Rassegna stampa 20 marzo

 

Giustizia: un altro caso Cucchi… forse peggio del caso Cucchi

di Luigi Manconi (Associazione A Buon Diritto)

 

L’unità, 20 marzo 2010

 

Un altro caso Cucchi, forse peggio del caso Cucchi. Questo è il primo pensiero che viene quando ci si trova a dipanare la vicenda di violenza e di morte di Giuseppe Uva, 43 anni, per quasi tre ore in balia di un gruppo di carabinieri e poliziotti all’interno di una caserma, nella città di Varese. Violenze, forse sevizie e, poi, il Trattamento sanitario obbligatorio (Tso) nel reparto di psichiatria di un ospedale varesino: qui, a Uva fermato in stato di ebbrezza vengono somministrati farmaci che ne determinano la morte. Responsabilità gravissime delle forze dell’ordine e responsabilità di medici, quest’ultimi non sappiamo se incompetenti o semplicemente criminali.

Come associazione A Buon Diritto portiamo a conoscenza dell’opinione pubblica questa vicenda, a poche ore di distanza dalla notizia che un altro caso di morte in carcere rischia di venire insabbiato. La procura di Livorno ha chiesto l’archiviazione del procedimento sulla fine di Marcello Lonzi, trovato cadavere nella sua cella, con evidenti segni di violenze sul corpo, incredibilmente attribuiti da periti superficiali e magistrati frettolosi a una "caduta accidentale". Si può notare, in primo luogo, che ad avvicinare tre storie tanto simili c’è un ulteriore dato: compare sempre una figura di donna, sorella o madre - Ilaria, Lucia, Maria - che, sola, riesce a rompere il muro del silenzio, facendo del proprio dolore privato un’occasione di denuncia pubblica.

E questo fatto, proprio per la forza primaria che esprime, evidenzia la debolezza di chi - invece - non interviene e non urla: innanzitutto, la politica. Che dovrebbe avere a cuore la tutela dei diritti del più debole (tossicomane, immigrato, detenuto), nella consapevolezza che la lesione delle tutele per quest’ultimo produce la riduzione delle garanzie per tutti. C’è, poi, un problema grande come una casa. il nostro è uno stato di diritto, dove le forze dell’ordine hanno giurato fedeltà alla Costituzione e hanno conquistato, faticosamente e contraddittoriamente, una coscienza democratica.

Le forze dell’ordine, oggi, sono "forze democratiche" in genere rispettose della legge: ma - al loro interno - resistono e si riproducono zone segnate da forti pulsioni autoritarie e da tendenze alla sopraffazione e, in determinate circostanze, al sadismo.

Lo si è visto, sciaguratamente, nel corso dei fatti del G8 di Genova, nel 2001, e lo si vede (ma più spesso lo si intuisce o lo si teme) qua e là, in una caserma, in un centro di identificazione ed espulsione, nella cella di un carcere. Per combattere quelle tendenze contenerle e infine eliminarle, si deve partire da qui: dalla verità su Stefano Cucchi, Marcello Lonzi e Giuseppe Uva.

Mi piacerebbe che qualcuno (almeno qualcuno) tra quanti oggi partecipano alla manifestazione del centrodestra condividesse questa denuncia. O davvero si pensa che una "giustizia giusta" possa difendere il forte e il potente, chi dispone di risorse e di tutele, e non debba prioritariamente curarsi, con la massima sollecitudine, di chi è privo di qualunque protezione?

 

La cronaca della vicenda

 

Giuseppe Uva e Alberto Biggiogero vengono fermati in stato di ebbrezza verso le 3 di mattina di sabato 14 giugno 2008 da una volante dei carabinieri, mentre spostano alcune transenne bloccando l’accesso a una strada del centro di Varese.

Uno dei due carabinieri all’interno della volante riconosce Uva, lo chiama per nome e inizia a inseguirlo mentre questo tenta la fuga. Alberto Biggiogero cerca di correre in aiuto di Uva, richiamato dalle grida di questo, per impedire al carabiniere di colpire l’amico. L’altro carabiniere, che guidava l’auto, lo immobilizza e gli impedisce di intervenire. Poco dopo sopraggiungono due volanti della polizia di stato, Biggiogero verrà spinto a forza in una di queste, Giuseppe Uva verrà invece costretto in quella dei carabinieri. Le tre macchine arrivano nella caserma dei carabinieri verso le 3.30 (i quattro agenti delle due volanti di polizia vengono raggiunti dall’altra volante in servizio quella notte, tutti e sei i poliziotti restano in caserma per le successive due ore fino a quando Uva non verrà trasportato in ospedale, saranno due di loro, tra l’altro, ad accompagnare in ambulanza Uva al pronto soccorso, secondo una procedura del tutto anomala).

