Rassegna stampa 10 marzo

 

Giustizia: carceri in dis-grazia, tra suicidi e poteri straordinari

di Gabriella Monteleone

 

Europa, 10 marzo 2010

 

Mentre il Senato convertiva in legge il decreto sulla Protezione civile, il numero dei suicidi in carcere saliva a 12 dall’inizio dell’anno. Un record, che fa il paio con l’altro primato dei detenuti stipati nei nostri istituti: 66.761 - ma l’associazione Antigone prevede che, a questo ritmo di crescita, a fine anno saranno 90mila e nel 2012 si arriverà alla mitica soglia dei 100mila. A quanti - polizia penitenziaria, associazioni che lavorano e si "sporcano" le mani con i detenuti, esponenti dell’opposizione - ogni giorno chiedono risposte contro "il vero killer" dell’invivibilità delle carceri, il governo ha risposto per ora solo con il decreto sulla Protezione civile.

Il nesso, apparentemente inspiegabile, sta nell’articolo 17ter che affida al neo commissario per le carceri, che è poi lo stesso Franco Ionta che è capo di tutto il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, poteri straordinari e pressoché assoluti per realizzare nuovi istituti di pena e per gli interventi necessari.

Significa che Ionta, solo lui, in deroga a diverse normative potrà fare i progetti, individuare le ditte, affidare i lavori, contattare i presidenti delle regioni e sentire i sindaci delle aree interessate alle nuove opere, e non solo. Un Bertolaso delle carceri insomma. Con l’aggiunta di un paradosso - che va ad aggiungersi allo stato di emergenza dichiarato il 13 gennaio dal governo per istituti di pena che da almeno 15 anni sopravvivono in emergenza -: che dopo lo scandalo della "cricca della Ferratella", la Protezione civile non sarà più la Spa che doveva costituire "il braccio operativo" dell’emergenza carceri.

"Adesso il commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria - sottolinea Leo Beneduci, segretario dell’Osapp, il secondo sindacato di polizia penitenziaria con 6mila aderenti - potrà avvalersi della Protezione civile, ma è solo una facoltà". Intanto, si sa per certo che alcune imprese al centro dell’inchiesta del G8 della Maddalena hanno già avuto l’aggiudicazione dell’appalto per la costruzione dei nuovi istituti di pena in Sardegna.

La conferma, in risposta ad un’interrogazione presentata dal gruppo Pd alla camera, è arrivata dal governo: si tratta della ditta Anemone per il carcere di Sassari, la Giafi per quello di Tempio Pausania e la Opere pubbliche per quello di Cagliari e che hanno ottenuto appalti attraverso gare informali con decreto del ministro della giustizia del 2 ottobre 2003 che ha dichiarato l’urgenza e la segretezza. "Poiché i lavori sono iniziati nel dicembre del 2005 e non si sa ancora quando saranno ultimati - dicono la capogruppo in commissione Donatella Ferranti e Guido Melis - non si capisce a cosa sia servita realmente la dichiarazione d’urgenza".

L’altra certezza, per ora, è che con i nuovi poteri Ionta disporrà dei 600 milioni di euro già stanziati in Finanziaria per la costruzione di 47 nuovi padiglioni dentro carceri esistenti per 9.650 posti: circa dieci milioni a padiglione, ammesso che le somme non lievitino. Intervento certo non risolutivo: per arrivare a creare i 21mila nuovi posti previsti bisognerà aspettare infatti la costruzione di 18 nuovi istituti, che comunque saranno insufficienti dato il trend di crescita del numero di detenuti avallato dalla politica giudiziaria di questo governo.

Ma il segretario dell’Osapp, Beneduci, alla luce "delle carenze organizzative e gestionali" pone l’altra questione, non secondaria, del doppio ruolo di Ionta di commissario straordinario per l’edilizia e capo dell’amministrazione penitenziaria, e chiede la nomina di un altro capo del Dap. "Richiesta sacrosanta" per il senatore Pd, Ferrante, che dopo l’ennesimo suicidio ha presentato un’interrogazione per chiedere più poliziotti e pene alternative "per rendere più umane le condizioni della vita quotidiana in carcere senza aspettare di costruirne altre".

Giustizia: Vigna; con affollamento, rieducazione è improbabile

 

Asca, 10 marzo 2010

 

Da Infinito Edizioni esce "La mia vita dentro", di Luigi Morsello, che è stato direttore di ben sette carceri in trentasei anni, con l’apprezzamento dell’ex Procuratore nazionale antimafia Pier Luigi Vigna, che parla del carcere come istituzione totale.

"Gli istituti penitenziari - dice Vigna - sono qualificati da numerosi studiosi, sulle orme di Foucault, e analogamente a quanto avviene, o avveniva, per altri luoghi chiusi (ospizi, manicomi), come istituzioni totali. Questa definizione trascura, però, di cogliere il flusso di vita che lì si svolge, l’interscambio tra custodi e custoditi e trascura anche la considerazione del vissuto di ogni detenuto prima del suo ingresso nell’istituto e che egli porta, irrimediabilmente e spesso faticosamente, con sé. Questa realtà è fatta rivivere da Luigi Morsello, che per trentasei anni è stato direttore di ben sette case di reclusione, conoscendone poi, quale funzionario in missione, anche altre ventidue".

Vigna ricorda inoltre che gli anni di lavoro di Morsello, a renderlo ancora più difficile, sono poi coincisi con uno dei periodi più bui della storia del nostro paese: lì si collocano, infatti, con i loro ripetuti delitti, alcuni di portata storica, le azioni più devastanti del terrorismo e della mafia e il direttore di un carcere è tuttavia tenuto, con i suoi collaboratori, a contemperare, anche per i loro autori, due finalità che sembrano in contrasto tra loro e che solo il rigore e l’umanità possono comporre in una difficile sintesi: custodire e rieducare, così come vuole la nostra Carta costituzionale e come si legge nel simbolo del Corpo di polizia penitenziaria. Infine, al di là delle aride statistiche con le quali viene spesso rappresentata la realtà carceraria, l’umanità - conclude Vigna - che vive dietro le sbarre e che costituisce, insieme al direttore, agli agenti, agli assistenti sociali, agli educatori, ai medici e infermieri, non tanto un’istituzione totale, quanto una vera e propria comunità.

Anche io, ovviamente - ho sempre svolto le funzioni di pubblico ministero - ho frequentato gli istituti penitenziari e ho conosciuto varie tipologie di detenuti. Con costoro non ho mai instaurato rapporti autoritari ma, anzi, comprensivi, perché ho sempre pensato che un filo comune mi legava a ciascuno di loro: l’essere entrambi uomini. Vigna in ultimo ricorda come "su richiesta dei reclusi nella Casa penale di Santa Teresa di Firenze pensammo, con il giudice Alessandro Margara, di dar vita a un giornalino. Passarono mesi prima che si potesse definirne il titolo perché alcuni volevano che fosse Noi, gli altri mentre un gruppo insisteva per togliere la virgola. Prevalse la prima opinione dopo defatiganti discussioni. Il giornale cominciò a uscire ma, dato il suo contenuto avanzato, non veniva introdotto negli altri carceri. Mi ricordai, allora, di un cardinale amico che operava presso la Santa Sede: egli promosse un telegramma di plauso del Pontefice e allora giunse il "via libera".

Il 4 novembre 1966 l’alluvione devastò Firenze e anche la mia abitazione. La mattina dopo, al calare delle acque, raggiunsi con qualche sforzo le Murate. Diversi detenuti erano evasi e i carabinieri avevano formato una cintura di sicurezza per impedire, in qualunque modo, che altri reclusi fuggissero. Pretesi, nonostante la loro opposizione, di entrare nell’istituto che era in mano ai detenuti, impauriti ed esasperati anche perché non avevano ricevuto né cibo né acqua.

Il primo che mi venne incontro era un tale che il 2 novembre, in un processo per rapina nel quale ero pubblico ministero, era stato condannato a una pesante pena. Rimasi interdetto, ma lui mi venne incontro e mi abbracciò dicendo: "non pensavo che lei sarebbe venuto tra noi". Da ultimo - Vigna offre una riflessione sull’attuale situazione dell’edilizia carceraria: "il sovraffollamento - sottolinea - e l’indistinzione tra condannati definitivi e soggetti in attesa di giudizio mortificano la persona e rendono assai improbabile ogni tentativo di rieducazione".

