Rassegna stampa 4 gennaio

 

Giustizia: non sono poche le carceri, ma sono troppi i detenuti

di Franco Corleone

 

Terra, 4 gennaio 2010

 

Ci siamo lasciati alle spalle un anno orribile e terribile, caratterizzato dalle proteste dei detenuti nel mese di agosto e dalla morte di Stefano Cucchi. Nel pieno dell’estate il mondo delle carceri, un’umanità abbandonata e disperata, ha fatto sentire la propria voce per denunciare condizioni di vita indecenti e disumane.

Il Governo e l’Amministrazione penitenziaria hanno manifestato un’assenza di reazione assolutamente imbarazzante; nessuna iniziativa per mostrare una attenzione anche minima alle richieste legittime e ragionevoli. Intanto in carcere si continua a morire; per suicidio o per cause misteriose. Continua a scorrere il sangue prodotto dall’autolesionismo: l’unico linguaggio di persone deboli e fragili che usano il proprio corpo per comunicare una disperazione inascoltata.

Il calvario di Stefano Cucchi ha suscitato un orrore diffuso anche in settori dell’opinione pubblica che in questi anni erano state suggestionate dalle evocazioni della certezza della pena e del mito del carcere come luogo di eliminazione dei conflitti. È una tragedia che deve far coltivare l’indignazione più profonda e far gridare che "mai più, mai più" possa accadere un accanimento così bestiale contro un corpo meritevole solo di rispetto.

È stata la bancarotta della pietà, ma occorre chiedersi come è potuto accadere. La spiegazione è una sola: medici, giudici, forze di polizia hanno introiettato la convinzione che un tossicodipendente, un "drogato" non è un uomo, non ha diritti e può essere vilipeso con la convinzione dell’impunità.

Sembra proprio che ci si aspetti (o ci si auguri) una rivolta o un episodio di violenza, ovviamente verso un direttore o un agente di polizia penitenziaria per gridare all’emergenza e dare sfogo a una spirale di repressione e violenza liberatoria. E poi ottenere le agognate risorse per una nuova stagione di edilizia carceraria "d’oro". Affermo invece che troppi sono i detenuti e non poche le galere e che occorre un piano straordinario per liberare i tossicodipendenti e per aumentare le misure alternative.

È indispensabile la convocazione degli Stati Generali del Carcere per un confronto tra tutte le realtà e i soggetti che si occupano di questo pianeta dimenticato e sconosciuto per scrivere una agenda delle riforme indispensabili.

Il cardinale Tettamanzi ha visitato il carcere di San Vittore il giorno di Natale ed è rimasto sconvolto per lo stato delle celle che "offendono la dignità umana". Ma le parole davvero rivoluzionarie rispetto al senso comune sono state quelle dedicate alla composizione della popolazione detenuta: l’arcivescovo erede di Martini ha parlato di immigrati e di un percorso per il rientro in una società ospitale per tutti "perché la più grande etnia che fonda e spiega tutte le altre etnie particolari è quella umana". In tempi di barbarie e razzismo è una lezione da meditare per la Milano rassegnata ai pogrom.

Giustizia: Idv; detenuti facciano "class action" contro lo Stato

 

Adnkronos, 4 gennaio 2010

 

"Ritengo un passo importante l’entrata in vigore dell’azione collettiva nel nostro Paese, del resto già nella passata legislatura sono stato tra i primi a promuovere con un progetto di legge questo importante strumento a difesa dei cittadini. Ora che finalmente è a disposizione ritengo debba essere usata per scopi nobili e sarà mia premura informare i soggetti danneggiati della possibilità di utilizzarla. Tra questi soggetti, mi rivolgerò ai detenuti informandoli personalmente nelle mie prossime visite ispettive della possibilità di intraprendere un azione di classe contro chi non riesce a garantire i principi costituzionali secondo cui la pena deve essere rieducativa e riabilitativa e non solo afflittiva". È quanto afferma Stefano Pedica, senatore dell’Italia dei Valori.

"La società ha bisogno di detenuti in grado di non nuocere più alla società e non di persone incattivite e abbrutite da un sistema che non funziona. Non è più accettabile che lo Stato spenda più di 5miliardi l’anno per mantenere in ozio 70mila persone. È urgente rivedere il sistema delle pene e queste devono passare necessariamente attraverso il lavoro delle persone recluse. Nei prossimi giorni - annuncia - depositerò un pacchetto di disegni di legge che avranno l’obbiettivo di delineare una riforma organica del sistema carcerario".

Giustizia: Sappe; mondo politico, ascolti parole di Napolitano

 

Adnkronos, 4 gennaio 2010

 

"Ci auguriamo che la classe politica ed istituzionale del Paese non trascuri le importanti e pesanti parole dette dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sulle nostre carceri terribilmente sovraffollate e ci si dia dunque da fare - concretamente e urgentemente - per una nuova politica della pena, necessaria e non più differibile, che ripensi organicamente il carcere e l’Istituzione penitenziaria". È l’appello lanciato alla classe politica da Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe.

"Oggi il nostro Paese ha raggiunto un record di detenuti - 66mila circa le presenze -, il più alto numero mai registratosi nella storia. È dunque auspicabile che si concentrino sforzi comuni per varare una nuova legislazione penitenziaria, che riporti alla normalità le carceri, che preveda un maggiore ricorso alla misure alternative alla detenzione, delineando per la Polizia Penitenziaria un nuovo impiego ed un futuro operativo, al di là delle mura del carcere, parallelamente all’affermarsi del suo ruolo quale quello di vera e propria polizia dell’esecuzione penale".

Capece rinnova la richiesta al Ministro della Giustizia Angelino Alfano ad incontrare quanto prima il sindacato: "nelle scorse settimane abbiamo valutato positivamente la decisione del Ministro Guardasigilli di percorrere la tanto da noi auspicata strada dei circuiti penitenziari differenziati".

"La situazione penitenziaria è infatti ogni giorno sempre più incandescente - aggiunge - e le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria sono costretti a turni di servizio molto pesanti in termini di stress e di sicurezza, come dimostrano anche le costanti inaccettabili aggressioni a nostri Agenti, l’ultima nel carcere genovese di Marassi l’ultimo giorno dell’anno. Diciamo al Ministro Alfano, che sappiamo molto sensibile anche sulla situazione penitenziaria: incontriamoci al più presto, insieme - conclude Capece - possiamo trovare soluzioni condivise per alleggerire il sistema".

Giustizia: Uil; il sistema penitenziario da innovare e legalizzare

 

Adnkronos, 4 gennaio 2010

 

"Non possiamo non esprimere il più vivo apprezzamento e la totale condivisione alle parole che il Capo dello Stato ha voluto riservare allo stato di criticità e sofferenza in cui versa l’intero sistema penitenziario. Nel tradizionale messaggio di fine anno il Presidente Napolitano ha voluto richiamare l’attenzione e sollecitare la coscienza dell’intero Paese rispetto alla questione penitenziaria e alla gestione complessiva del sistema giustizia".

Questo il commento di Eugenio Sarno, Segretario Generale della Uil Pa Penitenziari, alle parole del Presidente della Repubblica pronunciate la sera del 31 dicembre "Sono certo che quando il Presidente ha fatto riferimento alla realtà penitenziaria come una realtà in cui ci si sente privati dei diritti elementari pensava anche, soprattutto, al nostro personale, quotidianamente privato dei propri diritti.

Vogliamo credere che l’esortazione del Presidente sia il solco entro il quale il Parlamento saprà e vorrà muoversi per definire quelle soluzioni imprescindibili e necessarie per ridare ossigeno all’universo penitenziario. Il nostro auspicio è che i prossimi 10 e 11 gennaio la discussione della mozione parlamentare sulle criticità del sistema penitenziario, sottoscritta da circa 100 parlamentari, possa essere propedeutica a quei fatti concreti di cui si avverte l’indispensabilità.