I due amici vengono separati, Biggiogero resta in una stanza collocata a sinistra dopo il portone d’accesso alla caserma, controllato a vista da poliziotti e carabinieri. Da lì sente chiaramente le urla dell’amico provenienti da un’altra stanza, posta probabilmente sulla destra del corridoio, per un lunghissimo lasso di tempo. Grida ai presenti di smetterla di "massacrare" l’amico e viene minacciato di subire la stessa sorte.

Verso le quattro del mattino, approfittando degli attimi in cui viene lasciato solo, chiama con il proprio cellulare il 118, chiedendo l’intervento di un’ambulanza in caserma perché lì era in corso un massacro. L’operatore del 118 dice che manderà un’ambulanza, dopo due minuti chiama in caserma per accertarsi che ci sia veramente bisogno dell’intervento del mezzo, riferendo di essere stato contattato da un signore che denunciava un pestaggio all’interno della caserma. Il carabiniere che ha risposto al telefono lo fa attendere in linea per verificare, al suo ritorno all’apparecchio dice che si tratta di due ragazzi ubriachi e che ora si sarebbero occupati di toglier loro il telefonino (la trascrizione delle due telefonate è agli atti e disponibile).

Biggiogero fa anche in tempo a chiamare il padre e chiedergli di venirlo a prendere prima che il cellulare gli venga portato via. Biggiogero dichiara, poi, di non aver sentito le sirene dell’ambulanza ma che dopo circa 20 minuti dalla sua telefonata si è presentato in caserma un uomo in impermeabile con una valigetta che viene indicato come "il dottore". Nel frattempo arriva anche il padre di Biggiogero che riuscirà a portare a casa il figlio e si dice disposto a portare personalmente Uva al pronto soccorso.

I carabinieri diranno che non ce n’è bisogno in quanto l’arrivo del medico è sufficiente. Alle 5 del mattino (presumibilmente mezz’ora dopo che Biggiogero e il padre uscivano dalla caserma) una telefonata dei carabinieri alla guardia medica richiede un’ambulanza e dice che alla persona fermata deve essere effettuato un Tso. Uva viene trasferito quindi al pronto soccorso dell’ospedale di Circolo, dove viene richiesto il Tso e così, dopo circa due ore (verso le 8.30 del mattino), Uva viene trasferito nel reparto psichiatrico presso lo stesso ospedale. Due ore dopo viene constatato il decesso per arresto cardiaco.

Dagli esami tossicologici risulta che gli sono stati somministrati dei farmaci, inequivocabilmente e tassativamente controindicati in caso di assunzione di alcol. L’arresto cardiaco è stato provocato da questo "errore". La testimonianza del Comandate del posto fisso della polizia di stato ubicato presso il pronto soccorso dell’ospedale di Circolo riporta alcune affermazioni estremamente significative.

La prima: si è venuti a conoscenza della morte di Uva in ritardo "pur non trattandosi come si evince dall’allegato referto medico di evento non traumatico" (si legga: è stato un evento traumatico). La seconda: la salma di Uva giaceva "supina e senza abiti, con la parte ossea iniziale del naso in zona frontale, munita di una vistosa ecchimosi rosso-bluastra, così dicasi per la parte relativa del collo sinistro, le cui ecchimosi proseguivano con discontinuità, su tutta la parete dorsale, lesioni di cui non viene fatta menzione nel verbale medico di accettazione". Il comandante aggiunge: "che non vi è traccia degli slip del de cuius e su chi abbia provveduto alla loro rimozione dal corpo, indumento tra l’altro, neppure consegnato ai parenti (probabilmente perché intrisi di sangue).

E tuttavia non si può sottacere il riscontro obiettivo di pseudo macchie ematiche riscontrate a tergo sui pantaloni poi posti successivamente sotto sequestro unitamente agli altri capi di vestiario con un particolare inquietante riscontrato anche sulle scarpe di stoffa che stanno verosimilmente ad indicare una estenuante difesa ad oltranza dell’uomo effettuata anche con calci". Ciò è evidenziato dal fatto che "la parte anteriore di entrambe calzature destra e sinistra, si presenta vistosamente consumata". L’autopsia è stata fatta in maniere platealmente sbrigativa e parziale, senza gli esami radiologici necessari ad accertare fratture e minimizzando o ignorando l’importanza delle lesioni presenti sul suo corpo, in particolare sul dorso e nella regione anale.

A distanza di 21 mesi dalla morte di Uva l’indagine, trasferita dal primo Pm (Abate), che le aveva dato notevole impulso, a un altro (Arduini), oltre a languire sembra destinata all’inconcludenza: due medici sono indagati, ma per quanto riguarda la responsabilità di coloro che hanno trattenuto illegalmente Uva e lo hanno sottoposto a violenze, si procede contro ignoti.