Giustizia: è incredibile che l’amore in carcere faccia scandalo!

di Andrea Boraschi (Associazione "A Buon Diritto")

 

L’Unità, 10 marzo 2010

 

Se è vero, come cantava De André, che "dal letame nascono i fior", allora non c’è da stupirsi che anche in carcere, tra mille difficoltà, malesseri, soprusi e privazioni, si possa concepire una vita. E se teniamo a termine di paragone proprio quel "letame", poi, va fatta una precisazione: che se l’atto d’amore viene "ospitato" dal carcere di Bollate il richiamo allo sterco è di certo ingeneroso.

Quella struttura di sicurezza, infatti, è genericamente considerata un istituto modello per le sperimentazioni che vi si promuovono, per le pratiche di socializzazione riconosciute ai detenuti, per le possibilità di accesso al lavoro e alla formazione che offre.

Succede così, semplicemente, che un uomo e una donna (non staremo a dire di quale nazionalità, età; tanto meno della loro fedina penale), conosciutisi a un corso per periti chimici che frequentano nel pomeriggio, e lì innamoratisi, abbiano trovato un breve lasso di tempo e un qualche fugace nascondiglio per consumare un amplesso. E che lei, appunto, sia rimasta incinta. E apriti cielo!

Il tenore della cronaca mediatica dei fatti, nei giorni appena trascorsi, è stato generalmente "Scandalo a Bollate" o, se preferite, "Carcere a luci rosse". Il che induce - sconsolatamente! - al riso. Si ride meno, però, quando sulla vicenda non si concentra solo quella dozzinale morbosità da cinema hard-trash (toh... che porcelli questi detenuti!), ma quando, piuttosto, vi cala a mò di scure il più viscido moralismo sicuritario.

Il sindacato di polizia penitenziaria Sappe parla di "episodio sconcertante" e chiede l’intervento del ministro della Giustizia Alfano e del capo del Dap, il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. "I fatti - così si legge in una nota del sindacato - avvenuti in un istituto penitenziario a trattamento avanzato come quello di Bollate, dimostrano il fallimento di politiche eccessivamente risocializzanti, che vanno a discapito dei servizi di sicurezza e vigilanza. Questi programmi devono essere rivisti".

Che i detenuti siano esseri invisibili, e che insieme alla privazione della libertà le minima immoralia correnti pretendano anche la mutilazione della loro sfera affettiva, relazionale e sessuale è tristemente risaputo. Ma che in un sistema penale in cui,

dall’inizio dell’anno, si toglie la vita un detenuto a settimana, in cui si è superato ogni tollerabile limite di affollamento delle strutture e in cui (per stare al dato sessuale) gli abusi, le violenze e i soprusi sono all’ordine del giorno... ecco, che in un sistema come questo a fare scandalo siano un uomo e una donna che riescono faticosamente ad amarsi è proprio cosa incredibile.

Giustizia: malattia psichica e reati, ma mai dimenticare la cura

di Enrico Negrotti

 

Avvenire, 10 marzo 2010

 

La pericolosità sociale dell’autore di un reato è particolarmente difficile da definire se la persona in questione è affetto da qualche patologia psichica. Mal’esito delle valutazioni - sia dei periti psichiatri e psicologi, sia del giudice - può provocare conseguenze molto diverse per il colpevole, che può essere rinchiuso in carcere (se non riconosciuto affetto da vizio di mente), essere inviato a un ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) o essere sottoposto a misure di controllo meno rigide attraverso i servizi psichiatrici del territorio.

Di questi temi si è trattato al congresso internazionale della Scuola di alta formazione in scienze criminologiche e investigative (diretta da Marco Monzani, docente di Criminologia all’Università di Ferrara) in corso a Mantova: un appuntamento che vede radunati esperti italiani e stranieri (criminologi, medici legali, psichiatri forensi, psicologi, giuristi) per un’analisi comparata dei problemi sollevati da valutazione e riconoscimento di autore e vittima di reato.

Parlando degli indicatori clinici di pericolosità sociale psichiatrica, Ugo Fornari (docente di Psicopatologia forense e criminologia clinica all’Università di Torino) ha messo in guardia dal confondere la "pericolosità sociale psichiatrica che si identifica con quella di necessità attuale di cure e di assistenza specialistica, in regime di coazione (trattamento sanitario obbligatorio giudiziario) o di libertà vigilata (trattamento in strutture comunitarie)" con la "pericolosità sociale giuridica (o criminologica) il cui accertamento, nella sua dimensione prognostica, deve rimanere compito di esclusiva spettanza del magistrato (art. 203 Codice penale)". Inoltre la "pericolosità sociale psichiatrica - sottolinea Fornari - deve essere graduata in elevata e attenuata, con conseguenti provvedimenti diversificati, dal perito psichiatra e non dal giudice".

Ma il problema della diagnosi resta di elevata complessità e Cesare Maffei (docente di Psicologia clinica all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano) ha sottolineato che il concetto di "gravità" nella pericolosità sociale - come richiesto da una sentenza della Cassazione - è difficile da definire, così come da dimostrare resta il nesso causale tra disturbo psichiatrico e delitto. Dovrebbe far riflettere il fatto che - secondo analisi pubblicate sulla rivista scientifica Lancet anni fa - nelle carceri del mondo occidentale sono ospitati il 65% di soggetti con un disturbo di personalità.

E negli Stati Uniti, ha ricordato George Palermo (docente di Psichiatria e neurologia all’Università del Ne vada) dove c’è stato un crescente allarme per la pericolosità sociale dei reati sessuali (stupro e pedofilia) capita che dopo una reclusione lunga, anche a 8-12 anni, il detenuto venga esaminato da due psicologi di Stato che possono decidere che l’individuo è ancora affetto da una psicopatologia sessuale e stabilire un periodo di cura. In Italia, ha sottolineato Fornari, "il diritto alla salute, costituzionalmente garantito a tutti i cittadini, non può più vedere esclusi quei malati di mente per i quali, l’aver commesso un reato, comporta una subordinazione delle istanze terapeutiche a quelle prognostiche", cioè di previsione di possibile reiterazione del reato.

Certamente - ha aggiunto - occorre fare uno sforzo per trasformare sempre più gli ospedali psichiatrici giudiziari in luoghi di cura più che di detenzione. Un atteggiamento che è già realtà a Castiglione delle Stiviere (Mantova), dove l’Opg - ha riferito il direttore Antonino Calogero - offre ai suoi ospiti diverse iniziative di riabilitazione (sport, laboratori artistici, botteghe artigianali), ammettendo che non tutti i trattamenti vanno a buon fine ma ricordando anche che "la popolazione psichiatrica non delinque più di quella sana".

Giustizia: Sappe; penitenziari in affanno, seguire nuove strade

 

Ansa, 10 marzo 2010

 

Percorrere nuove strade per ricostruire un sistema penitenziario in affanno: è il senso della nota odierna del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa Organizzazione di Categoria, diretta al Ministro della Giustizia Angelino Alfano ed al Capo del Dap con poteri di Commissario straordinario di Governo per l’edilizia penitenziaria Franco Ionta.

Spiega Donato Capece, Segretario Generale Sappe: "La questione penitenziaria è perennemente all’ordine del giorno, con circa 67mila detenuti presenti (un terzo dei quali straniero ed un quarto tossicodipendente) in strutture carcerarie nate per ospitarne 43mila, controllati dal Personale di Polizia Penitenziaria sotto organico di oltre 5mila unità.

Le gravi carenze di poliziotti fanno lavorare male e in condizioni di particolare stress gli agenti in servizio ed impediscono l’apertura di moltissime sezioni detentive un po’ in tutta Italia: a Brindisi, Caltagirone, Cremona, Empoli, Favignana, Frosinone, Is Arenas, Isili, Lanciano, Napoli, Ragusa, Roma Rebibbia e Regina Coeli, Rieti, San Severo, Siena, Reggio Emilia, Siracusa, Spinazzola, Viterbo. Bisogna dunque accelerare sulle modalità di attuazione delle previste nuove assunzioni per garantire buone condizioni di lavoro ai poliziotti penitenziari ed un piano di trasferimenti dal Nord al Sud degli Agenti che ormai da molti anni lavorano nel Settentrione d’Italia".

Capece suggerisce anche nuovi percorsi di edilizia penitenziaria come quello detto "sistema modulare": "vale a dire un edificio in acciaio, con grandi capacità di resistenza agli agenti atmosferici, agli attacchi chimici o ad altri processi deteriorativi, che può essere sopraelevato senza particolari misure strutturali e con costi competitivi e tempi di esecuzione estremamente rapidi. Si tratta di edifici con 600 posti letto costruibili in quattro mesi, con un costo inferiore ai 20 milioni di euro, e posti in opera in soli 7 mesi.

Ma per deflazionare le sovraffollate carceri italiane ritengo si debbano definire al più presto i circuiti penitenziari differenziati in relazione alla gravità dei reati commessi, con particolare riferimento al bisogno di destinare, a soggetti di scarsa pericolosità, specifici circuiti di custodia attenuata e potenziando il ricorso alle misure alternative alla detenzione per la punibilità dei fatti che non manifestano pericolosità sociale, prevedendo che i compiti di controllo sull’esecuzione penale e sulle misure alternative alla detenzione siano affidati alla Polizia Penitenziaria anche avvalendosi di procedure di controllo mediante strumenti elettronici o altri dispositivi tecnici (come il braccialetto elettronico) che hanno finora fornito in molti Paesi europei una prova indubbiamente positiva".

Giustizia: Vallanzasca, se 40 anni di galera vi sembrano pochi

di Mario Cervi

 

Il Giornale, 10 marzo 2010

 

Sommersa com’è dalle critiche, la giustizia italiana ha finalmente un nome e un caso cui appellarsi, per respingerle. La si vuole inefficiente, incapace di far espiare le pene, farfallona al punto di liberare un killer perché scrive poesie e ciò facendo dimostra d’aver imboccato il cammino del bene. I reati cadono in prescrizione, pene tremende evaporano durante il percorso dei mitici faldoni nei non memo mitici "palazzacci". Sembra non si salvi niente.

Invece, l’abbiamo accennato, c’è per la legalità umiliata una ciambella di salvataggio. Non un qualche dotto e insigne giurista, di quelli ne abbiamo a bizzeffe, ma sono inflazionati e, per usare un termine educato, poco credibili. I presidenti emeriti della Corte costituzionale risultano, a causa degli avvicendamenti là praticati, più numerosi degli allenatori di certe squadre di calcio.

No, il nome e il caso cui facevamo riferimento sono quelli di Vallanzasca, fosco, spavaldo e feroce protagonista della "mala" milanese negli anni Sessanta e Settanta. Era detto "il bel René" per una sua sfrontata guapperia inversione meneghina, e naturalmente suscitava innamoramenti (capita perfino a Erika e Omar). Aveva praticato varie specializzazioni della criminalità: omicidio, rapine, sequestri di persona e, una volta acciuffato, ripetute evasioni. Collezionista di ergastoli nominali, ha finito per scontarlo davvero l’ergastolo, in pratica.

Per i suoi precedenti, benché abbia trascorso una quarantina d’anni di galera, mai potrà tornare in libertà, e nemmeno in semilibertà. Al bel René diventato un René imbolsito è stato soltanto concesso di lavorare durante il giorno, ripresentandosi in cella dopo il tramonto. Forse perfino l’incorreggibile si è corretto, sembra che spieghi ai ragazzi difficili di non essere per niente un mito e un modello ma d’essere stato piuttosto un idiota, dannandosi a una vita da reietto della società. Non indugeremo sulla sincerità di questo pentimento. Preferiamo crederlo autentico.

Ma il discorso che ci interessa è un altro. Se pensiamo al percorso di Vallanzasca dobbiamo concludere che la giustizia cui tutti aspiriamo è quella che si è occupata di lui. Non ha mollato. Non s’è fatta ingarbugliare dagli articoli e dai commi. Ha ritenuto che alla selvaggia furia di René lo Stato dovesse opporre una fermezza implacabile, e se scappava lo andava a riprendere, e se voleva essere l’eterno ribelle si trovava di fronte la Legge con la elle maiuscola, non smemorata, non sbadata. Un duello nel quale i buoni hanno vinto, una volta tanto. Viva le manette se si stringono attorno ai polsi d’un pluriassassino.

Le cronache - e le conversazioni da bar - sono gremite di ironiche citazioni giudiziarie ("hai visto quello che scioglieva i ragazzi nell’acido e poi è diventato collaboratore dei magistrati, a piede libero?". "Hai visto quel truffatore professionale che non ha mai scontato un giorno di carcere?") e così via. Finalmente abbiamo visto qualcosa di diverso. Abbiamo visto René Vallanzasca che dopo quarant’anni di detenzione deve ancora dormire in cella mentre Erika può passeggiare tranquilla, se le va anche per le strade di Novi Ligure e Omar, che presto avrà del tutto saldato il suo conto con la giustizia, chiede d’essere lasciato in pace. So che la giustizia non dev’essere confusa con la vendetta, che la pena dev’essere possibilmente rieducativa e non afflittiva. So egualmente che la severità delle sanzioni non potrà mai riportare in vita le vittime. Ma una qualche proporzione tra delitto e castigo deve pur esserci. Per il bel René dobbiamo riconoscere che c’è stata e c’è.

Giustizia: Pietrino Vanacore, il suicida ucciso dalla non giustizia

di Vittorio Sgarbi

 

Il Giornale, 10 marzo 2010

 

Ogni vita ha il suo mistero, anche la più semplice, ma nessuna ci mette di fronte al limite dell’uomo e alla sua disperazione come una vita volontariamente interrotta. Il mistero più grande resta quello dei suicidi. Nel corso di decenni, nelle terribili tensioni fra giustizia e politica, non sempre i criminali hanno pagato, ma spesso hanno pagato troppo i più deboli.

E non perché colpevoli. Qualcosa di più e qualcosa di peggio, per la sproporzione fra la colpa eventuale e la punizione, soprattutto se determinata da un abisso della coscienza o dalla paura del giudizio degli uomini, inteso come considerazione sociale. Così abbiamo assistito con sgomento ai suicidi di politici senza colpa come Sergio Moroni, di imprenditori come Raul Gardini, di amministratori di aziende di Stato come Gabriele Cagliari. Quest’ultimo ha denunciato la sproporzione fra il trattamento a lui e a pochi altri riservato rispetto a comportamenti di tutti. E la sua lettera è una denuncia più dell’insufficienza della giustizia che dei difetti del sistema.

Ma il suicidio più clamoroso fu certamente quello del grande magistrato Luigi Lombardini che, al sommo della vergogna, dopo un interrogatorio nella sua sede giurisdizionale a Cagliari condotto con esemplare severità da Giancarlo Caselli e dai suoi aggiunti e sostituti, si sparò. Logico il collegamento fra la brutale azione giudiziaria, anche formalmente corretta, e il gesto disperato. Ma di fronte a comportamenti come questo non sempre prevale la pietà o l’indignazione per la violenza della giustizia, taluno insinua il dubbio di una ammissione di colpevolezza.

Si è suicidato per la vergogna, perché sapeva di essere colpevole. E se per taluni questa risposta è una consolazione, e un modo per superare il senso di colpa, per chi crede nella necessità del perdono, dell’indulgenza e della comprensione anche per il colpevole, il suicidio di una persona incriminata è sempre una sconfitta della ragione. Segnala la mancanza di rispetto, una inaccettabile sproporzione. Chi si suicida cerca una via di fuga, non ha più la forza di affrontare il mondo che lo guarda con occhi diversi, e tanto più se nel suo intimo sa di essere innocente.

Così, siccome anche nello spirito più garantista trova spazio, senza possibilità di limitare la forza del dubbio, il giustizialista, che cerca di ricondurre alla ragione anche l’irrazionale, quando, questa mattina, ho letto del suicidio di Pietrino Vanacore, immediatamente ho pensato che fosse colpevole dell’omicidio di Simonetta Cesaroni, e che dopo vent’anni si rivelasse con il suo disperato gesto.

Ho pensato al suicidio come ammissione di colpa, perché non ho voluto pensare al tormento di un sospetto che lo ha accompagnato nel corso di questi anni. Poi ho letto che l’atto non era collegato a nuovi sospetti, ma all’ossessione di non potersi liberare di una vicenda nella quale era stato coinvolto. Cosicché era previsto che egli fosse chiamato a testimoniare nell’udienza del 12 marzo del processo per cui oggi è indagato l’ex fidanzato di Simonetta Cesaroni, Raniero Busco.