Il 2009 è stato certamente l’anno horribilis per il pianeta carcere in cui ogni record negativo è stato polverizzato. Dalle punte di sovraffollamento, ai suicidi in cella. Riteniamo che il Ministro Alfano sia consapevole di ciò e che non abbia alcuna intenzione di passare alla storia come il Ministro delle negatività. Anche per tali ragioni siamo risoluti nel credere che il 2010 marcherà un nuovo, concreto, impegno alla ricerca delle soluzioni possibili a cominciare dall’analisi del cosiddetto fenomeno delle sliding doors.

La brevità dei processi, un uso meno sistematico alla custodia cautelare, il maggior ricorso a pene e sanzioni alternative alla detenzione, l’implementazione degli organici - sottolinea Eugenio Sarno - sono solo alcune delle risposte adeguate a deflazionare l’emergenza sovraffollamento.

Non c’è dubbio alcuno che se il Ministro Alfano e il Capo del Dap Ionta vorranno concretamente misurarsi con la sfida dell’innovazione e della legalizzazione del nostro sistema penitenziario troveranno, come sempre, nella Uil Pa Penitenziari un interlocutore disponibile, serio, competente ed affidabile" Come prassi ormai consolidata la Uil Pa Penitenziari rende noto il tabellino settimanale degli eventi critici determinatisi negli istituti penitenziari "Purtroppo - conclude il Segretario della Uil Pa Penitenziari - anche questa settimana dobbiamo registrare agenti aggrediti e feriti da parte dei detenuti.

È accaduto a Lanciano e Marassi. Con tali ferimenti il numero complessivo (anno 2009) degli agenti feriti che ha riportato prognosi superiore ai tre giorni sale a 151. Da registrare, inoltre, la sospensione delle proteste a Vicenza che si erano protratte ad oltranza per oltre un mese. Giovedì a Siracusa il rifiuto dei detenuti di rientrare dai passeggi e la successiva, rumorosa, protesta, ha determinato qualche momento di tensione gestita con encomiabile professionalità da parte del personale".

Giustizia: Osapp; dati Dap sull'affollamento non ci convincono

 

Agi, 4 gennaio 2009

 

"Il numero di 63.945 detenuti presenti nelle carceri italiane, pari a circa 1.500 detenuti in meno che a fine 2009, non ci convince assolutamente anche tenendo conto della ferialità di alcune aule di giustizia e dei permessi in fruizione da parte di alcuni detenuti per le festività natalizie". Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp, Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria, contesta gli ultimi dati dell’amministrazione penitenziaria. "Né tanto meno ci convincono - aggiunge - i dati della capienza massima sostenibile pari a 66.540 detenuti ed aumentata di circa 3.000 nuovi posti ricavati chissà dove.

Altrettanto dubbi i dati di alcune regioni quali, ad esempio, la Toscana che avrebbe 710 posti-detenuto in più rispetto ai presenti (4.976 conto 4.266) oppure il Lazio che ne avrebbe addirittura 1.211 in più (7.051 contro 5.840): basta recarsi in qualsiasi carcere di queste regioni per rendersi conto delle realtà di disagio e di sofferenza esistenti".

Per il segretario dell’Osapp, "non è solo un problema di cifre inesatte o parziali fornite, riteniamo, esclusivamente per la sopravvivenza di un’amministrazione che nel biennio 2008-2009 ha fallito su tutti i piani": è arrivato il momento per il governo e il ministro Alfano di "fare chiarezza definitiva sul futuro di una pubblica amministrazione a cui sono destinate ingentissime risorse economiche, a parte quelle dell’ultima legge finanziaria, pressoché a fondo perduto e senza progetti che migliorino le condizioni di vita nelle carceri ed i risultati in termini di maggiore sicurezza per la collettività".

È la polizia penitenziaria, oltre ai detenuti, conclude Beneduci, "che da anni fa le spese di sprechi e inefficienze. Soprattutto il Corpo è stanco di essere oggetto di sospetti ed illazioni per ogni morte che il carcere genera in forma oramai endemica, visto che con organici fermi al 1992, quando i detenuti erano metà degli attuali, non si è più in grado di prevenire alcunché".

Giustizia: il Dap organizza "la Befana", per i figli dei detenuti

 

Ansa, 4 gennaio 2010

 

Sarà una Befana particolare per i figli piccoli dei detenuti di sei istituti di pena italiani: la consegna dei doni avverrà nelle sale adibite ai colloqui che per l’occasione saranno attrezzate per alleggerire il più possibile il peso dell’ ambiente carcerario. La prima iniziativa è in programma il 5 gennaio a Catania; il 6 sarà la volta di Roma (Rebibbia e Regina Coeli), Milano (Opera e San Vittore), e Lecce.

All’appello lanciato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha risposto un gruppo di ditte di giocattoli e materiale per l’infanzia. La Befana cade in un momento particolare per il mondo e il personale penitenziario, scosso nelle scorse settimane dal dibattito sul sovraffollamento delle carceri italiane e, in particolare, dalla polemiche seguite alla morte di Stefano Cucchi, avvenuta a Roma.

"È una occasione di distensione che vuole mostrare il vero volto della polizia penitenziaria, impegnata ogni giorno nella sicurezza ma anche nella tutela dei diritti individuali, come, in questo caso, quelli del rapporto tra i detenuti e i loro figli" spiega Sebastiano Ardita, direttore Generale dei detenuti e del Trattamento, che ha promosso l’iniziativa. Il personale, in questa circostanza, è stato espressamente sensibilizzato per "operare con la massima cortesia nei confronti del pubblico" e invitato a rivolgersi sempre ai bambini con un sorriso. In una nota ai provveditori regionali delle carceri, Ardita segnala appunto che uno dei problemi è la mancanza di sale colloqui "a misura di bambino" con la conseguenza che genitori e figli non sono in condizioni di compiere le più semplici azioni naturali, come, ad esempio, giocare. I controlli dei familiari e dei bambini prima degli incontri con i parenti reclusi creano, inoltre, nei piccoli "elevati livelli di ansia e preoccupazione".

Per garantire il rispetto il diritto dei bambini ad un rapporto dignitoso con il genitore in carcere, Ardita ha chiesto ai responsabili penitenziari di aumentare - in linea con le possibilità - l’uso delle aree verdi per i colloqui, a mantenere ben puliti gli ambienti interni ed esterni (arredi, pareti colorate, prismi e tubi di legno...) piantando alberi, collocando panchine e pensiline. Con lo stesso fine, si è chiesto alle aziende di trasporto pubblico cittadino di predisporre fermate nei pressi degli istituti di pena o di potenziare il servizio.

Lettere: Uepe; continua il dibattito sul progetto "Mare Aperto"

 

Lettere alla Redazione, 4 gennaio 2010

 

Egregio Dr. Petralla, sono costernata dal contenuto della sua risposta nella quale mette in dubbio la veridicità delle mie affermazioni. È mortificante aver subito un sopruso e non poterlo rivendicare legittimamente.

È grave che lei, in quanto responsabile del Progetto, ignori completamente quanto è avvenuto nel Provveditorato della Regione Toscana, dove gli psicologi sono stati congedati telefonicamente dai Responsabili degli uffici Epe e revocato frettolosamente il loro incarico, in quanto da gennaio 2010 le convenzioni saranno stipulate con i nuovi consulenti psicologi.