Giustizia: pestato a sangue in caserma, morto dopo il ricovero

di Rita Di Giovacchino

 

Il Fatto, 20 marzo 2010

 

Una storia come tante. La storia di un pestaggio, all’interno di una struttura di Stato, ad opera di uomini dello Stato. Una storia che anche questa volta si conclude con una vita stroncata in circostanze oscure. Si chiamava Giuseppe Uva, aveva 37 anni, sappiamo solo che è morto come Stefano Cucchi o come Federico Aldovrandi, uno in carcere, l’altro in strada.

Giuseppe all’interno di un ospedale psichiatrico dove è stato accompagnato all’alba del 15 giugno 2008 dagli stessi carabinieri che, per un’intera notte, lo hanno selvaggiamente picchiato all’interno di una caserma di Varese. Questo racconta l’amico che era con lui, forse salvato dall’arrivo del padre. Non è una storia recente, è successo quasi due anni fa, ma si è scoperto soltanto ora, grazie al tam tam dei siti, grazie a una famiglia che non si rassegna e chiede giustizia, grazie anche all’ex deputato Luigi Manconi, Garante dei diritti dei detenuti, che vigila su chi si trova in condizioni di restrizione o inferiorità. Giuseppe non era un drogato, neppure un ladro o un violento.

Era uno come se ne trovano tanti, soprattutto in provincia. Uno che faceva lavori saltuari e la notte gli piaceva andare in giro e qualche volta alzava il gomito. Sono stati gli stessi carabinieri, proprio quella notte, interpellati dal 118, a definire la vicenda per cui è stato fermato "una lite tra ubriachi". Insomma una storia da niente. Niente che giustifichi la tragedia che è seguita. Anche se Giuseppe Uva e il suo amico Alberto Bigiogero, non stavano affatto litigando quando sono stati fermati attorno alle tre di notte da una gazzella. Dice ora Alberto: "Eravamo solo un po’ alticci, per gioco ci siamo messi a spostare delle transenne verso il centro di Varese". Era seguita una certa confusione, qualche automobilista si era messo a suonare il clacson, era arrivata la gazzella dei Carabinieri e poi anche una volante della Polizia.

Uno dei carabinieri conosceva Giuseppe, lo aveva chiamato anche per nome - è sempre l’amico Bigiogero che lo racconta, unico testimone dei fatti - lui si era messo a correre. Raggiunto era stato caricato a forza sull’auto dei carabinieri, mentre Alberto veniva trascinato sulla volante della Polizia.

Racconta ancora l’amico: "Io sono rimasto in una sala d’aspetto guardato a vista da un carabiniere, ma di lì sentivo le grida di Giuseppe che sono andate avanti per molto tempo. Dopo circa un’ora sono rimasto da solo per qualche minuto e ne ho approfittato per chiamare il 118, ho chiesto che mandassero un’autoambulanza perché stavano massacrando qualcuno, stava succedendo un macello. Ho fatto a tempo a chiamare anche mio padre, gli ho detto di venirmi a prendere. Dopo un po’ non ho sentito più Giuseppe gridare. Ero contento, ho pensato che non lo picchiavano più". Invece le cose non stavano così. Forse Giuseppe già agonizzava quando in caserma è arrivata la chiamata del 118 che chiedeva conferma dell’intervento richiesto da Alberto. Quando i carabinieri hanno risposto: "No è solo una lite tra ubriachi, adesso gli togliamo il telefonino".

Alle quattro di notte è arrivato il padre di Bigiogero, poco prima era entrato uno che sembrava un medico con una valigetta: "Aveva gli occhi stretti, sembrava un cinese". Alle cinque di mattina sono stati i carabinieri a chiamare l’autoambulanza: "Venite, abbiamo un Tso". E cioè un trattamento sanitario obbligatorio che, tradotto, vuol dire: "Abbiamo un fermato che dà in escandescenze, bisogna por-tarlo subito presso un ospedale psichiatrico". Ed è lì che la mattina alle 8 è stata convocata la sorella Carmela. Contattata in questi giorni da Maddalena Bolognini, giornalista del Tg3, la prima a portare alla luce questa incredibile storia di violenza, la donna ha raccontato: "Mi avevano telefonato per dirmi che avevano prelevato mio fratello per strada in condizioni atroci, quando sono arrivata nella stanza aveva la testa con sotto quattro cuscini e un lenzuolo, forse russava, faceva un suono strano.

Mi hanno detto: È sedato, non si preoccupi, quando si sveglia ci potrà parlare". Giuseppe non si è più svegliato. "Mezz’ora dopo qualcuno è uscito dalla stanza - racconta ancora Carmela - e mi ha detto: Signora ci dispiace abbiamo fatto di tutto, ma non c’è stato nulla da fare… suo fratello è morto per arresto cardiaco. Era pieno di lividi, aveva un ginocchio gonfio, il viso irriconoscibile. Ma i carabinieri dicevano: Ha fatto tutto da solo: gridava, saltava, si picchiava come un indemoniato". Sono passati due anni, nessuna risposta è stata data alle domande di Carmela. L’unica cosa che si sa è che in procura a Varese c’è un fascicolo aperto con il nome di due medici indagati, grazie alla testimonianza dell’amico Alberto. Un fascicolo che molti hanno fretta di archiviare. Ma oggi sono in tanti a volere sapere come e perché è morto Giuseppe Uva.

Giustizia: Pd; governo faccia chiarezza su morte Giuseppe Uva

 

Il Velino, 20 marzo 2010

 

"Un altro dramma inquietante dopo quelli di Stefano Cucchi e Federico Aldovrandi. La denuncia di Luigi Manconi porta alla luce la morte, in carcere nel giugno del 2008, di un uomo di 43 anni". È quanto afferma Alessandro Maran, vicepresidente dei deputati Pd. "Chiediamo al governo - aggiunge - di sapere cosa sia successo a Giuseppe Uva all’interno della caserma dei carabinieri di Varese e poi all’ospedale di Circolo. Bisogna squarciare qualsiasi velo di omertà nelle istituzioni, soltanto cosi - conclude Maran - i cittadini possono sentirsi sicuri e rassicurati da queste".

Giustizia: morte Marcello Lonzi, procura chiede l'archiviazione

 

Il Tirreno, 20 marzo 2010

 

La Procura della Repubblica ha chiesto l’archiviazione dell’indagine sulla morte di Marcello Lonzi, il detenuto di 29 anni deceduto nel carcere delle Sughere l’11 luglio del 2003. Gli indagati sono due agenti di polizia penitenziaria e il compagno di cella. Il primo è accusato di omicidio preterintenzionale, i secondi di omessa vigilanza. Ora spetta al giudice dell’udienza preliminare decidere se accogliere la richiesta.

La famiglia di Lonzi potrebbe presentare opposizione all’archiviazione, ma Maria Ciuffi, la madre di Marcello, non sembra intenzionata a percorrere questa strada. "Non voglio più avere nulla a che fare con la Procura di Livorno", taglia corto. Lei è da sempre convinta che suo figlio sia stato picchiato fino alla morte dagli agenti della polizia penitenziaria. In questi 7 anni ha lottato perché la magistratura verificasse la sua tesi. Così, dopo la prima archiviazione nel 2004, nel 2006 è riuscita a far riaprire il caso dal pm Antonio Giaconi. Lo stesso che oggi chiede questa seconda archiviazione: la tesi della morte per pestaggio non trova riscontri.

Eppure le foto del corpo di Marcello Lonzi hanno fatto il giro del mondo ed è proprio sulla forza drammatica di queste immagini raccapriccianti che il caso Lonzi, prima di quello di Stefano Cucchi, è divenuto il simbolo delle morti "oscure" in carcere; il volto tumefatto di "Marcellino", accanto a quello di Cucchi e di Federico Aldrovandi è stato il vessillo sotto al quale hanno sfilato a Livorno le famiglie delle cosiddette "vittime di Stato"; Lonzi è divenuto un simbolo per la rete antagonista che da tutt’Italia sta inviando in queste ore messaggi di solidarietà alla madre.

E proprio ieri Maria Ciuffi è intervenuta all’Università di Pisa per parlare di suo figlio, alla discussione sul libro a fumetti "Zona del silenzio" (di Antonini e Spataro, Minimum Fax), sul caso Aldrovandi. La madre di Marcello si dice delusa ma non amareggiata. "Non mi aspettavo niente di diverso - spiega - già da tempo ho smesso di aver fiducia nella giustizia". La signora Ciuffi è convinta che la procura voglia coprire le responsabilità sulla morte. Lo va ripetendo da mesi con un armamentario di parole non equivoche: "omertà" e "insabbiamento".

Il capo della Procura, Francesco De Leo, già in passato aveva avuto modo di rispondere "non siamo qui per coprire le responsabilità di alcuno". L’inchiesta si è avvalsa di tre consulenze medico legali per indagare l’origine delle ferite, praticamente unanimi nello stabilire che Lonzi morì per una crisi cardiaca; che le ferite sul volto sono compatibili con un violento impatto dopo la caduta; e che le fratture al torace sono il risultato dei tentativi di rianimazione.

Giustizia: Pm Ingroia; riaprire isole-carcere, a garanzia 41-bis

 

Adnkronos, 20 marzo 2010

 

"Se l’antimafia fallisce nei suoi obiettivi primari per motivi di spazio non c’è da perdere altro tempo. Bisogna chiedere con forza degli interventi. Non penso a cose particolari, che necessitino una pronuncia legislativa. Basterebbe un provvedimento amministrativo. Penso alla riapertura delle supercarceri di Pianosa e dell’Asinara, che negli anni scorsi hanno garantito il massimo della sicurezza e l’effettività del 41 bis. Già lo stesso ministro della Giustizia aveva prospettato questa eventualità, poi per varie ragioni politiche non si è potuta realizzare". Lo afferma in un’intervista a "la Repubblica" il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia.

La preoccupazione nasce dall’incontro avvenuto nel gennaio scorso, nel carcere milanese di Opera, tra il capomafia stragista Giuseppe Graviano e il capo storico del clan dei Casalesi Francesco Schiavone. Entrambi, nonostante fossero al 41 bis hanno infatti condiviso per diversi giorni l’ora d’aria. È necessario partire da una considerazione spiega Ingroia, "il carcere duro non ha una funzione penalizzante per il detenuto, ma ha solo lo scopo di impedire che il mafioso possa continuare ad essere tale. E questo obiettivo si realizza evitando di fargli pianificare affari e strategie. Ovvero impedendogli di comunicare all’esterno". "Oggi - conclude - è necessario considerare qualcosa di più insidioso, il sistema mafioso integrato. Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra fanno affari insieme. Ecco perché gli incontri in carcere fra esponenti di organizzazioni criminali diverse sono davvero pericolosi".

Lettere: su morte Cucchi tutti reticenti, parlano solo i detenuti

 

La Repubblica, 20 marzo 2010

 

Stamane ho letto con dolore (e un po’ di paura) l’articolo con i primi commenti della famiglia di Stefano Cucchi alla relazione della commissione parlamentare presieduta dal senatore Ignazio Marino. In auto, mentre guido, mi chiedo come sia possibile fidarsi dello stato italiano, quando oggi di fronte a fatti come questi nessun funzionario, nessun ufficiale delle forze dell’ordine, nessuno medico dell’ospedale pubblico dove Cucchi è stato ricoverato, nessun poliziotto, nessun carabiniere, nessun infermiere, nessuno che rappresenti lo Stato si alza in piedi e racconta la verità su quello che è accaduto a quel giovane uomo, morto disidratato con la schiena e l’osso sacro rotti, solo. Hanno testimoniato spontaneamente dei fatti accaduti solo due detenuti.

 

Gabriele Lanzi, di Roma

Calabria: Radicali; riformare il sistema penitenziario regionale

 

www.informazione.it, 20 marzo 2010

 

"Riformare la giustizia e ripristinare la legalità partendo proprio da Reggio Calabria, è questa la missione della Lista Bonino - Pannella". Lo afferma Saverio De Morelli candidato della Lista Bonino Pannella alle elezioni regionali nella circoscrizione di Reggio Calabria, che prosegue: "Legalità non significa giustizialismo, dobbiamo essere pragmatici e individuare i problemi alla radice, adottare ad esempio politiche antiproibizioniste non significa riduzione del danno, ma colpire la criminalità in maniera profonda, bloccare la fonte della loro attività. Purtroppo, viviamo ancora, soprattutto in Calabria, in una situazione di forte disagio legale, d’altronde se si affidano le riforme a una partitocrazia che gode di questo sistema, difficilmente godremo di un vero cambiamento."

Il candidato radicale affronta poi il tema carceri e annuncia per oggi pomeriggio (19 marzo) in Piazza Camagna alle 18,00 una manifestazione non violenta di raccolta firme "per avere certezze riguardo una delle vicende più misteriose e controverse della città di Reggio, il carcere di Arghillà. Non ci interessa a questo punto entrare nel merito di ritardi e d’investimenti non riusciti, vogliamo soltanto che la situazione sia risolta. Con estremo pragmatismo, ancora una volta, ci rivolgiamo al Sindaco, al futuro Governatore di regione e al ministro di Grazia e Giustizia, affinché assumano le istituzioni tutte un impegno formale con i reggini ed i calabresi. L’apertura di Arghillà non rappresenterebbe, infatti, solo una soluzione cittadina ma porterebbe respiro a tutti gli istituti calabresi, molti dei quali soffrono di un forte sovrannumero." Conclude poi De Morelli: "Noi Radicali abbiamo posto una battaglia con la gente comune e per la gente comune ed è a quelli che chiediamo consensi continuando a batterci per i diritti di tutti, ascoltando e liberando le parole di chi non ha voce."

Veneto: serve il Garante regionale per la popolazione detenuta

 

Comunicato stampa, 20 marzo 2010

 

Serve un garante regionale per tutelare e promuovere la rieducazione dei detenuti. La proposta è di Claudio Sinigaglia, candidato democratico al consiglio regionale, che il 16 marzo ha partecipato all’incontro tematico sulla popolazione detenuta e la società civile promosso al Bo dal gruppo Operatori carcerari volontari di Padova in collaborazione con Csv, Caritas diocesana e Pastorale cittadina.

"Nelle carceri c’è una generale invivibilità, cresce il sovraffollamento, scarseggiano gli agenti di polizia penitenziaria, mancano educatori per promuovere progetti di rieducazione sociale e personale sanitario per l’assistenza anche psicologica - ha denunciato il candidato - Il sistema carcerario fa fatica a progettare e sostenere il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti e punta tutto sulla repressione, lasciando troppo spesso lettera morta la finalità rieducativa della detenzione prevista dalla nostra Costituzione. Non stupiamoci dunque se i detenuti arrivano a tentare o a commettere il suicidio, come è avvenuto nelle scorse settimane nella casa di reclusione di Padova".

Da inizio anno i suicidi al Due Palazzi sono stati due, tredici in tutto nelle carceri italiane. "Al di là dei requisiti minimi per garantire la qualità della vita, come carceri capienti e costruite bene, serve più di ogni altra cosa dare un progetto di vita ai detenuti. Insomma, pensare al loro recupero. Durante il periodo di carcerazione attività lavorativa e rieducazione sono indispensabili per reinserire concretamente i detenuti nella società una volta scontata la pena e per evitare recidive. I dati parlano chiaro: a fine pena, la recidiva dei detenuti che hanno lavorato in carcere al Due Palazzi è dell’1%".

Un settore questo in cui il carcere della città del Santo ha fatto da apripista grazie alla collaborazione con il privato sociale e il volontariato, con realtà come Cooperativa Giotto, associazione Granello di Senape e L’Oasi. E su cui anche l’assessorato alle politiche sociali di Padova è intervenuto attivando una collaborazione con la casa di reclusione e l’associazione Granello di senape che ha portato all’assunzione di quattro educatori da parte del comune per il progetto "Agenti di rete".

 

Claudio Sinigaglia

Assessore ai Servizi Sociali del Comune di Padova

Brescia: l'urgenza di un nuovo carcere ma occorrono altri soldi

 

Brescia Oggi, 20 marzo 2010

 

"Un nuovo carcere tra le priorità bresciane. È come un pianeta: inserito nel cuore della città eppure lontano anni luce dal sentire comune. Un pianeta che interroga le nostre coscienze, e noi dobbiamo rispondere". L’astronomia, in questo caso, torna con i piedi per terra e, per voce del procuratore minorile Emilio Quaranta, li appoggia all’ingresso di Canton Mombello: l’emblema di un’emergenza carceri che secondo gli addetti ai lavori potrebbe trovare sollievo solo grazie all’impegno di tutti. Ed è proprio un appello alla partecipazione quello che il Lions Club Cidneo di Brescia ha voluto lanciare con un dibattito, al San Carlino, tra istituzioni, operatori, esperti. Tutti d’accordo nell’affermare che non è solo un problema di sovraffollamento, ma di "garantire la dignità dei detenuti, affinché il percorso di rieducazione trovi sbocchi concreti una volta tornati in libertà", sottolinea Quaranta.

Dal governo è arrivato il primo segnale: 500 milioni di euro per 18 mila nuovi posti, metà dei quali deriveranno dall’ampliamento di strutture esistenti. Brescia rientra nel piano carceri e, quindi, avrà il suo nuovo penitenziario di cui si parla da anni.

Dalla teoria alla pratica vuole passare anche l’assessore comunale all’urbanistica Paola Vilardi: "Stiamo preparando il nuovo Pgt, l’individuazione dell’area in cui dovrebbe sorgere il carcere è una priorità che va oltre gli schieramenti politici e la zona più indicata è Verziano. Da mesi stiamo lavorando per il reperimento dei fondi. Credo anche che non dovremo limitarci a costruire, ma a concepire una nuova struttura a misura di detenuto - sottolinea Vilardi: è una questione sociale".

E, in questo senso, Canton Mombello è da primato: "Abbiamo 524 detenuti a fronte di una capienza di 205 - spiega la direttrice, Maria Grazia Lusi. Il 75 per cento circa rappresentato da stranieri e solo 115 sono i definitivi: 218 aspettano il primo giudizio". Numeri pesanti, aggravati dalle cosiddette "carcerazioni lampo", in attesa di un giudizio per direttissima. Ma in questo senso, solo un mese fa, a molto è servita la direttiva firmata dal Procuratore della Repubblica di Brescia Nicola Pace, secondo cui "gli arresti in carico al tribunale monocratico, le convalide e i direttissimi devono essere effettuati senza appoggiarsi al carcere, ma alle celle di sicurezza".

Se nel 2009 su 3.066 immatricolazioni a Canton Mombello, 631 erano clandestini, "gli ultimi 4 mesi contano 566 giudizi immediati, ma, dopo la direttiva, siamo scesi a 20 in un mese", continua Lusi. In confronto, Verziano è un’isola felice, 120 detenuti per altrettanti posti: "Metà uomini e metà donne in attesa di giudizio - precisa la direttrice Francesca Lucrezi.

Le attività non mancano: la scuola, i corsi formativi, la biblioteca, lo sport, e a chi crede che questo significhi alleggerire lo sconto di pena rispondo che reinserire significa prendersi carico del reo e accompagnarlo nel percorso di risocializzazione. I volontari sono indispensabili, ma è un compito che spetta a tutta la società, soprattutto per le opportunità di lavoro".

"Aumentare i posti rischia davvero di diventare un boomerang, come in Usa - commenta Carlo Alberto Romano, presidente dell’associazione Carcere e Territorio -: il carcere non deve diventare un parcheggio, una discarica. Dobbiamo fare in modo che le misure alternative alla detenzione siano incrementate, perché funzionano". Per esempio, "il 15 per cento dei detenuti è tossicodipendente: dobbiamo lavorare affinché siano trasferiti nelle comunità terapeutiche - continua Mario Fappani, garante dei diritti - e perché chi è in cella per reati contro il patrimonio paghi il debito con la giustizia in modo diverso".

Pisa: il Centro Italiano Femminile e l’artigianato delle detenute

 

Il Tirreno, 20 marzo 2010

 

Nel mese della donna il Centro italiano femminile di Pisa ha prestato una particolare attenzione al mondo del carcere femminile. Da alcuni anni il Cif di Pisa cura un progetto per aprire la porta ad una nuova e positiva interpretazione del concetto rieducativo sui detenuti: la libertà di esprimere la fantasia e la creatività, dando loro la possibilità di produrre ed essere remunerate. Grazie a questa iniziativa le donne del carcere di Pisa producono manufatti e oggetti vari che vengono venduti per sovvenire alle proprie necessità personali e talvolta mandare anche un aiuto alle famiglie penalizzate dalla condizione delle carcerate.

Le donne del Cif curano anche l’esposizione e la vendita degli oggetti delle donne. L’appuntamento per la prossima mostra è domani, sabato, dalle ore 10 alle ore 19 in Borgo Largo, davanti la farmacia Salvioni. In esposizione borse, centritavola, oggetti per la cucina, oggetti che con la loro vendita possono "aiutare chi ha sbagliato - si legge nella lettera scritta da una detenuta del Don Bosco - a ritrovare il coraggio di esprimere la libertà positiva che ha dentro, perché il carcere deve rappresentare la possibilità di ritrovarsi, una pausa per capire e non per oziare e annientare la dignità e la necessità di sentirsi utili. Solo così potremo salvarci tutti". L’iniziativa è condivisa dal gruppo delle detenute "Libere dentro".

Rossano (Cs): altri cinque detenuti islamici trasferiti nel carcere

 

Ansa, 20 marzo 2010

 

Cinque terroristi islamici, appartenenti alla cellula milanese di Al Qaeda, sono stati trasferiti nel carcere di Rossano aggiungendosi ai due che già si trovavano nella struttura. Nei prossimi giorni è previsto l’arrivo di altri tre terroristi appartenenti allo stesso gruppo. "Voglio rassicurare l’opinione pubblica - ha detto il direttore del carcere, Giuseppe Carrà - in merito alla presenza dei sette terroristi islamici nella nostra struttura".

Secondo quanto ha riferito Carrà, il reparto che accoglie i terroristi è completamente isolato dal resto del carcere in modo da non permettere alcuna forma di incontro con gli altri detenuti. È permesso ai sette detenuti di incontrarsi tra loro e soprattutto è garantito il luogo del culto islamico che prevede la preghiera a partire dalle quattro del mattino. Per i detenuti accusati di terrorismo islamico è previsto personale specializzato che a breve parteciperà a corsi di formazione. Sono in tutto 15 le unità destinate al reparto definito ad alta sicurezza). In tutta Italia sono 50 i terroristi islamici detenuti in varie carceri.

"Il carcere di Rossano - ha detto Carrà - è stato scelto per l’alta professionalità rilevata dal personale che ci lavora da anni e per la presenza di infrastrutture in grado di garantire un elevatissimo livello di sicurezza".

Per garantire al meglio la sicurezza del territorio saranno potenziati i controlli attorno al carcere e sono già monitorati tutti i movimenti dei detenuti considerati pericolosi. Solo uno dei terroristi islamici, secondo quanto ha riferito il direttore del carcere, ha parenti in Italia, che difficilmente si recheranno a fargli visita. Tutti gli altri hanno i familiari nei Paesi d’origine.

Foggia: Festa del papà; l’esperimento nella Casa Circondariale

 

Gazzetta del Mezzogiorno, 20 marzo 2010

 

Tutto secondo i programmi, cioè davvero bene. Esperimento da ripetere l’anno prossimo, quello della Festa del papà in carcere. Ieri nella Casa circondariale di Foggia, in via delle Casermette, circa 50 bambini hanno varcato la soglia del "posto" in cui trascorrono le giornate i loro padri. Incontri informali anche se sempre sorvegliati, spettacolo teatrale, animazione per piccoli e genitori, colloqui non più scanditi dal tempo ma una mezza giornata insieme nel nome della riconciliazione con la vita.

Quello che è successo ieri al carcere foggiano non ha precedenti, nel senso che mai prima si era verificato che alcuni nuclei famigliari si ritrovassero proprio all’interno delle mura che ne "recludono" il capofamiglia. L’iniziativa della direzione del carcere, retto da Simona Vernaglione, in collaborazione con la Polizia penitenziaria, diretta da Luca Di Mola, ha quindi colto nel segno, facendo felici molte famiglie che nel giorno del papà si sono ritrovate insieme anche se per poche ore.

Come dicevamo sono stati circa 50 i bambini dai 2 ai 10 anni, figli di persone detenute dopo condanna in via definitiva, a varcare la soglia del carcere accompagnati dalle loro madri o parenti, in alcuni casi anche nipoti di detenuti il cui legame col detenuto è stato ritenuto particolarmente significativo. In sostanza un successo, più che meritato se si pensa che l’iniziativa di ieri è stata organizzata grazie a quello che la stessa direttrice Simona Vernaglione definisce "accattonaggio istituzionale".

Diverse aziende hanno preso parte al "Progetto di riabilitazione genitoriale", donando alcuni loro prodotti ma soprattutto facendo sapere ai detenuti di essergli in qualche maniera ancora vicini. Resta, sullo sfondo della insolita giornata vissuta ieri, il problema ormai vecchio del sovraffollamento della struttura di via delle Casermette: la capienza di 400 detenuti è stata superata da un bel po’, siamo ormai a 700 detenuti. E un carcere, come quello diretto dalla Vernaglione, che punta alla riabilitazione sociale dei detenuti, non può prescindere dal mondo in cui si occupa di loro.

Stati Uniti: in carcere 1 cittadino adulto su 100, record mondo

 

Iris Press, 20 marzo 2010

 

Lo scorso mercoledì il Pew Center di Washington ha pubblicato uno studio analitico sulla popolazione carceraria americana. I dati che emergono sono tutt’altro che confortanti e indicano come alla fine di gennaio dell’anno in corso gli Americani che si trovavano in prigione fossero circa 2,3 milioni. Si tratta in effetti di un numero molto elevato, specialmente se raffrontato con i grossomodo 230 milioni di individui in età carcerabile che compongono oggi la popolazione degli Stati Uniti. Questo recente studio indica dunque lo spaventoso rapporto di un 1 cittadino americano su 100 come attualmente detenuto. Per la precisione 1.402.091 nelle prigioni di stato, oltre 200.000 in quelle federali, gli altri nei penitenziari locali. Il Paese di Obama continua così a dominare incontrastato anche nella triste classifica delle statistiche internazionali in termini di tasso d’incarcerazione.

Il direttore dello studio, Adam Gelb, nella conferenza stampa ha provato tuttavia a gettare acqua sul fuoco sui dati, evidenziando come il numero di individui nelle prigioni di stato sia leggermente diminuito tra il 2008 e il 2009, di quasi 6.000 unità. Per contro bisogna dire che le galere federali hanno visto la loro "popolazione" aumentare di 6.838 detenuti, numero che quindi compensa ampiamente la leggera flessione osservata nelle prime.

Il dato che fa ben sperare probabilmente è un altro, ovvero, che dal 1973 ad oggi quello passato è stato il primo anno che ha visto una leggera flessione di detenuti almeno in una delle varie tipologie di case di pena presenti negli Usa. Negli ultimi 36 anni, infatti, il numero di detenuti americani era aumentato del 705%, non accennando mai a diminuire. Si aggiunga poi a ciò che lo Stato che ha maggiormente contribuito alla flessione è stato la California, ovvero quello che aveva sempre presentato le statistiche peggiori.

I ricercatori del Pew Center si interrogano d’altronde su quali possano essere stati i fattori a cui attribuire questa flebile speranza di inversione di tendenza, e ritengono che con tutta probabilità "gli Stati abbiamo cominciato a rendersi conto che esistono vari modi per diminuire la popolazione carceraria, garantendo comunque la sicurezza pubblica". Privilegiando ad esempio delle pene al di fuori dalle case circondariali per reati minori. Che il 2009 sia stato un incidente congiunturale successivo al periodo di crisi economica, piuttosto che l’inizio di una tendenza strutturale è comunque ancora presto per dirlo.

 

 

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