Il mistero rimane, e il gesto non lo scioglie ma lo fortifica, togliendoci la possibilità di conoscere una verità che Vanacore ha preferito portare con sé. Apparentemente la spiegazione è nel messaggio che egli ha accompagnato al suo gesto definitivo: "Vent’anni di sofferenze e di sospetti riportano al suicidio". Sarà veramente così? E sarà un’ulteriore dimostrazione della lentezza, della inefficienza, della prepotenza della giustizia che non riuscendo a trovare un colpevole tiene sospeso, nella incertezza, un innocente? Se non una confessione cosa può venir fuori dopo vent’anni? E attraverso quale credibilità di indizi e prove?

Vanacore aveva già deciso di morire al momento della prima incriminazione. Nel corso di vent’anni si è accorto di non esserne uscito. E la convocazione in tribunale lo ha riportato alla violenza di quei giorni. Forse temeva di essere richiamato in correità? Sembrerebbe di sì a leggere le dichiarazioni dell’avvocato Paolo Loria, difensore di Raniero Busco: "Lui ha vissuto col rimorso sulla coscienza questa storia, e non perché fosse l’autore dell’omicidio, ma perché sapeva... Evidentemente, però, non poteva parlare neanche a distanza di anni".

È un’interpretazione che potrebbe spiegare perché neppure l’identificazione di un nuovo indagato aveva avuto il potere di sollevare Vanacore dal rimorso. Ma un suicidio resta troppo per un uomo, e indica il momento di maggior debolezza di una personalità evidentemente fragile. La colpa non è nell’atto, nell’assassinio, ma nel coinvolgimento, nel sospetto da cui la giustizia degli uomini non è stata capace di sollevarlo. Infinita pietà per Vanacore, e mistero che non si dissolve.

Giustizia: oltre le sbarre, quando la libertà nasce dalla scrittura

di Emilia Costantini

 

Corriere della Sera, 10 marzo 2010

 

Imparare a scrivere dietro le sbarre, narrare la propria condizione attraverso racconti autobiografici e soprattutto confrontarsi con scrittori di professione. Nasce il concorso letterario "Racconti dal carcere", promosso dalla Siae (Società italiana autori ed editori) e dal Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) destinato a detenuti italiani e stranieri. Non è la prima volta che libri e voglia di letteratura entrano nei penitenziari. È però la prima volta che i detenuti-scrittori avranno come tutor degli autori già affermati, che li aiuteranno a dare più compiuta espressione letteraria ai loro testi. Madrina del progetto è Dacia Maraini, e hanno già aderito, tra gli altri, Erri De Luca, Susanna Tamaro, Giordano Bruno Guerri, Daniele Del Giudice, Maurizio Costanzo e Liliana Madeo.

Ideato dalla giornalista e autrice di Radio3 Rai Antonella Bolelli Ferrera, il concorso è intitolato a Goliarda Sapienza, scrittrice cui capitò la ventura dì essere arrestata e portata a Rebibbia, luogo dove trovò l’ispirazione per scrivere L’università di Rebibbia (Rizzoli). Spiega la Maraini: "Tante volte ho fatto corsi e laboratori letterari nelle carceri. Stavolta è un modo per dare una mano più concretamente, per introdurre nella scrittura del detenuto un elemento di professionalità. Un tempo - aggiunge - c’era il mito del "buon selvaggio", per cui la scrittura di chi non aveva esperienza andava bene lo stesso, come se di per sé avesse un valore. Invece, la scrittura ha bisogno di una struttura consapevole". Due università italiane faranno

una prima selezione. I venti lavori migliori saranno presi dai tutor proprio per perfezionarli, poi pubblicarli. Infine, una giuria ristretta nominerà il vincitore, che sarà premiato con una somma in danaro. Sottolinea il presidente della Siae Giorgio Assumma: "Il nostro non è solo un ente "gabelliere", come molti pensano, ma un cento di promozione della creatività, anche in una condizione difficile come quella del detenuto. Lo scrivere è un modo di esercitare e collaudare i propri istinti inventivi, ma soprattutto induce a riflessioni interne che sono fondamentali per comprendere quali sono stati gli errori compiuti e quali sono le speranze di un nuovo cammino".

Anche Lucio Dalla ha aderito all’iniziativa, offrendo la sua canzone "Una casa in riva al mare", celebre brano dedicato proprio alla detenzione, come emblema del progetto. Conclude Erri De Luca: "Da sempre mi interessa questa condizione umana e sono contento di fare il correttore di bozze di uno dei carcerati. Quando la mia generazione entrò in massa nelle prigioni per reati politici, tra le cose contagiose che portò con sé dietro le sbarre c’erano i libri, che dietro le sbarre non esistevano. I libri hanno cambiato il tempo e il luogo della detenzione, hanno fatto del bene alla popolazione carceraria. E in condizioni di emergenza, di dolore, la scrittura è la migliore forma di evasione: riuscire a trovare la parole per spiegare a se stessi e agli altri i torti commessi, o magari quelli subiti, aiuta a smaltire, a scrollarsi di dosso i muri e le sbarre".

Livorno: nel carcere delle "Sughere"; la situazione è esplosiva

di Jimmy Morrone

 

Il Tirreno, 10 marzo 2010

 

"Esiste un grave problema sicurezza nel carcere. Lanciamo il nostro grido d’allarme, perché la situazione rischia di diventare esplosiva". Il senatore Marco Filippi è da pochi minuti uscito dalle Sughere, in visita con Silvia Velo, parlamentare anche lei di area Pd, accompagnati dentro la struttura dal presidente Arci Marco Solimano.

A prevalere è un senso di amarezza per le condizioni in cui versano i detenuti e quelle in cui sono chiamati ogni giorno a lavorare gli agenti di polizia penitenziaria. Sono numeri da record (negativo) per la Casa circondariale livornese: 451 detenuti a fronte di soli 186 agenti penitenziari (alcuni dei quali impiegati nel Nucleo traduzioni), la proporzione di circa uno ogni tre detenuti, quando le cifre di organico della struttura prevedono un personale di 303 unità per una media di 260 detenuti. Gli educatori civili sono appena quattro, con altre tre posizioni aperte da tempo, in attesa che vengano assegnati i nuovi incarichi.

"L’ultima volta ero stato in visita alle Sughere ad agosto - ricorda Filippi - Dopo il triste lutto avvenuto nei giorni scorsi, ho subito sollecitato un nuovo sopralluogo. Purtroppo ho constatato ciò che temevo: abbiamo superato i livelli di guardia, i rapporti all’interno dell’istituto sono elettrici e l’atmosfera è critica e sempre più delicata. Pur riconoscendo l’ottimo lavoro svolto dagli agenti - ed è un miracolo che riescano a tenere gli equilibri - non è più possibile farli operare in queste condizioni". La scorsa settimana un giovane detenuto tunisino aveva perso la vita molto probabilmente per aver sniffato gas dalla bomboletta in dotazione alla celle: un agente l’aveva trovato a terra privo di vita. Altri numeri choc: venti morti in dieci anni alle Sughere, lo stesso numero di Regina Coeli, con la differenza che il carcere romano ospita circa mille detenuti, più del doppio.

Misure alternative. Marco Filippi e Silvia Velo raccontano, come già sottolineato dal Tirreno, di piccole celle delle dimensioni di due metri per quattro, con letti a castello a tre piani. Il 50% dei detenuti si trova dietro le sbarre per via di provvedimenti di custodia cautelare, mentre su 450 ospiti soltanto 100 sono in regime di massima sicurezza. "Molti sono reclusi in transito - dicono i due - oppure si trovano dentro per aver compiuto piccoli furti, come un paio di jeans rubati. Gli altri sono immigrati o tossicodipendenti che necessitano un percorso diverso. Per svuotare le carceri si dovrebbero adottare misure alternative e selettive, nel caso di reati minori legati alla microcriminalità. I provvedimenti del Governo e del Pacchetto sicurezza hanno fallito: l’unico effetto è stato il sovraffollamento delle carceri". Ricordiamo che circa il 60-70 per cento della popolazione in carcere alle Sughere è rappresentata da stranieri.

Il Garante. Per rafforzare gli strumenti di coordinamento, Marco Solimano ricorda che nel 2005, durante l’eccezionale seduta del consiglio comunale tenuta dentro la sala polivalente delle Sughere (unico spazio di socializzazione, attualmente chiuso perché inagibile) venne votata all’unanimità la possibilità di introdurre un "Garante per la tutela dei diritti dei detenuti", da attivare su proposta del sindaco. "L’amministrazione deve riprendere in mano quell’idea - dice Filippi - si tratta di un riferimento istituzionale utile a non lasciare isolato il carcere. Ce lo hanno richiesto stamani anche gli agenti, sentono il bisogno di un mediatore, di un tramite con l’esterno".

Difficile una seconda chance. "Il sovraffollamento è illegalità di Stato, così si ledono i diritti umani", dice Silvia Velo. "Alle Sughere il massimo che si può fare è tenere tutto sotto controllo affinché non esploda il caos. A causa del personale ridotto non esiste nessun percorso di rieducazione e le misure restrittive sulla recidiva impediscono di fatto il recupero. Il carcere viene considerato solo un contenitore a perdere, e questo significa il fallimento delle politiche di governo". Sempre meno risorse. Solimano parla della necessità di ristrutturazioni, bloccata dall’assoluta mancanza di fondi. "Le risorse erogate dal ministero della Giustizia per la manutenzione ordinaria sono ridicole - sottolinea il presidente dell’Arci - tanto che se si fulmina una lampadina i detenuti rimangono al buio. Sezioni fatiscenti, per non parlare delle docce, inguardabili. E un cantiere a lato del campo di calcio, per la costruzione di un nuovo padiglione, ha pure ridotto gli spazi. La riabilitazione è impossibile e anche per noi fare attività di recupero diventa difficile".

Trapani: Uil; troppi detenuti, carcere in situazione emergenza

 

Agi, 10 marzo 2010

 

"In Sicilia con 8.150 detenuti presenti, rispetto la capienza regolamentare di 5086, significa senza ombra di smentita che le carceri scoppiano e l’ordine e la sicurezza sono messi a dura prova". Lo afferma Gioacchino Veneziano, segretario regionale coordinatore della Uil-Penitenziari della Sicilia, che si sofferma in particolare sulla situazione dei quattro penitenziari della provincia di Trapani, dove sostiene che ieri risultavano 800 detenuti a fronte di 556 posti nominali.

Per Veneziano "siamo prossimi al cedimento dell’apparato di sicurezza, poiché il carico di lavoro ha superato abbondantemente il limite di guardia, ed infatti si è ritornati ad operare con turnazioni di oltre otto ore, e si annotano difficoltà nel fruire di risposi e congedi". Secondo la Uil-Penitenziari, i detenuti presenti in provincia di Trapani sono cosi distribuiti: casa circondariale di Trapani 518, (capienza regolamentare 324): Favignana 144 detenuti (capienza 139); Castelvetrano 105 detenuti (capienza 58); Marsala 33 detenuti (regolamentari 35).

Trapani: Alfano; situazione migliore, che nel resto della Sicilia

 

La Sicilia, 10 marzo 2010

 

Nonostante la carenza d’organico regionale complessiva sia di n. 403 unità, dai dati forniti dal Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria risulta che la situazione negli istituti della provincia di Trapani è fra le migliori.

Lo afferma il Ministro della Giustizia, Angelino Alfano, nella nota di risposta fatta pervenire, tramite il Capo della sua Segreteria, Baldassare Di Giovanni, al Presidente del Consiglio Provinciale di Trapani, Peppe Poma, il quale, come si ricorderà, nei mesi scorsi aveva avanzato all’On. Alfano richiesta di notizie e di intervento relativamente allo stato di sovraffollamento presso la Casa Circondariale "San Giuliano" di Trapani.

Il Ministro della Giustizia riconosce tuttavia che la Casa Circondariale di Trapani e le altre strutture penitenziarie della provincia ripropongono la condizione di sovraffollamento che accomuna anche le altre strutture della regione. Ad oggi sono ristretti negli istituti penitenziari della Sicilia ben 7.875 detenuti. L’organico della Polizia penitenziaria previsto per l’intera regione è pari a n. 4.920 unità, ma allo stato ve ne sono in servizio n. 4.517 unità.

Come già detto però, nonostante la carenza regionale complessiva di n. 403 unità, la situazione negli istituti della provincia di Trapani - secondo i dati dell’Amministrazione Penitenziaria - risulta essere fra le migliori: in particolare, per la Casa Circondariale di Trapani a fronte di un organico di n.310 unità ne sono presenti n. 309; per la Casa Circondariale di Castelvetrano l’organico previsto è di 63 unità e ne sono presenti n. 61; infine per la Casa di Reclusione di Favignana l’organico effettivo è di n.92 unità anziché n.99 previste.

Molto più accentuata - sottolinea poi la nota del Ministero della Giustizia - risulta la carenza di personale femminile, che a livello regionale è quantificabile in n. 190 unità, mentre n. 386 sono nel complesso le unità femminili previste di cui presenti n. 196, e che investe pienamente la Casa Circondariale di Trapani, essendo di fatto l’unico istituto nella provincia con sezione femminile. A questo proposito, la nota ministeriale rende noto, per completezza di informazione, che al fine di ovviare alla situazione della sezione femminile della Casa Circondariale di Trapani, il Provveditore Regionale ha diramato un interpello per reperire unità disponibili al distacco presso la sede del carcere di "San Giuliano".

Ringrazio il Ministro Alfano ed il Capo della sua Segreteria, Di Giovanni, per le notizie fornitemi e l’attenzione riservata alla problematica in questione ed alle segnalazioni da me fatte in rappresentanza dell’intero Consiglio Provinciale - ha dichiarato il Presidente Poma - ma, evidentemente, le cifre del Ministero non coincidono con quelle a suo tempo denunciate dalle Organizzazioni Sindacali di categoria, soprattutto per quanto riguarda gli organici della polizia penitenziaria.

Infatti, sulla base dei dati diffusi nei mesi scorsi dai Sindacati di categoria, il personale penitenziario, sarebbe carente di un centinaio di agenti e risulterebbero necessari 60 unità a Trapani (50 uomini e 10 donne), 20 a Favignana, 10 a Marsala e 10 a Castelvetrano.

Inoltre, fra Trapani, Favignana, Castelvetrano e Marsala sarebbero in atto detenute 309 persone in più rispetto alla ricettività massima a fronte della mancanza di almeno 100 agenti nel previsto organico, In particolare, circa 500 sarebbero i detenuti nel carcere del Capoluogo (rispetto alla prevista capienza di 280 persone), di cui 115 per reati di mafia e di camorra, quindi appartenenti al circuito alta sicurezza, e 140 extracomunitari; 150 a Favignana, di cui 64 internati; 107 a Castelvetrano e 45 a Marsala.

Piacenza: detenuto lega bombolette alla cintura e si dà fuoco

 

Piacenza Sera, 10 marzo 2010

 

L’ennesimo, e grave, episodio di aggressione alla polizia penitenziaria è avvenuto nei giorni scorsi e denota, purtroppo, una escalation di aggressività dovuta ai tanti problemi che gravano sul carcere. Un detenuto si è legato alla cintura dei pantaloni alcune bombolette di gas - sono usate nelle celle come fornelletti - e sì è diretto verso un gruppo di ispettori. "Mi faccio esplodere con tutti voi" avrebbe urlato. Subito dopo si è dato fuoco, cercando di innescare il gas per farlo esplodere.

Gli ispettori, però, si sono avventati su di lui, spegnendo le fiamme ed evitando il peggio. Tra l’altro, salvando la vita anche al kamikaze, "Fortunatamente, nessuno dei poliziotti intervenuti è rimasto ferito, ma questo ennesimo episodio di violenza perpetrato dai detenuti nei confronti del personale di polizia penitenziaria, è il segno inequivocabile che a Piacenza la sicurezza va assolutamente ed immediatamente rafforzata: il personale ha il diritto dì operare in sicurezza!".

È la dura nota che il segretario regionale del sindacato Sappe ha inviato al provveditore regionale e alla direzione dell’istituto di via delle Nevate. Tutto questo è avvenuto una decina di giorni dopo che un assistente della penitenziaria era stato aggredito da un detenuto che gli aveva prima spruzzato il gas liquido del fornelletto negli occhi e poi lo aveva colpito con violenza alla spalla procurandogli lesioni varie e ferendolo a un occhio. Il poliziotto era stato salvato da alcuni detenuti albanesi che avevano assistito alla scena.

Quattro sindacati avevano subito puntato il dito contro la direzione del carcere, sottolineando anche come la mancanza di un direttore possa essere alla base di questi episodi. Attualmente, il comandante è assente per malattia e da poco è giunto a Piacenza un funzionario di Parma con il compito di supervisore.

Il segretario regionale del Sappe, Vito Serra, ha proposto subito alcuni rimedi per cercare di tamponare la falla in un carcere che ospita stabilmente circa 400 detenuti e che vede l’organico degli agenti di polizia penitenziaria in continua sofferenza. Secondo il Sappe, occorre concentrarsi su: adeguamento del personale di polizia penitenziaria in numero non inferiore a 30 unità del ruolo agenti e assistenti, dei quali sarebbe necessario inviarne almeno una decina al locale Nucleo traduzioni; invio urgente di un commissario comandante di comprovata esperienza professionale; riorganizzazione dell’Istituto anche tramite l’istituzione delle Unità operative affidate alla responsabilità degli ispettori". Serra chiede anche di inviare alcuni dei nuovi agenti appena usciti dalla scuola a Piacenza. Dall’ultimo corso, solo uno dei nuovi agenti è stato assegnato al nostro carcere.

Lanciano: "Bene - stare"; i detenuti a scuola di relazioni sociali

 

Il Centro, 10 marzo 2010

 

Fornire uno strumento di riflessione sul proprio ruolo professionale e acquisire maggiore consapevolezza delle dinamiche comunicative e relazionali che si sviluppano nell’ambiente lavorativo, per garantire a tutti gli operatori la possibilità di lavorare in un contesto sano. È l’obiettivo del progetto "bene-stare" che ha preso il via nel carcere di Villa Stanazzo di Lanciano, e che in questi giorni si avvia alla conclusione. Un progetto, ideato dalla direzione del penitenziario, che concretizza alcune direttive del ministero della giustizia che mirano a realizzare progetti sul "benessere organizzativo" nelle strutture carcerarie.

"È la comunicazione tra gli operatori a determinare il clima lavorativo", spiegano dalla direzione del carcere, "e il progetto, che mira a migliorarla, riportando al centro la persona come operatore e come detenuto, vuole ridare senso alle relazioni partendo dalla rilevazione dei bisogni di ogni elemento ed evitare il disagio, che distrugge l’ambiente di lavoro".

E il disagio si può prevenire, evitando così che sfoci in eventi drammatici, proprio con una comunicazione efficace tra gli operatori. Il progetto "bene-stare" in tre moduli: quello di informatica, quello di difesa personale per migliorare l’autocontrollo emotivo attraverso l’apprendimento di tecniche di controllo fisico, e il modulo Aspic (associazione counseling e cultura) per capire come incidere sulla spinta motivazionale delle persone.

Ravenna: quattro condanne per episodio corruzione in carcere

 

Ansa, 10 marzo 2010

 

Corruzione in carcere a Ravenna: quattro condanne. Il processo, con rito abbreviato, si è svolto davanti al giudice Corrado Schiaretti. Alla sbarra l’assistenze capo della Polizia penitenziaria, Giovanni Pipoli, accusato di peculato, corruzione ed una serie di falsi: per l’imputato due anni di reclusione (con la sospensione condizionale della pena) e tre anni d’interdizione dai pubblici uffici. Il pm Stefano Stargiotti aveva chiesto tre anni e tre mesi.

Pipoli, difeso dall’avvocato Monica Miserocchi, era accusato di aver fatto entrare in carcere un cellulare trovato nella cella di Antonio Sciuto, 56 anni, originario di Catania, di aver ricevuto in cambio un’auto, e di essersi appropriato di 1.500 euro dal "fondo vincolato" depositato alla direzione del apparentemente a Sciuto e a questi indisponibile. Inoltre era accusato anche di aver favorito la vendita nello spaccio del carcere di determinate marche di sigarette.

Sciuto è stato condannato a due anni di reclusione. Imputato anche il figlio del 56enne, Vincenzo Sciuto, che si è visto infliggere un anno con la sospensione condizionale: fu lui a consegnare al pare il telefonino ed aver acquistato la vettura da regalare a Pipoli. Padre e figlio erano difesi dall’avvocato Carlo Benini.

Tra gli indagati c’era anche un commerciante fornitore di sigarette al carcere, accusato di aver dato delle somme di denaro a Pipoli perché al carcere venissero consegnate "bionde" di una determinata marca: per lui un anno di reclusione con la condizionale. L’imputato era difeso dall’avvocato Giovanni Scudellari. Nel dicembre scorso aveva patteggiato un anno ed undici mesi, con la condizionale, Vito Miacola, assistente capo della Polizia Penitenziaria.

Roma: azienda regala protesi ortopedica a detenuto Rebibbia

 

Adnkronos, 10 marzo 2010

 

Nel 2004, mentre era recluso nel carcere di Viterbo, gli era stata amputata la gamba destra per gravi problemi di carattere vascolare, cardiaco e diabetico. Oggi, sei anni dopo quell’episodio, l’uomo - un detenuto di origine kosovara di 60 anni - potrà tornare a camminare grazie ad una protesi donata da un’azienda privata della Provincia di Roma su interessamento del Garante dei diritti dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni.

Il detenuto - che attualmente si trova nel carcere di Rebibbia Nuovo Complesso - dopo aver lavorato per anni legalmente per mantenere la famiglia, nel 2004 era stato arrestato e condannato a 16 anni di reclusione. In carcere le sue condizioni erano progressivamente peggiorate per colpa del diabete aggravato da problemi vascolari e caricarti. Dopo l’amputazione l’uomo è tornato in carcere dove, fino ad oggi, ha sempre vissuto su una sedia a rotelle.

Informato della situazione, nei mesi scorsi il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni ha contattato una grande azienda ortopedica della Provincia di Roma, la Itop di Palestrina, concordando la fornitura gratuita di una protesi.

D’accordo con la direzione del carcere di Rebibbia Nuovo Complesso e con il parere favorevole del magistrato di Sorveglianza, il detenuto è stato accompagnato a Palestrina per le visite mediche necessarie. A metà febbraio l’uomo ha ricevuto una protesi temporanea, che dopo un periodo di prova di sei mesi, sarà sostituita con quella definitiva.

"Abbiamo agito - ha detto Marroni - con l’intenzione di restituire la dignità e di migliorare la qualità della sua vita all’interno del carcere. Quello alla salute e quello a vivere, anche in cella, una vita dignitosa sono fra i diritti maggiormente violati in carcere. Con la felice conclusione di questa vicenda abbiamo tracciato una strada che, speriamo, possa essere utile anche in altre circostanze".

Milano: "Fà la cosa giusta", detenuti espongono i loro prodotti

 

Redattore Sociale, 10 marzo 2010

 

Si chiama "Sprigioniamoci!", la sezione dedicata alle realtà di economia carceraria all’interno della fiera del consumo critico Milano 12-14 marzo). Dagli alimentari all’abbigliamento, ma anche spettacoli teatrali e laboratori per le scuole.

Vengono da Bollate e San Vittore, ma anche da Venezia e dalle Vallette di Torino. I detenuti lavoratori delle carceri italiane esporranno i loro prodotti a Fà la cosa giusta!

(12-14 marzo, Fieramilanocity - padiglioni 1 e 2) nell’ambito di "Sprigioniamoci!", la sezione dedicata alle realtà di eonomia carceraria. Qui i visitatori potranno scoprire i prodotti d’eccellenza "fatti in carcere" (alimentari, abbigliamento e accessori) ma anche le cooperative che allestiscono spettacoli teatrali o che organizzano laboratori per le scuole. La sezione comprenderà una parte espositiva, con stand delle molteplici realtà del "mondo carcere", il programma culturale, animato da incontri ed eventi a tema e un programma dedicato alle scuole, ricco di attività destinate alle classi. Ma l’economia carceraria accompagnerà il pubblico fin dall’ingresso in fiera: quest’anno, infatti, la borsa "ufficiale" dei visitatori è prodotta dalla cooperativa Ecolab del carcere San Vittore di Milano. Un modello esclusivo, realizzato con pvc riciclato, realizzato rigenerando la plastica di striscioni pubblicitari. Ciascun esemplare risulterà, così, unico e diverso dagli altri.

Tra i nuovi espositori, sarà per la prima volta a Fà la cosa giusta! la cooperativa "Opera in Fiore" del carcere di Opera, con le piante autoctone e gli ortaggi detenuti coltivano all’interno delle 4 serre create nell’istituto di Opera. "L’oro non luccica" è invece l’esposizione di gioielli realizzati con materiali metallici riciclati dalla sezione femminile della Casa circondariale di Mantova, ma ci saranno anche i cosmetici realizzati con le erbe coltivate nel carcere di Santa Maria Maggiore a Venezia. Non mancheranno realtà associative come l’associazione Girasole, che dà sostegno ed aiuto ai familiari dei detenuti e l’associazione Bambinisenzasbarre, che offre sostegno psicopedagogico ai minori che hanno uno o entrambi i genitori in carcere. Tra i progetti speciali, da segnalare lo spazio "Puntozero", dove i giovani della cooperativa teatrale del carcere Beccaria si occuperanno dell’animazione dei bambini, all’interno della sezione Monelli ribelli, con clownerie, giochi e brevi esibizioni teatrali.

Treviso: i minori dell’Ipm; a scuola di calcio, contro la violenza

 

Ansa, 10 marzo 2010

 

A lezioni di calcio per sconfiggere l’emarginazione e l’impulso alla violenza: è l’obiettivo del progetto "Un pallone di speranza" che è stato sperimentato per la prima volta in Italia nel carcere minorile Santa Bona di Treviso. A conclusione del ciclo di lezioni teoriche e pratiche che hanno coinvolto i detenuti, lunedì pomeriggio sarà organizzata una partita di calcio tra gli arbitri della sezione di Treviso e alcuni dei giovani partecipanti al corso, presente il presidente nazionale del settore giovanile e scolastico della Federcalcio, Massimo Giacomini.

I detenuti hanno partecipato a lezioni pratiche e teoriche bisettimanali, in campo, in palestra e in aula, per complessive 20 ore. Alla fine del ciclo di incontri, ai carcerati sarà consegnato un attestato di partecipazione. Tra le finalità educative del progetto, l’insegnamento del rispetto delle regole e della capacità di reprimere le manifestazioni di intolleranza e violenza, l’esaltazione del fair play e le strategie di azione per risolvere i problemi, il controllo delle emozioni e la competenza comunicativa.

Bologna: nuova Comunità per minori sottoposti misure penali

 

Redattore Sociale, 10 marzo 2010

 

Nasce una nuova struttura per minori sottoposti a provvedimenti penali. La comunità "Augusta Pini" ospiterà otto minori, tutti maschi fra i 15 e i 18 anni, che usufruiscono di sconti di pena o svolgono un periodo di messa in prova. A seguirli saranno due psicologi e otto educatori professionali della cooperativa sociale Csapsa (Centro studi e analisi di psicologia e sociologia applicata), che opera a Bologna da circa trent’anni. La struttura si trova in via del Cardo in un edificio ristrutturato e messo a disposizione dalla Fondazione Augusta Pini ed Istituto del buon pastore.

"Le comunità sono la migliore alternativa al carcere - afferma Giuseppe Centomani, direttore del Centro di giustizia minorile dell’Emilia Romagna -. Nel 2009 abbiamo inserito 130 ragazzi in questo tipo di strutture. Negli ultimi vent’anni, per fortuna, il ricorso al carcere per i minori si è rivelato una soluzione ormai residuale. Ci si è resi conto che il carcere non è molto utile per l’educazione e il recupero dei minorenni, e in molti casi la detenzione si trasformava in una vera e propria scuola di delinquenza". La nuova comunità nasce "a seguito di una valutazione sulle caratteristiche e le carenze del sistema dei servizi per i minori presenti sul territorio bolognese - continua il direttore -. Ci siamo resi conto che era necessaria una struttura maschile ad hoc".

L’equipe della nuova struttura guiderà i ragazzi in un percorso di recupero ed integrazione. Per preparare adeguatamente gli operatori sono stati realizzati percorsi di approfondimento delle competenze educative necessarie alla gestione di minori sottoposti a misure penali. Per Csapsa non è la prima esperienza nel campo. La cooperativa gestisce infatti già tre comunità analoghe, due femminili e una mista, dove vengono accolti circa 27 minori allontanati dalle famiglie per gravi problematiche nelle relazioni familiari come violenza, abbandono e abusi. "Il nostro obiettivo è quello di aiutare questi giovani ad acquisire fiducia in se stessi e nelle proprie capacità per vivere in maniera indipendente e responsabile" spiega Giulio Baraldi, coordinatore delle comunità educative della cooperativa.

Brescia: "Di carcere si muore"; venerdì un convegno a Rovato

 

Ansa, 10 marzo 2010

 

"Una serata di denuncia di ciò che succede nel nostro Paese dove esiste la pena di morte". Così Beppe Corioni, rappresentante del Centro Sociale 28 Maggio di Rovato, ha presentato in una conferenza stampa l’iniziativa organizzata per venerdì sera. "Rientra in un percorso politico che abbiamo iniziato a Capodanno con il presidio sotto il carcere", ha spiegato, "e che vuole portare alla luce una chiara e netta denuncia: di carcere si muore".

In un documento distribuito in conferenza stampa gli organizzatori hanno fatto sapere che "nel 2009 sono state 175 le morti nelle carceri italiane, il numero più alto dal 2000 ad oggi, per un totale di 1564 persone in meno di dieci anni". Senza contare "le morti che nessuno rivendica, quelle facilmente occultabili, quelle di tanti immigrati e tante immigrate che, non avendo il permesso di soggiorno, scompaiono come se non fossero mai esistiti".

Manlio Vicini, legale dell’associazione Diritti per Tutti di Brescia, ha sottolineato l’importanza di affrontare un tema "che la politica trascura, parlando di carcere solo quando ci sono delle inventate emergenze sicurezza o sovraffollamento".

Non a caso il titolo della serata è "La pena di morte taciuta", che prende spunto dalla vicenda gravissima di Stefano Cucchi, il detenuto morto in circostanze molto sospette a Roma, ma rimanda anche alle centinaia di suicidi in carcere.

Venerdì sera ci saranno i familiari di Stefano, Rita e Giovanni, "che con coraggio stanno chiedendo giustizia", ha continuato Corioni, "ai quale vogliamo stare vicino, senza paura di possibili ripercussioni, bensì con la paura del silenzio che ci circonda, dell’impunità e dell’indifferenza". Con loro anche Mario Fappani, garante dei detenuti, che illustrerà la situazione del carcere cittadino di Canton Mombello, "uno dei peggiori d’Italia" ha ricordato Vicini. Appuntamento quindi venerdì 12 marzo alle 20,30 al Centro Sociale 28 Maggio in via Europa 54 a Rovato, "contro l’egoismo e la mancanza di solidarietà, i giorni che passano nell’oblio della rassegnazione senza che nessuno alzi la testa", ha concluso Corioni.

Bologna: il Garante dei detenuti, organizza un ciclo di seminari

 

Ansa, 10 marzo 2010

 

L’Ufficio del Garante delle persone private della libertà personale, che ha tra i compiti istituzionali quello di svolgere un’attività di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, propone una serie di incontri sull’attuale situazione carceraria, in collaborazione con la Provincia di Bologna.

L’intento è quello di fornire un contributo ad una miglior comprensione dell’attuale universo carcerario, partendo dalla situazione di sovraffollamento delle varie strutture di tipo penitenziario (comprendendo anche case di lavoro, case di cura e custodia, ospedali psichiatrici giudiziari), sempre più contenitori di persone detenute in ragione di una ritenuta pericolosità sociale che spesso le condanna a lunghe e incerte pene aggiuntive.

Gli argomenti dei sei appuntamenti, in programma da domani fino al 13 maggio, vanno dalla funzione rieducativa della pena nell’ottica della tutela della collettività, alla custodia cautelare, alle misure di sicurezza detentive, alla condizione degli stranieri detenuti. Particolare attenzione sarà dedicata al tema dell’informazione sul carcere e a quello delle vittime dei reati.

I relatori saranno giuristi, magistrati, rappresentanti delle istituzioni, giornalisti, docenti universitari e operatori con cui, al termine di ogni incontro, gli intervenuti potranno interloquire. Il primo incontro dal titolo "L’emergenza carceri" si svolgerà domani, dalle 14 alle 18, in Cappella Farnese di Palazzo d’Accursio.

Libri: in "Mai ci fu pietà..." la storia della banda della Magliana

 

Ansa, 10 marzo 2010

 

È stata la presenza di Antonio Mancini, denominato un po’ pasolinianamente l’Accattone, uno dei membri della famigerata Banda della Magliana, ora pentito, la presenza a sorpresa alla presentazione, a Milano, del libro sul gruppo criminale "Mai ci fu pietà" della giornalista Angela Camuso, già illustrato alla stampa lo scorso dicembre a Roma.

Un uomo all’apparenza simpatico, ma da un passato che lo ha visivamente segnato: gli sono stati attribuiti cinque omicidi per i quali gli sono stati comminati 35 anni di carcere e al momento è ai domiciliari in una località segreta. "Oggi sono un’altra persona - ha detto -. La cosa che mi piace del libro è che l’autrice ricostruisce le cose senza aggiungere nulla di suo; dice la verità. L’unica cosa che le contesto è il titolo, perché si riferisce a me che mi sarei fatto scudo di un bambino, una cosa mai fatta ma scritta in un verbale. Ma la colpa è mia perché prima della stampa mi aveva mandato una copia per verificare i particolari, ma io non l’ho fatto".

"Una delle cose che colpisce - ha osservato il magistrato Guido Salvini - è che la Banda della Magliana non compiva assassinii solo per guadagnare o per motivi economici, ma erano omicidi rituali in cui il malvivente si soddisfa perché è la dimostrazione di un potere". Il fondatore del Tg5, Enrico Mentana, ha stigmatizzato "il mito romantico di questa criminalità spacciata come simile a quella di Jean Gabin che era comunque un eroe a suo modo". L’ex direttore del Corriere della Sera, Paolo Mieli, ha sottolineato come si tratti di "un libro di scrittura che si basa sui verbali invece che sulle intercettazioni".

Immigrazione: e l’Onu attacca il "Pacchetto sicurezza" italiano

 

Ansa, 10 marzo 2010

 

Duro intervento al Senato di Navanethem Pillay, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, che ha espresso preoccupazione per il "Pacchetto sicurezza" italiano esortando le autorità ad acconsentire alla ratifica della Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori emigranti e dei membri delle loro famiglie.

Dalla presenza dei militari in città, all’accoglienza che viene riservata agli immigrati in arrivo nel Belpaese fino alla situazione di grave sovraffollamento delle carceri e al reato clandestinità, Pillay ha posto un particolare accento sull’importanza di integrazione degli immigrati perché numerosi lavoratori stranieri stanno ora cercando in Italia le stesse opportunità che gli italiani hanno trovato all’estero in passato.

Continuo a essere preoccupata dalle misure contenute nel "Pacchetto sicurezza" italiano - ha spiegato Pillay - che rende lo status irregolare di un migrante una circostanza aggravante per un reato comune. Mi auguro sia assolutamente chiaro che è responsabilità delle pubbliche autorità assicurare che i migranti non siano stigmatizzati, calunniati o aggrediti.

Quando forze militari sono chiamate a presidiare le strade, o nel momento in cui dichiarazioni di pubblica emergenza o la formazione di gruppi di vigilanza sono tra le risposte più visibili alla migrazione - ha sottolineato - il sistema di tutela dei diritti umani ne subisce le conseguenze. Inoltre, politici e pubblici funzionari dovrebbero astenersi da dichiarazioni che screditino i migranti e alimentino sospetti.

Infine, Pillay si è soffermata sui drammatici fatti di Rosarno: "In questo contesto, noto che si stanno conducendo indagini sui recenti episodi di violenza contro i migranti avvenuti in Italia meridionale, e sollecito le autorità a procedere speditamente per assicurare i responsabili alla giustizia e adottare misure appropriate a prevenire recrudescenze di tale violenza".

Usa: condannato a morte tenta il suicidio, esecuzione rinviata

 

Ansa, 10 marzo 2010

 

Alla vigilia della sua esecuzione, un condannato a morte dell’Ohio ha tentato il suicidio in carcere e, per prestargli i soccorsi necessari a salvargli la vita, la sua esecuzione è stata rinviata di una settimana. Protagonista della vicenda è Lawrence Reynolds, 43 anni, di Akron, in Ohio. L’uomo l’11 gennaio del 1994 era stato condannato a morte per aver violentato e strangolato una vicina di casa di 64 anni. Quando commise il fatto aveva 27 anni.

Portò gli amici a vedere il cadavere della donna. La portavoce del Department of Rehabilitation and Correction dell’Ohio, Julie Brown, ha riferito che il detenuto è stato trovato incosciente nella sua cella nel carcere di Youngstown, in Ohio, la notte prima di essere trasferito nel carcere di Lucasville, dove per le 10 del mattino era fissata la sua esecuzione. Il detenuto aveva ingerito un quantitativo imprecisato di farmaci. È stato portato d’urgenza in ospedale, e i medici sono riusciti a salvarlo. "Per legge siamo tenuti ad osservare due doveri precisi - ha spiegato Julie Brown -: da un lato dobbiamo provvedere alla salute del detenuto fino al momento dell’esecuzione; dall’altro dobbiamo eseguire correttamente la sentenza".

Per questo motivo il governatore dello Stato, Ted Strickland, esercitando il suo potere di grazia ha rinviato l’esecuzione al 16 marzo prossimo. È la seconda volta che l’esecuzione di Reynolds viene rinviata. Reynolds avrebbe dovuto già essere messo a morte l’8 ottobre scorso mediante iniezione letale. Ma tre settimane prima, durante l’esecuzione di un altro condannato, il boia non era riuscito a trovare la vena in cui iniettare l’anestetico letale prescritto dalla legge, il thiopental sodium. Per questo in Ohio tutte le condanne a morte erano state temporaneamente sospese, compresa quella di Reynolds.

Il caso apre domande di carattere etico non solo sulla legittimità della pena di morte, su cui in America da anni è in corso un acceso dibattito, ma sul senso dell’esercizio della professione medica. "Quali sono in questo caso i livelli di decenza per un medico?" ha chiesto Richard Dieter, direttore del Death Penalty Information Center di Washington.

Non è la prima volta negli Stati Uniti che un detenuto tenta il suicidio 24 ore prima della sentenza. Il caso più clamoroso riguarda un condannato del Texas, David Lee Herman, che nel ‘97 si tagliò la gola e i polsi 24 ore prima dell’esecuzione. Fu salvato, e giustiziato 24 ore dopo.

Venezuela: scontri tra bande in carcere, otto i morti e 20 i feriti

 

Ansa, 10 marzo 2010

 

Scontri a colpi d’arma da fuoco e rudimentali coltelli tra bande rivali nel carcere di Yare, in Venezuela: morti 8 reclusi, feriti altri 20. Lo ha reso noto la direttrice della prigione, Gladys Galope, dopo che l’intervento della Guardia Nazionale ha sedato la rivolta. Le carceri venezuelane sono ritenute tra le più violente dell’area, con un bilancio di almeno 300 vittime ogni anno.

Cuba: nasce il "Comitato Zapata", per libertà a detenuti politici

 

Ansa, 10 marzo 2010

 

È nato a Cuba il "Comitato Orlando Zapata Tamayo per la libertà dei detenuti politici", creato da un gruppo di dissidenti allo scopo di adottare tra tutti gli oppositori una "Posizione comune condivisa" in materia di diritti umani. "È arrivata l’ora di un atto maturo all’interno della comunità civile, in favore della democrazia e del rispetto dei diritti umani a Cuba" afferma in un comunicato il coordinatore del gruppo, Juan del Pilar Goberna. Il comitato prevede "proposte pacifiche dentro e fuori dell’isola in appoggio a tutte le richieste dei prigionieri politici e di coscienza e anche dei detenuti comuni". Il nuovo gruppo si ripromette di far conoscere ai cubani i nomi di 200 detenuti politici, fra cui una ventina con problemi di salute.

Le autorità cubane negano che ci siano detenuti politici e considera i dissidenti "mercenari" al soldo degli Stati Uniti. La morte del dissidente detenuto Orlando Zapata il 23 febbraio scorso dopo due mesi e mezzi in sciopero della fame ha unito i dissidenti di diverse tendenze.

Norvegia: 217 mln dollari per Halden Prison un carcere di lusso

 

Ansa, 10 marzo 2010

 

In Norvegia sta per aprire una vera e propria prigione di lusso chiamata Halden Prison. Se fino ad oggi la parola carcere ci faceva venire in mente ambienti fatiscenti e cupi, è arrivato il momento di cambiare il nostro modo di pensare. La struttura ospiterà fino a 252 detenuti e sarà la seconda prigione più grande di tutto il Paese.

Le pareti della Halden Prison saranno decorate da graffiti, l’illuminazione sarà curata da Philips, al suo interno ci sarà uno studio di registrazione, una palestra, televisori al plasma e le stanze saranno come quelle di un albergo. Il carcere, che aprirà il primo aprile, è già stato definito una "prigione a cinque stelle".

Per la sua costruzione sono stati investiti 217 milioni di dollari, di cui uno è stato completamente utilizzato per la cura dell’aspetto decorativo della struttura. La Halden Prison è stata progettata per assomigliare ai dormitori universitari e a quanto pare l’obiettivo è stato centrato.

 

 

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