Tali disposizioni non sembrano essere iniziative "selvagge" di qualche singolo Uepe, come lei allude, ma precise indicazioni provenienti dalla Direzione dell’Amministrazione Penitenziaria. Ad avvalorare la mia affermazione è la conferma telefonica che ho ricevuto direttamente dal Provveditorato. Pertanto direi che è "incauto" da parte sua dichiarare che non esiste alcun nesso tra l’avvio del progetto Mare Aperto e la revoca dei nostri incarichi.

Inoltre, quanto è avvenuto non solo è irrispettoso nei confronti di noi professionisti che operiamo da anni all’interno dell’istituzione penitenziaria, ma è, a dir poco discutibile, la modalità con la quale siamo stati "dismessi" e con la quale sono stati selezionati i nuovi consulenti psicologi. Resto in attesa di una sua ulteriore precisazione in merito.

 

Dr.ssa Antonella Lettieri

 

Leggo solo oggi alcune lettere di colleghe psicologhe ex art. 80 in merito all’approvazione del Progetto Mare Aperto e sono d’accordo con loro quando affermano che c’è poca attenzione alla professionalità degli psicologi e al ruolo fondamentale che essi svolgono in relazione al trattamento penitenziario. Mi sembra poco costruttivo dire che i 39 psicologi siano stati scelti per il progetto Mare Aperto "senza selezione e in modo molto discrezionale" (cfr lettera della dott.ssa Fineschi del 31.12.2009).

Gli psicologi assegnati al progetto in questione hanno vinto un concorso pubblico, durato ben due anni finalizzato al trattamento penitenziario visto e considerato che la figura dello psicologo era ed è inserita nell’area trattamentale. Aver scelto questi professionisti mi sembra tutt’altro che una scelta discrezionale tanto più nella pubblica amministrazione si "dovrebbe " entrare per concorso.

A mio avviso il problema è se mai un altro: l’Amministrazione penitenziaria deve decidere se lo psicologo è una figura che ritiene cruciale nel trattamento o un optional. Mi sembra molto grave, ad esempio che le piante organiche non prevedano più lo psicologo di ruolo, mentre per altri professionisti (educatori, assistenti sociali) è prevista la figura in organico. Lo psicologo può lavorare al Dap solo da consulente, persino il vincitore di concorso. E non vengano a dirci che le funzioni sono state trasferite alle Asl, perché, per quanto ne so, sono stati trasferiti alle Asl 16 psicologi, mentre i 39 vincitori del concorso e i 400 consulenti sono rimasti al Dap ad occuparsi di trattamento penitenziario.

Non mi risulta, infatti, che noi 39 vincitori di concorso siamo mai stati trasferiti al Servizio Sanitario, viceversa oggi dovremmo essere dipendenti di una Asl e non consulenti al Ministero della Giustizia. Oggi lavoriamo da consulenti presso gli Uepe non perché aspiriamo al precariato, come diceva una collega nella sua lettera, ma perché vogliamo essere assunti nell’area trattamentale così come prevedeva il concorso per il quale abbiamo studiato numerosi anni.

Propongo alle colleghe ex art. 80 di non iniziare una sterile "guerra tra poveri" ma di chiedere al Dap il rispetto e per la nostra professionalità, a partire dal riconoscimento di diritti dei lavoratori, siano essi vincitori di concorso o consulenti, iniziando a prevedere il ruolo di psicologo al Dap, perché è paradossale che 400 psicologi consulenti e 39 psicologi vincitori di concorso lavorino per l’Amministrazione e non esita il ruolo di psicologo al Dap, a differenza di quanto accade per altre figure professionali. Siamo professionisti di serie B? O al pari degli educatori e degli assistenti sociali ci occupiamo del trattamento dei detenuti?

 

Dott.ssa Mariacristina Tomaselli

Psicologo penitenziario

Coordinatrice 39 psicologi vincitori di concorso

Abruzzo: da Regione, fondi per corsi di formazione in carcere

 

Il Centro, 4 gennaio 2010

 

A un paio di mesi dal "caso Castrogno", scoppiato dopo la registrazione di una conversazione fra agenti di custodia sul un pestaggio di un detenuto, arrivano misure importanti per il reinserimento lavorativo dei carcerati. Tutto è nato da un’ispezione che parlamentari e consiglieri regionali del Pd svolsero nell’istituto teramano all’indomani dell’avvio dell’inchiesta. E il 30 dicembre è stato approvato nella seduta del consiglio regionale sul bilancio un emendamento presentato dal gruppo Pd, il cui primo firmatario è Claudio Ruffini, per finanziare politiche attive della formazione e del lavoro negli istituti penitenziari abruzzesi. Emendamento che ha trovato sostanzialmente d’accordo sia il governatore Gianni Chiodi che l’assessore regionale alla formazione Paolo Gatti.

Il Pd ricorda le condizioni precarie dei detenuti: "carenza di servizi igienici, sovraffollamento, mancanza di spazi ricreativi per i detenuti. Criticità denunciate anche in V commissione regionale durante un’audizione dei vari direttori degli istituti penitenziari abruzzesi. Dopo la visita a Castrogno i parlamentari avevano preso l’impegno di sollecitare il governo per finanziamenti alle carceri, mentre i consiglieri regionali dovevano farsi promotori in Regione di un piano di reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti".

Da qui l’emendamento che permetterà l’istituzione di servizi di formazione e lavoro permanenti nelle carceri abruzzesi, integrati in un sistema stabile di reinserimento sociale. Sarà l’assessore Gatti a stabilire annualmente un piano di finanziamento di tali servizi, attraverso il Fondo sociale europeo. "Le condizioni delle nostre carceri imponevano una riflessione seria e matura da parte della politica.

Sono soddisfatto del risultato raggiunto, che rappresenta un segnale indispensabile e necessario per riconsegnare dignità e un ruolo sociale alle migliaia di detenuti negli istituti di pena. Con i fondi Fse riusciremo ad attivare dei programmi di reinserimento sociale che talvolta - per le condizioni in cui sono i detenuti - rappresenta l’unica àncora di una speranza", commenta Ruffini.

Altamura (Ba): detenuto di 39 anni, muore suicida nel carcere

 

Ristretti Orizzonti, 4 gennaio 2010

 

Dopo che il 2009 ha fatto registrare il numero più alto di suicidi in carcere della storia italiana (72), il 2010 sembra essere iniziato all’insegna della medesima "emergenza": infatti sabato 2 gennaio, nel carcere di Altamura (Ba) è morto Pierpaolo Ciullo, 39 anni, detenuto per reati di droga. Si sarebbe ucciso asfissiandosi con il gas.

Il giovane è stato rinvenuto, ormai senza vita, ai piedi del letto nella sua cella, dove sembra fosse da solo; vicino al corpo un fornello da campeggio, alimentato da una bombola di gas, di quelli in dotazione ai detenuti. A nulla sono serviti i soccorsi del personale della Casa Circondariale. L’ipotesi del suicidio non è stata ancora confermata ufficialmente, ma sembrerebbe al momento la più probabile.

Pierpaolo Ciullo, originario della Provincia di Lecce, era arrivato da poco nell’Istituto Penitenziario di Altamura, proveniente dalla Casa Circondariale di Lecce. Da quanto si è appreso avrebbe chiesto spontaneamente di essere trasferito, perché nel carcere leccese vi era un rapporto difficile con gli altri detenuti e per lui la situazione era diventata insostenibile.

Nel piccolo carcere di Altamura, dove a fronte di 52 posti "regolamentari" i detenuti presenti sono 90, erano anni che non si verificava un suicidio. Nel complesso delle carceri pugliesi, invece, i detenuti sono oltre 4.300 (la capienza è di 2.535 posti) e nel 2009 si sono verificati 3 suicidi (a Foggia, all’Ipm di Lecce e a San Severo), mentre i tentativi di suicidio sono stati circa 80. Nel 2008 i suicidi erano stati 2 ed i tentativi di suicidio circa 60.

Cagliari: appena scarcerato, si impicca ad un cartello stradale

 

Agi, 4 gennaio 2009

 

Era uscito dal carcere appena due giorni fa, ieri notte era uscito con amici ai quali aveva confidato, non creduto, che aveva intenzione di uccidersi. Invece, il giovane, un quartese di 23 anni, con precedenti per furto, ha fatto sul serio. A scoprire il suo corpo appeso con una corda arancione a un cartello stradale di stop con il palo ricurvo all’incrocio fra via Spano e via Eligio Porcu, nel centro storico di Quartu Sant’Elena (Cagliari), è stata una ragazza che nella notte, attorno alle due, rincasava e aveva appena parcheggiato l’auto. Il giovane, in passato arrestato per aver fatto parte di una banda dedita ai furti e scoperta dalla polizia, aveva manifestato di recente l’intenzione di tirarsi fuori da quell’ambiente. Era senza lavoro e viveva ancora in famiglia, si sentiva senza prospettive e agli amici con i quali era uscito ieri seri aveva detto di sentirsi disperato.

Rientrato a casa attorno a mezzanotte e mezzo, il giovane - secondo quanto ricostruito dai carabinieri - è entrato nel garage, si è tolto il giubbotto e ha afferrato una corda arancione. Uscito in strada, ha percorso due isolati e trovato il cartello cui poi è stato trovato impiccato. Quando i militari hanno contattato la famiglia, il padre, sconvolto, ha intuito quanto accaduto: si era già accorto della mancanza della corda.

Pavia: famiglia di detenuto suicida, risarcita con 140 mila euro

 

La Provincia Pavese, 4 gennaio 2010

 

Tre assegni, per un totale di oltre 140mila euro, come risarcimento per la morte di un detenuto che sette anni fa si suicidò in carcere a Torre del Gallo. Dopo la sentenza del giudice, il Ministero di Grazia e Giustizia ha liquidato l’altra mattina i parenti di Manuel Bosco, il giovane di etnia rom morto all’età di 30 anni.

Il ragazzo si era tolto la vita nella sua cella con una bomboletta di gas mentre stava scontando una condanna per il furto di uno scooter. I familiari, sostenuti dall’avvocato Fabrizio Gnocchi di Pavia, avevano fatto causa e i giudici, per due volte, gli avevano dato ragione. Il Tribunale di Milano aveva condannato il Ministero a risarcire la famiglia, e la Corte di Appello, a cui il Ministero aveva fatto ricorso, non aveva sospeso la sentenza. Da qui l’obbligo a pagare.

Il 31 dicembre la sorella, la madre e il padre di Manuel Bosco (le donne abitano in via Bramante) si sono presentati allo sportello della Banca d’Italia, accompagnate dal loro avvocato, per riscuotere i vaglia. Mentre in Italia si discute di mala - detenzione, in relazione a casi di detenuti che muoiono in circostanze da chiarire (come il caso di Stefano Cucchi), o di detenuti che si tolgono la vita mentre sono in carcere, la vicenda pavese crea un precedente di rilievo. Come dimostrano le stesse motivazioni della sentenza con cui il Ministero fu condannato a pagare.

Quella sentenza, firmata da Andrea Manlio Borrelli, figlio del più noto Saverio, attribuiva infatti alle strutture di "disciplina", come appunto il carcere, anche l’obbligo di "prendersi cura del corpo", oltre al dovere di consentire l’espiazione della pena e il recupero nella società. "Deve ritenersi - scriveva allora il giudice nella sentenza - che, in uno Stato di diritto, quanto maggiore è il potere attribuito all’istituzione di comprimere la libertà personale dell’individuo affidatogli, tanto maggiore è l’obbligo dell’istituzione di prendersi cura quantomeno del corpo della persona soggetta al potere stesso". L’avvocato Gnocchi si dice "soddisfatto, perché la Magistratura ha reso giustizia a persone molto umili, ma con grande dignità, che hanno patito un grave danno. Resta però il dispiacere, perché comunque nessun risarcimento potrà restituire la vita al giovane Manuel".

Bologna: morì in carcere 13 anni fa, il ministero deve risarcire

di Amelia Esposito

 

Corriere della Sera, 4 gennaio 2010

 

Il 21 febbraio 1996 le agenzie battevano la notizia dell’arresto di un giovane franco - tunisino, Georges Alain Laid, colpevole di aver rubato nel negozio di scarpe Gianfranco Pini, nel centro di Bologna. Sette mesi dopo, il 24 settembre, il nome di quel "ladro qualunque" riappariva nel circuito delle agenzie di stampa e, da lì, rimbalzava subito sui giornali, in radio e in tv. La notte precedente, Georges Alain Laid era stato trovato morto alla Dozza. Impiccato con la giacca del pigiama alla maniglia del bagno della cella di isolamento dove era stato rinchiuso in seguito a una zuffa con altri detenuti. Ancora sei giorni e sarebbe tornato in libertà.

Oggi, 13 anni dopo, l’amministrazione penitenziaria è stata condannata a pagare 100 mila euro (con la rivalutazione e gli interessi dal ‘96) per quella morte, il risarcimento stabilito dal Tribunale di Bologna e confermato dalla Corte d’Appello per i "danni morali ed esistenziali" subiti dalla madre di Georges Alain. Una donna combattiva, che ha vinto la sua battaglia. Per i giudici, almeno in sede civile, il carcere è responsabile del decesso di un suo detenuto, anche se dovuto a suicidio: un principio affermato per ora soltanto in un’altra sentenza pronunciata dì recente a Milano.

La vicenda della morte del 31enne francese di origini tunisine ebbe una grande eco all’epoca. Divenne un caso politico, con la senatrice Daria Bonfietti che presentò un’interrogazione parlamentare per denunciare quello che appariva come un "suicidio annunciato". Se non un omicidio. Fu per quest’ultima ipotesi che la Procura aprì un’inchiesta.

Tre guardie penitenziarie vennero arrestate con l’accusa di voler coprire l’assassino e di averlo aiutato a mettere in scena un finto suicidio. Ma la verità su come andarono le cose quella notte alla Dozza non fu mai accertata: i periti dell’accusa e quelli della difesa arrivarono a conclusioni opposte, i primi affermarono che Georges Alain venne ucciso i secondi che si suicidò. Alla fine, proprio per l’impossibilità di stabilire la dinamica, il pm Franca Oliva chiese l’archiviazione e il gip Aurelia del Gaudio la accolse.

Ma la madre del giovane detenuto, assistita dagli avvocati Alessandro Gamberini e Gianfranco Focherini, non si è data per vinta. L’opposizione all’archiviazione venne respinta, ma la causa civile andò avanti. E, per due volte, la parte offesa ha avuto ragione: nel 2004 con la sentenza di primo grado, e nell’ottobre scorso, con quella d’appello. Perché - è il cuore della motivazione - sia in caso di omicidio che di suicidio "la responsabilità dell’amministrazione penitenziaria sussiste comunque in virtù del rapporto che a essa lega funzionari e agenti della penitenziaria". E una responsabilità oggettiva quella del carcere (dunque del Dap).

Vediamo perché: vero è che in sede penale le guardie sono state prosciolte, ma in ogni caso, secondo i giudici erriti, la vigilanza non fu sufficiente e il detenuto non sarebbe dovuto restare solo, in isolamento. Questa fu, secondo i magistrati, una decisione scellerata per tante ragioni: perché Georges Alain "era solito procurarsi traumi ripetuti", perché "pochi giorni prima della morte gli era stato diagnosticato uno stato ansioso - depressivo per la morte del fratello", perché questo stato "era caratterizzato da idee autosoppressive".

Per tutti questi motivi, i medici avevano segnalato "la necessità di sottoporlo ad attenta sorveglianza" e di "tenerlo in cella con altri detenuti". Non solo, il giovane era tossicodipendente e, poche ore prima della sua morte, venne accertato che era ubriaco. Altro che "evento imprevedibile", come ha affermato più volte il Ministero.

Il Dap ha fatto ricorso in Cassazione, ma intanto il Sappe (sindacato autonomo di polizia penitenziaria) esprime preoccupazione. Il timore è che l’amministrazione penitenziaria voglia rivalersi sulle guardie, che sono state prosciolte da ogni accusa. "Ciò sarebbe intollerabile, viste le condizioni disagiate in cui è costretto a lavorare il personale", spiega il segretario generale Giovanni Battista Durante.

Milano: San Vittore addio l'unica soluzione è un "Bollate-due"

 

Il Giornale, 4 gennaio 2010

 

L’ultimo atto di Giuseppe Grechi, presidente della Corte d’appello di Milano, prima di andarsene in pensione dopo mezzo secolo di servizio, fu prendere di petto la faccenda San Vittore: "Tenere dei detenuti in simili condizioni è semplicemente illegale". Un grido d’allarme rimasto inascoltato. È passato un anno, e i detenuti sono passati da 1.300 a 1.500. A San Vittore prima di Natale è arrivato Dionigi Tettamanzi, e ha rilasciato parole di scandalo simili a quelle del giudice Grechi: il cardinale ha parlato di "squallore intollerabile", soprattutto dopo avere visitato le celle del sesto raggio. E stavolta, forse, qualcosa inizia a muoversi.

Ma basterebbe la costruzione di un nuovo carcere a risolvere gli eterni guai di San Vittore? L’esperienza passata induce a essere dubbiosi. La vecchia "casanza", ovvero "il Due" - nomi in codice che la malavita milanese dedicava alla prigione di piazza Filangieri - doveva essere chiusa dopo la costruzione di Opera, negli anni Settanta. Non accadde nulla. Per chiudere davvero San Vittore si decise di costruire allora un altro carcere, stavolta alla periferia nord: Bollate. Il film si è ripetuto: nel 2001 apre Bollate ma San Vittore non chiude affatto.

Eppure nei dintorni continuano a essere inaugurate o allargate una serie di prigioni: Monza, Vigevano, eccetera. Niente da fare. San Vittore sembra inaffondabile. Due raggi vengono chiusi perché stanno praticamente crollando. Negli altri continua la vita di sempre. Nel frattempo, la popolazione carceraria milanese è arrivata a livelli record: 1.200 a Opera, 1.100 a Bollate, 1.500 a San Vittore, Totale 3.800 detenuti sull’area urbana meneghina. Mai visto prima.

Se la politica giudiziaria rimane quella attuale, un nuovo carcere si riempirebbe rapidamente senza necessità di svuotare San Vittore. Così tra gli addetti ai lavori sta iniziando a circolare - in modo assolutamente non ufficiale - una convinzione: che ruota intorno al carcere di Bollate, il più anomalo tra i carceri milanesi, teatro di un’esperienza di "trattamento avanzato" dei detenuti che ha coinvolto persino i più malvisti tra i carcerati, i sex offender che a San Vittore dovevano vivere al riparo da tutti. A voler fare di Bollate un carcere dal volto umano sono stati Luigi Pagano, l’ex direttore di San Vittore divenuto capo del sistema penitenziario lombardo, e la direttrice della nuova struttura Lucia Castellano. E i risultati non sono mancati. Ma l’esperimento di Bollate è stato reso possibile dal basso affollamento e dalla scelta di inviarvi solo detenuti definitivi, lasciano a San Vittore il ruolo di "casa circondariale", cioè di carcere di passaggio per detenuti in attesa di giudizio.

Così c’è chi inizia a domandarsi se in una situazione carceraria caotica come quella milanese Bollate sia un lusso eccessivo. E nasce l’idea di allargare la cubatura del nuovo carcere, di alzare i suoi indici di affollamento, e di trasferirvi i detenuti ma soprattutto i mille agenti di polizia penitenziaria di San Vittore. Certo, sarebbe la fine di un’utopia. Ma a quel punto, "il Due" potrebbe chiudere davvero. Forse.

Pescara: la prima malattia dei detenuti? è il sovraffollamento

 

Il Centro, 4 gennaio 2010

 

Sono diversi gli episodi di violenza o di disagio per il sovraffollamento registrati nelle carceri abruzzesi nelle scorse settimane. L’episodio più recente è il Natale di protesta della polizia penitenziaria in servizio nella casa circondariale di Torre Sinello. Gli agenti hanno rifiutato il servizio mensa e in una nota inviata al direttore dell’istituto, Carlo Brunetti e al provveditore d’Abruzzo e Molise, Salvatore Acerra hanno spiegato che "la situazione non è più sostenibile" per il "sovraffollamento del penitenziario".

A soli due anni dall’indulto, nel carcere vastese meno di cento agenti devono occuparsi di 257 detenuti, il 40% dei quali di origine straniera. A novembre i detenuti del carcere San Donato di Pescara hanno protestato contro il sovraffollamento della struttura e, per attirare l’attenzione all’esterno hanno battuto oggetti contro le inferriate.

Altri hanno bruciato stracci. L’episodio più grave nelle carceri abruzzesi è comunque quelle registrato al carcere di Castrogno a Teramo. Il 29 ottobre la Procura della Repubblica di Teramo ha aperto un fascicolo d’indagine sul caso del presunto pestaggio di un detenuto rinchiuso nel carcere di Castrogno, da parte di agenti di polizia penitenziaria, disponendo anche l’acquisizione dei supporti magnetici su cui sarebbe stato registrato il colloquio tra alcuni agenti che raccontavano l’episodio, verificatosi alla presenza di altri detenuti. In seguito all’inchiesta il ministro di Giustizia Angelino Alfano aveva sospeso dal servizio, in via cautelativa, il comandante della guardie penitenziarie del carcere di Castrogno.

Un altro episodio accade il 18 dicembre sempre a Castrogno, dove muore il nigeriano Uzoma Emeka, che avrebbe assistito al pestaggio su cui indaga la Procura. L’autopsia svelerà che il detenuto è morto a causa di un tumore cerebrale, ma le proteste non si placano. Nel corso di una visita al carcere teramano la deputata dei Radicali Rita Bernardini evidenzia che Castrogno è "un carcere senza direttore, dove sono stipati 400 detenuti in spazi che potrebbero contenerne 230, dove gli agenti in servizio sono solo 155 a fronte di una pianta organica che ne prevede 203".

Padova: la Polizia penitenziaria sventa il tentativo di evasione

 

Ansa, 4 gennaio 2009

 

"È solo grazie alla professionalità, alle capacità ed all’attenzione del Personale di Polizia Penitenziaria impegnato nel servizio di piantonamento che ieri sera dall’Ospedale civile di Padova è stato sventato un clamoroso tentativo di evasione da parte di un detenuto extracomunitario. I nostri colleghi hanno infatti bloccato tempestivamente il detenuto, nonostante questi avesse prima aggredito i nostri agenti e poi seminato il panico ed il terrore tra gli altri degenti dell’Ospedale. Bravissimi i colleghi di Padova, che lavorano sotto organico e in condizioni difficili. Questo grave episodio conferma ancora una volta le gravi criticità del sistema carcere ed accade a pochi giorni dalla clamorosa denuncia del Sappe alla trasmissione "Striscia la notizia" proprio sui gravi rischi per la sicurezza connessi al servizio di piantonamento di detenuti press l’Ospedale civile di Padova".

È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri, in relazione a quanto avvenuto ieri sera nell’Ospedale civile di Padova, dove un detenuto ricoverato ha tentato la fuga.

La situazione delle carceri in Italia è drammatica - prosegue Capece - a causa del sovraffollamento, dovuto ad una costante crescita dei detenuti che dall’inizio del 2009 sono aumentati di oltre 10.000 unità, mentre il personale di Polizia penitenziaria continua a diminuire di circa 1.000 unità all’anno, tant’è che allo stato attuale mancano oltre 5.000 agenti rispetto alle piante organiche previste dal decreto ministeriale del 2001. Oggi nelle carceri italiane ci sono circa 66mila detenuti, dei quali oltre 25.000 sono stranieri, soprattutto extracomunitari come il detenuto che ieri sera ha tentato la fuga dall’Ospedale patavino. Nella casa di reclusione di Padova ci sono più di 800 detenuti presenti a fronte dei 439 posti regolamentari e quasi l’80% sono extracomunitari, la percentuale in assoluto più alta in Italia. Mancano in organico più di 110 appartenenti ai vari ruoli della Polizia Penitenziaria (agenti, assistenti, sovrintendenti ed ispettori)!

Questi emblematici dati fanno comprendere anche ai non addetti ai lavori come i livelli di sicurezza dei nostri penitenziari siano assai limitati e in quali drammatiche condizioni lavorino i nostri Agenti. Anche quando piantonano i detenuti nell’Ospedale civile padovano in condizioni estremamente difficili, peraltro denunciate dal Sappe qualche giorno fa anche a "Striscia la notizia". E allora rivolgiamo un grande plauso ai colleghi di Padova che hanno impedito il verificarsi di una evasione dall’Ospedale civile e ch gli altri i degenti e visitatori si trovassero in condizioni di pericolo.

Viterbo: On. Ferranti (Pd) in visita al carcere di Mammagialla

 

www.tusciaweb.it, 4 gennaio 2010

 

Martedì 29 dicembre 2009 Donatella Ferranti, capogruppo della commissione Giustizia del Partito democratico insieme al gruppo Giustizia della segreteria provinciale del Pd di Viterbo composto da, Sabina Cantarella, Giovanni Tomaselli e Alessandro Napoli, hanno trascorso la mattinata in visita al carcere di Viterbo.

È stato un incontro molto proficuo con il direttore del carcere Pierpaolo D’Andria e tutte le rappresentanze sindacali del personale carcerario, il responsabile degli educatori, la dottoressa Fanti e il responsabile sanitario, dottor Lepri.

Ne è emerso un quadro di notevole impegno personale e professionale da parte di tutti gli interlocutori, ma sia pure in un contesto assai problematico. Sovraffollamento carcerario con punte di 670 detenuti raggiunto nell’agosto del 2009 a fronte di una capienza massima di quattrocento detenuti. Carenza di organico del personale di polizia penitenziaria superiore al trenta (dal 2000 a fronte di sessanta unità di pensionati, vi è stato l’arrivo di sole venti unità di personale penitenziario). L’organico del personale in sevizio è fermo al 2001, trenta sono presso il reparto di medicina protetta istituito all’ospedale di Belcolle con undici posti letto a disposizione.

Insufficienza del personale medico costituito soltanto da un medico con incarico permanente e da nove medici part-time per trenta ore giornaliere che coprono i due turni di guardia la mattina e solamente uno la notte per 660 detenuti dislocati in quattro padiglioni.

La carenze risulta ancora più grave se si considera che almeno 150 detenuti sono affetti da malattie psichiatriche con patologie che vanno dal borderline alla depressione, almeno cento sono i reclusi per motivi di alta sicurezza, oltre alle 50 unità presenti in regime di 41 bis, posti sotto la responsabilità di uno specifico reparto che dipende da Roma. Si consideri inoltre la mancanza di un infettivologo più che mai necessario all’interno di una tale struttura dove si verificano casi di tossicodipendenza e altre gravi malattie infettive.

Assoluta inadeguatezza del numero degli educatori che prestano assistenza e che organizzano le attività interne al carcere quali attività di lavoro e di istruzione (si considerino i buoni rapporti tra la casa circondariale di Viterbo, l’università della Tuscia e per le licenze medie la scuola Pietro Vanni) che da gennaio sarà formato solo da un capo area, da due educatori affiancati da tre psicologi part-time per un monte ore assolutamente insufficiente.

Se si tiene conto di tutte le incombenze di osservazione, trattamento e prima accoglienza, (obbligatori per i detenuti definitivi) al fine di evitare ulteriori problematiche, quali ad esempio il suicidio che attualmente ha un’incidenza media di un caso all’anno, la situazione risulta ancora più grave.

Per ciò che concerne la formazione professionale dei detenuti, nonostante gli sforzi compiuti, l’attuazione risulta inadeguata. Sono inutilizzati i laboratori di sartoria, rilegatoria, pasticceria e falegnameria, sia pur regolarmente attrezzati. L’attivazione di questi laboratori che potrebbe costituire una fonte viva per il recupero dei detenuti, ma anche per garantire una certa produttività, imporrebbe una progettualità adeguata da parte dell’amministrazione penitenziaria, da parte delle forze politiche di governo con l’adeguata presa di coscienza delle forze politiche e imprenditoriali locali.

Bologna: in piazza con pagnotte e libri per detenuti alla Dozza

di Antonella Cardone

 

La Repubblica, 4 gennaio 2010

 

È passato quasi un secolo da quando il sindaco Francesco Zanardi invocava per tutti i cittadini "pane e alfabeto". Ancora oggi l’obiettivo a Bologna non è raggiunto: rimangono troppi ultimi tra gli ultimi, come i carcerati della Dozza cui mancano persino i ricambi per la biancheria. Per aiutarli, mercoledì mattina è organizzata una raccolta fondi in piazza Nettuno. Si potranno acquistare le pagnotte offerte dall’Associazione panificatori e la Costituzione stampata da Spi Cgil e Arci.

In piazza con pagnotte e libri per i carcerati della Dozza, per ricordare come anche gli ultimi tra gli ultimi abbiano diritto a questi due ingredienti essenziali per la dignità delle persone. Mercoledì mattina, dalle 10 alle 14 in piazza Nettuno, si rievoca la Bologna città del sindaco del pane, Francesco Zanardi. Un primo cittadino che, all’inizio del Novecento, aveva un’idea precisa: dare a tutti i cittadini "pane e alfabeto". "Progetto ancora ben lontano dall’essere concretizzato, soprattutto se si pensa alle condizioni in cui vivono i carcerati della Dozza. Sono ormai oltre 1100, più del doppio della capienza regolamentare di 480 persone. Ma se il sovraffollamento colpisce tutti, anche lì ci sono ultimi più ultimi degli altri, i poveri che si ritrovano senza ciabatte per la doccia, senza sapone, senza ricambi per la biancheria. Hanno bisogno di tutto, per questo scendiamo in piazza offrendo ai bolognesi pane e libri, in primo luogo la Costituzione, per raccogliere fondi e portare un po' di sollievo ai detenuti", spiega Roberto Morgantini, uno dei tre promotori della iniziativa assieme a Mattia Fontanella e Riccardo Lenzi. In piazza si porta la Costituzione, nelle edizioni stampate dallo Spi Cgil e, in italiano e arabo, dall’Arci, perché considerata "simbolo, sigillo e garanzia di una comunità che possa definirsi umana e consapevole. Ovvero civile".

Il pane è quello messo a disposizione dall’Associazione panificatori bolognesi. L’offerta è libera, ma l’obiettivo è quello di superare la raccolta fondi dell’anno scorso, quando con circa 800 euro si riuscirono ad acquistare pentole e tegami sempre per i carcerati. I bolognesi potranno anche donare francobolli, carta da lettera, prodotti per l’igiene personale. "Si discute spesso di radici culturali, di storia e di memoria - si legge nel volantino dell’iniziativa - Bologna è la città del sindaco del pane, una città ancora civile, una comunità non ancora disgregata ma che vive in sé le contraddizioni dell’oggi.

Fatta di grandi slanci di solidarietà, di compassione. Una città di "compagni", da sempre. Cum - pànis in latino: con pane, "partecipe dello stesso vitto". Una comunità abituata a condividere. Ma anche, e sempre più, una città fatta di piccoli e grandi egoismi, egocentrismi, meschinità. Si riflette troppo poco su quali debbano essere le qualità essenziali di una comunità: il nostro rapporto con gli ultimi, gli emarginati, i rinnegati".

Torino: l’asilo per il quartiere? nasce nel carcere delle Vallette

di Diego Longhin

 

La Repubblica, 4 gennaio 2010

 

Un asilo in carcere che serva anche agli abitanti del quartiere delle Vallette. L’idea di una struttura più grande, interna alle mura ma aperta all’esterno, è nata durante l’ultimo incontro tra il direttore della casa circondariale "Lo Russo Cotugno", Pietro Buffa, e l’assessore all’istruzione del Comune, Beppe Borgogno, che hanno firmato una nuova convenzione, fino a tutto il 2012, per garantire assistenza e posti nelle strutture comunali ai figli di mamme carcerate.

Palazzo Civico e amministrazione penitenziaria collaborano da tempo per garantire l’inserimento e il sostegno dei bambini di detenute negli asili comunali. Parte dei bimbi, oggi sono tredici in tutto all’interno delle Vallette, vengono accompagnati ogni giorno nel punto famiglia "Stella Stellina" dove il Comune mette a disposizione sei posti e personale di cooperative. Educatrici che seguono sia le madri detenute, con incontri sulla maternità, sia i figli, soprattutto nella fase dell’inserimento. Gli altri bimbi sono invece ospitati nell’asilo del carcere.

All’interno del "Lo Russo e Cotugno" sarebbe però possibile allestire spazi più accoglienti negli edifici della cosiddetta seconda cinta, dove si trovano gli uffici. Stanze che dovrebbero essere ristrutturate e che il direttore Buffa vorrebbe trasformare in un asilo aziendale. "Uno spazio che potrebbe accogliere i figli del personale che lavora in carcere e che, in base al numero di posti, si aprirebbe anche alla cittadinanza. Si tratta di un progetto che ho in testa da tempo".

Una struttura del tutto differente da quella interna alle sezioni per ospitare i bimbi delle detenute, ma che sarebbe utile in prospettiva anche per questa fascia di utenza. "È un progetto interessante - dice l’assessore Borgogno - un esperimento, tutto da costruire, che si potrebbe portare avanti sulla scia delle collaborazioni già in atto tra l’amministrazione penitenziaria e il Comune. L’idea di una struttura interna all’istituto, che possa accogliere figli del personale in servizio e dei residenti della zona, ma aggiungerei anche delle detenute, va perseguita in un’ottica di integrazione e di maggiore disponibilità di offerta. Sarebbe una bella esperienza pilota".

Un progetto su cui l’assessorato alle Risorse Educative di Torino è disposto ad impiegare tempo e risorse. Oggi i bambini delle detenute rimangono vicino alla mamma fino all’età di tre anni, poi lasciano il carcere. "Si tratta quindi di un’utenza particolare - sottolinea Buffa - diversa da quella dell’asilo aziendale". Per l’assessore Borgogno, però, si "può creare una struttura integrata che dia una risposta unica ai diversi bisogni". In pratica, come si portano oggi parte dei bimbi al punto famiglia esterno, in futuro si potrebbero ospitare nel centro riservato ai figli dei dipendenti del carcere e delle famiglie del quartiere Vallette che troverebbero un posto per i loro bambini nel nuovo asilo.

Como: una "bibliotecaria di frontiera" insegna ad amare i libri

di Paola Pioppi

 

Il Giorno, 4 gennaio 2010

 

Dal 2002 gestisce le tre biblioteche interne al carcere Bassone: al maschile, al femminile e quella riservata al personale. Un progetto finanziato con i fondi della lotta contro la droga che ha portato all’interno della struttura penitenziaria comasca Ida Morosini. Ex docente di italiano, greco e latino nelle scuole superiori, ha tenuto per cinque anni lezioni di italiano ai detenuti della sezione Alta Sicurezza per poi passare ala gestione del prestito librario e alla formazione di una capacità di avvicinarsi ai libri. Nel 2006 ha ottenuto l’incarico di corriere del Sistema Bibliotecario Intercomunale di Como, abbandonato dopo pochi mesi perché "mi dispiaceva portar via del tempo prezioso alla biblioteca Bassone, dove nessuno voleva andare e dove invece c’era tanto da fare".

Tra i progetti più importanti realizzati in carcere, merita di essere citato "Biblioteca aperta. Un libro per ricominciare", che si è concluso con uno stage per due detenuti presso due biblioteche del territorio, Fino Mornasco e Cantù.

 

Perché ha deciso di avvicinarsi a questo contesto?

"Direi che è stato un caso. L’ex direttrice del Bassone, Francesca Fabrizi, mi aveva detto che cercavano una docente di Italiano per un corso. Ho accettato e non me ne sono mai pentita. Stare a tu per tu con le persone ristrette nell’Alta Sicurezza, che scontavano una pena lunga per reati importanti, mi poneva tanti interrogativi. Inoltre le lezioni offrivano un’occasione unica per scavare nella propria vicenda esistenziale".

Quante ore la impegna questa attività ogni settimana? "Mediamente lavoro sei ore al giorno sabato e domenica escluse. Lavorare in biblioteca richiede impegno quotidiano e meticolosa attenzione. I detenuti formati gestiscono il prestito e conoscono le regole di catalogazione, ma non sono in grado di fare le schede e non sanno curare la manutenzione del catalogo. Quindi il mio lavoro è di espletare tutte le operazioni inerenti al servizio. Eseguo le ricerche in internet, spesso anche da casa, su argomenti che mi vengono chiesti dai detenuti. Provvedo a far trasmettere a tutte le celle un film alla settimana, scelto dai detenuti, tra quelli presenti nel nostro scaffale multimediale e gestisco l’interprestito con le biblioteche provinciali".

 

Cosa comporta gestire una biblioteca in carcere?

"Dal punto di vista lavorativo non cambia nulla. Per il resto, tutto è diverso, a cominciare dalle porte che continuano a chiudersi e ad aprirsi per fare entrare i detenuti. In biblioteca tutti riacquistano, sia pure per un’ora, lo status di cittadini liberi, poiché non ci sono sorveglianze speciali, tutti possono fermarsi, leggere, fare ricerche nel catalogo informatizzato, fare proposte e richieste, socializzare. La lettura è lo strumento principe della rieducazione e costituisce la mission di una biblioteca carceraria poiché, si sa, stimola processi di riflessione e assunzione di responsabilità".

 

Quali sono le difficoltà maggiori con cui ha dovuto fare i conti?

"Inizialmente la diffidenza da parte della polizia penitenziaria e degli stessi detenuti: non riuscivano a credere che fosse possibile realizzare una biblioteca organizzata e gestita con professionalità e secondo gli standard internazionali. Poi le resistenze da parte del territorio: era difficile per tanti immaginare di poter dare fiducia a una biblioteca neonata, senza uno status giuridico, senza la garanzia di una figura professionale regolarmente incaricata e retribuita, senza fondi costanti. Qui la mia perseveranza e dedizione hanno fatto la differenza".

 

E le soddisfazioni?

"Tantissime e sono loro che mi hanno permesso di affrontare tutte le difficoltà. Innanzitutto la "Menzione speciale" conferita dall’AIB, l’Associazione Italiana biblioteche, nel 2002, come miglior servizio offerto agli utenti svantaggiati. E poi la ciliegina sulla torta, l’iniziativa collaterale di Ifla, svolta quest’anno a Milano, che ha portato nel carcere di Como un gruppo di bibliotecari internazionali a visitare le tre biblioteche. Ma la soddisfazione più grande è la gioia che nasce dalla constatazione degli effetti sorprendenti che la lettura esercita sui detenuti, alleviando la loro sofferenza ed offrendo loro una seconda opportunità".

 

Ci sono persone con le quali ha stabilito un rapporto umano particolare?

"Sì, praticamente con quasi tutti quelli che lavorano in biblioteca, ma un rapporto particolare sì è instaurato con Nicola, il primo bibliotecario, con Carlo e poi con Lara…".

Immigrazione: "nuovi italiani", con il sogno della cittadinanza

di Virginia Piccolillo

 

Corriere della Sera, 4 gennaio 2010

 

A singhiozzo. Ora avanti. Ora indietro. La nuova legge sull’assegnazione della cittadinanza italiana è appesa agli umori del momento. E delle forze politiche. Troppo restrittiva per l’opposizione, associazioni, e settori della maggioranza, che lamentano tempi lunghi per le naturalizzazioni e assenza di un riconoscimento automatico dei bimbi nati in Italia. A maglie troppo larghe invece per la Lega che mette in guardia dalle "teorie sulla cittadinanza facile" paventando la necessità di una nuova battaglia di Lepanto per fermare l’Islam.

Ma quali sono le cifre reali di questo fenomeno? I dati inediti dei primi sei mesi del 2009 fissano alcuni paletti e mostrano un’inversione di tendenza rispetto agli anni scorsi.

Innanzitutto le richieste di cittadinanza presentate finora sono state 31.617 e quelle accolte sono state 20.063 contro le 739 respinte e le 679 ritenute inammissibili.

"Sono quattro gatti. Numeri molto deboli che non rispecchiano il fortissimo aumento negli ultimi anni degli immigrati regolari" fa notare il professor Marzio Barbagli, ordinario di Sociologia all’Università di Bologna. In effetti, al 1 gennaio 2009, erano presenti in Italia 3.891.295 stranieri regolari. Solo 6 anni prima erano 1.549.373. Secondo Barbagli il fatto che le istanze di cittadinanza siano molto inferiore al numero degli immigrati che avrebbero i requisiti per ottenerle è una spia di come la legge sia inadeguata. "Per alcuni aspetti, come per la naturalizzazione dei bambini nati in Italia, è troppo restrittiva. Per altri versi, come nel caso della cittadinanza concessa per matrimonio, è stata troppo generosa e ha dato luogo a vere e proprie truffe".

È qui che arriviamo alla nuova tendenza. Delle 20.063 istanze di cittadinanza accolte, la maggior parte, 11.450, sono per diritto di residenza: come la legge attuale prevede all’articolo 9, se si è vissuto con regolari permessi nel nostro Paese per almeno 10 anni oppure se si è nati qui e si è raggiunta la maggiore età. Minori, 8.613, quelle ottenute da chi ha sposato un italiano (o italiana), come previsto dall’articolo 5. L’anno precedente era accaduto il contrario. Delle 39.484 richieste accolte, la quota maggiore, 24.950, erano per matrimonio. Solo 14.534 per residenza. Un fenomeno registrato soprattutto al Nord: 3.775 richieste in Lombardia, 2.352 in Emilia - Romagna, 2.132 in Piemonte, 2.057 in Veneto. Anche se è frequente anche nel Lazio (1.594 richieste) e in Toscana (1.542) e, in percentuale, anche in Campania (966) e in Sicilia (724). Le spose che hanno avuto come dono di nozze la cittadinanza sono state soprattutto romene (2.228, delle quali 734 sotto i 30 anni e 993 sotto i 40); ucraine (1285, delle quali 487 sotto i 40 e 553 oltre); albanesi (1266, delle quali 418 sotto i 30) e le brasiliane (1251, delle quali 569 sotto i 40). Negli anni precedenti il fenomeno era ancora più evidente: delle 38.466 cittadinanze concesse nel 2007, ben 31.609 riguardavano matrimoni e solo 6.857 residenti. Nel 2007 erano 30.151 i neo - sposi contro i 5.615 residenti.

Secondo Isabella Bertolini, relatore Pdl del testo unico sulla cittadinanza, che tenta la difficile quadratura, unendo le 15 proposte precedenti, questa inversione di tendenza "è il primo effetto delle norme inserite nel pacchetto sicurezza. Ora si richiede che gli sposi siano stati e restino conviventi. È un po’ lo spirito della nuova proposta di legge sulla cittadinanza: resta il requisito di 10 anni di residenza, ma senza ritardi, con un percorso per mostrare che davvero si vuole essere cittadini italiani e rispettare la nostra cultura e i nostri valori civili anche in casa". Ma il testo solleva ancora molte perplessità. Soprattutto sul punto che secondo la Bertolini "va ancora approfondito": i minori.

Spiega Daniela Pompei della Comunità di Sant’Egidio: "Se nasci negli Stati Uniti diventi cittadino Usa. In Italia no. Nel nuovo testo c’è scritto che per avere la cittadinanza oltre ad essere maggiorenne devi aver frequentato le scuole con profitto. Che vuol dire? La media dell’8? Del 9? E se si ha la sufficienza non si diventa cittadini italiani?". Durante la discussione del testo alla Camera S. Egidio aveva lanciato un appello al Parlamento: in Italia ci sono 800 mila bambini immigrati, più di 500 mila sono nati qui. Perché invece di continuare a trattarli da stranieri non li usiamo da moltiplicatore dell’integrazione?

Il sociologo Barbagli concorda, allarga agli adulti e mette in guardia: "I tassi di acquisizione della cittadinanza sono da noi ancora troppo bassi". Nell’ultima comparazione, del 2005, l’Italia aveva lo 0,7 contro l’1,6 della Germania; il 2,2 della Spagna; il 4,4 dell’Austria, per non parlare dell’8,2 della Svezia (14 volte di più). "È vero che gli immigrati sono una risorsa. Ma sono anche una fonte di preoccupazione per gli italiani. Perché accanto a quelli che ci hanno risolto i problemi familiari ci sono anche quelli che hanno commesso reati. Però integrarli è incoraggiarli a seguire le leggi. La cittadinanza dopo 5 anni effettivi con controlli linguistici e culturali, come sostenuto dal presidente della Camera, Gianfranco Fini, potrebbe essere una buona soluzione. Anche se non si deve lasciare sola la scuola nello sforzo di integrazione. Non servono classi differenziate, ma orari differenziati sì. Per evitare che le difficoltà degli immigrati pesino sulle famiglie italiane. I problemi che segnala la Lega sono effettivi e molto sentiti dalla gente. Magari non le soluzioni".

Del resto la nuova mappa per provincia, aggiornata al 2008, mostra che i nuovi italiani parlano soprattutto con accento settentrionale. Il totale delle istanze di cittadinanza presentate è stato di 56.985. Solo in Lombardia 10.947. È il numero più alto seguito da quello dell’Emilia Romagna (7.356); del Veneto (6.249) e del Piemonte (6.048). In totale nel Nord sono state presentate 35.051 richieste, distribuite soprattutto nelle grandi città. Anche se è stata Roma la città con il maggior numero di domande presentate: 2.794. A seguire si trovano tutte città del Nord: Milano (2.553 richieste); Torino ( 2.535); Brescia ( 2.203); