanno tirato in faccia. "Sono stato catturato nel giugno del 1998 nella capitale liberiana dalla Atu (Anti Terrorist Unit) per aver distribuito e affisso poster riguardanti gli abusi dei diritti umanitari nel mio paese. Fui accusato di danneggiare la sicurezza dello stato e dopo 5 giorni di interrogatori e di sevizie sono stato colpito al volto con una sostanza liquida caustica. Ho ripreso conoscenza dopo qualche giorno nell’ospedale S. Joseph di Monrovia, dove sono rimasto ricoverato per circa 7 mesi, sottoponendomi a diversi interventi chirurgici ricostruttivi.

Nel luglio 2002, dopo aver militato nel Lurd (Liberia United for Restoration of Democracy), sono arrestato nuovamente dai militari e tenuto prigioniero fino al2 giugno del 2003, data in cui sono riuscito a scappare durante un controllo sanitario in ospedale. I miei familiari ed alcuni amici hanno poi raccolto del denaro e sono riuscito a raggiungere l’Italia, attraverso la Libia, il 15 giugno del 2007".

Droghe: le Comunità per tossicodipendenti, in crisi economica

di Giulia Cerino

 

La Repubblica, 25 marzo 2010

 

 

Grido d’allarme di Villa Maraini e della Saman. "Le Regioni pagano con enorme ritardo. Per il 2009 non è ancora arrivata una lira, mentre per il 2007-2008, gli operatori aspettano ancora 100mila euro dal ministero di Giustizia".

Colpa dei ritardi e delle lungaggini amministrative. Ma è anche colpa della politica. Le comunità che combattono la tossicodipendenza sono al verde perché le Regioni esitano a pagare le rette. È questo il grido d’allarme lanciato dalle comunità terapeutiche Fondazione Villa Maraini, storico centro antidroga romano e dalla Saman, l’associazione laica no profit che opera nel settore del recupero dei tossicodipendenti, a livello locale e nazionale.

Degli oltre 67mila detenuti nelle carceri italiane il 25 per cento sono tossicodipendenti. Per loro, l’accesso a misure alternative alla detenzione riguarda soltanto un condannato su sei. Perché? "Riceviamo il pagamento delle rette con enorme ritardo" - spiega Massimo Barra, fondatore di Villa Maraini. L’ammontare delle rette giornaliere è di 27,90 euro. Una cifra stabilita dal ministero della Giustizia prima della riforma regionale. E con il passaggio di competenze dalle Regioni e alle Asl, le cose non sono migliorate affatto. Ventisette euro e novanta al giorno per ogni tossicodipendente. Una somma che però non copre né le notti di lavoro né i giorni festivi. Non basta. Nonostante la cifra bassissima, di questi soldi non c’è ancora traccia. E infatti, "per il 2009 - spiega Achille Saletti, presidente dell’associazione Saman - non è ancora arrivata una lira, mentre per il 2007.2008, gli operatori aspettano ancora 100mila euro dal ministero di Giustizia".

Colpa della burocrazia. Mediamente le rette vengono pagate a uno-due anni di distanza. Il meccanismo è sempre lo stesso. "Il processo - spiega Saletti - è triangolare: per il servizio che noi forniamo, su commissione della Regione Lazio, le banche sanano il credito che i nostri centri di recupero maturano con le Asl. Poi sono le banche a recuperare gli importi dalle Asl stesse. Sulle cifre di denaro a noi destinate, però, gli istituti di credito trattengono degli interessi. Su 100 a noi arriva 97". Un meccanismo, questo, che va avanti da almeno tre anni a causa del debito che le Asl del Lazio hanno nei confronti dei centri di recupero.

Di più. A confermare che in Italia, "ci sono molti più drogati in carcere che non nelle comunità" sono le procedure amministrative che un condannato deve seguire per essere trasferito. Come funziona? "Il centro dà la disponibilità e, sulla base del numero massimo di posti letto che abbiamo (numero stabilito dalle Asl stesse) il detenuto - chiarisce il presidente della Saman - può fare richiesta di trasferimento. Dopo di che, viene messo sotto osservazione dal servizio alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni che certifica lo status di tossicodipendente del detenuto. Infine la valutazione di idoneità. A quel punto il servizio dovrebbe fornire un nulla osta in tempi rapidi". Ma così non avviene. E infatti, le comunità terapeutiche, dopo aver dato la disponibilità, sono costrette ad attendere ancora. "Spesso - conclude Saletti - le camere restano riservate ma i posti letti rimangono vuoti anche fino a 40 giorni".

Burocrazia, ma non solo. "Questo - aggiunge Saletti - è un problema che investe tutte le comunità di recupero. Da Roma in giù. Il Lazio, con la Puglia, è la Regione che fornisce meno sussidi in assoluto. A darci il denaro sono le Asl, è vero, ma dipende tutto e soprattutto dalla Regione che equipara i nostri centri a dei fornitori normali: alle grandi case farmaceutiche o ai gruppi come quello di Angelucci".

Quanto servirebbe? "In media avremmo bisogno di 60-70 euro al giorno per tossicodipendente - dice Saletti - Questo perché, oltre alla cura della dipendenza stessa, si tratta di uomini che hanno bisogno di mangiare, di dormire, di assistenza socio-sanitaria e di ogni genere di conforto indispensabile per attenuare l’astinenza. E invece, negli ultimi mesi abbiamo lavorato gratis".

Anche la politica ci mette lo zampino: "Invece di costruire carceri - sottolinea ancora il presidente della Saman - la politica potrebbe intervenire sull’amministrazione, rendere i passaggi burocratici più rapidi, finanziare i centri di recupero, spostando i tossicodipendenti dalle carceri alle comunità". E invece, in Italia nel 2007, erano 24.371 i tossicodipendenti in carcere e solo 16.433 quelli in comunità.

Usa: California; un deficit alle stelle e lo Stato svuota le prigioni

 

La Stampa, 25 marzo 2010

 

Arnold Schwarzenegger ridimensiona la popolazione carceraria della California per tentare di rimettere in sesto un bilancio statale appesantito da 20 miliardi di dollari di debiti. Nei 33 penitenziari statali sono rinchiusi 167 mila detenuti con conseguenti spese per 8 miliardi di dollari, pari all’11 per cento dell’intero bilancio. L’intento è di ridurre i carcerati di 6.500 unità entro il primo gennaio prossimo, al fine di abbassare i costi di manutenzione, alimentazione e personale di guardia. Senza contare che alcune strutture carcerarie sono oramai inadatte a ospitare una quantità di detenuti in eccesso, com’è il caso di un penitenziario a Nord di Los Angeles dove si trovano circa 4.600 detenuti là dove ne starebbero solo la metà.

Incalzato da conti in rosso e problemi di sovraffollamento, il governatore repubblicano ha firmato la legge del Congresso di Sacramento - saldamente controllato dai democratici - che rende possibile la liberazione di 6.500 carcerati grazie a un doppio meccanismo di intervento: da un lato viene modificato il metodo con cui si calcola la permanenza in carcere, in maniera da consentire una più rapida liberazione di chi sta completando programmi di rieducazione o di emancipazione dalla dipendenza da stupefacenti, dall’altro cambia la gestione dei detenuti in libertà vigilata. Se le carceri traboccano, infatti, lo si deve in gran parte a un controllo capillare su chi esce in libertà vigilata, con singoli agenti che seguono ogni detenuto e lo fanno rientrare in carcere appena commette una minima infrazione dei regolamenti che si è impegnato a rispettare.

La nuova legislazione prevede un drastico taglio al numero di questi "agenti controllori" con l’obiettivo di ridurre la sorveglianza, scongiurando così la possibilità che presto in molti tornino dietro le sbarre. A questi "agenti controllori" vengono assegnate nuove mansioni, con un maggiore impegno verso i "crimini più gravi".

La riduzione di 6.500 detenuti è già cominciata e Schwarzenegger non esclude la possibilità di varare ulteriori provvedimenti per abbassare ancora i costi. Fra gli scenari presi in considerazione ci sono la costruzione di prigioni in Messico per detenere gli immigrati clandestini colpevoli di reati minori, l’affidamento di alcuni penitenziari alle società private e la copertura sanitaria dei detenuti all’Università della California.

Il problema più grave sta nel fatto che alcuni detenuti liberati in forza della nuova legge sono subito tornati a delinquere, come un uomo scarcerato a Sacramento che pochi giorni dopo ha commesso una violenza carnale. Sono i sindacati di polizia a denunciare il rischio di "un’ondata di crimini" per effetto delle scarcerazioni in massa, spingendosi ad adire le vie legali per tentare di bloccare l’iniziativa di Schwarnegger. Ma Matthew Care, responsabile dei penitenziari della California, va avanti lungo la strada prescelta puntando a ridurre il costo delle detenzioni - 47 mila dollari l’anno per ogni carcerato - per risparmiare almeno 100 milioni di dollari nel corso di quest’anno. La vicenda ha anche un risvolto politico perché il braccio destro del governatore in questa operazione è il procuratore generale Jerry Brown, candidato con i democratici proprio a succedere a Schwarzenegger.

Tunisia: Human Rigths Watch; vessazioni contro gli ex detenuti

 

Ansa, 25 marzo 2010

 

Le autorità tunisine hanno impedito a Human Rigths Watch di tenere una conferenza stampa prevista per domani a Tunisi sulle pressioni usate contro gli ex detenuti politici. La denuncia è pubblicata sul sito dell’organizzazione per i diritti umani HRW.

Secondo Sarah Leah Whitson, direttrice di HRW per il Medio Oriente, il ministro delle Comunicazioni Oussama Romdhani ha motivato il rifiuto con il danno che avrebbe portato all’immagine della Tunisia. Anche gli alberghi dove dovevano alloggiare esponenti dell’organizzazione hanno revocato le prenotazioni.

Nel rapporto di 42 pagine intitolato "Una prigione allargata" HRW denuncia una serie di misure repressive, spesso arbitrarie, contro gli ex detenuti, come lo stretto controllo dei loro movimenti, il ritiro dei passaporti, le minacce di un nuovo arresto, le restrizioni alla libertà di movimento.

"Una volta liberati agli ex detenuti non è consentita una vita normale - ha detto Wihtson - le autorità li costringono a vivere in una prigione all’aria aperta". Secondo HRW molti di essi non riescono più a trovare un lavoro, diventando paria sociali o sono sottoposti a vessazioni di ogni tipo come il ritiro dei passaporti che, in alcuni casi, sono stati restituiti dopo 10 anni. L’organizzazione chiede al governo di Tunisi di rispettare i loro diritti e di stabilire un meccanismo perché siano esaminate le denunce degli ex detenuti.

Le autorità tunisine hanno ribattuto che "il rapporto di HRW contiene una serie di menzogne e di affermazioni fabbricate miranti a indurre in errore l’opinione pubblica sull’argomento dei diritti dell’uomo in Tunisia". Ed hanno sottolineato, riferisce l’agenzia France Presse, che in Tunisia "il trattamento di tutti gli ex detenuti è conforme alla legge e molti tra loro hanno beneficiato di provvedimenti di grazia e di riduzione delle pene che hanno portato alla loro liberazione". Le autorità tunisine, nel loro comunicato, hanno denunciato i "comportamenti provocatori" di una delegazione di HRW attualmente a Tunisi. La delegazione "accolta dalle autorità ed "autorizzata ad intrattenersi con persone di sua scelta", afferma ancora il comunicato, ha dato prova di "mancanza di rispetto alle leggi del Paese e alla sua sovranità".

 

 

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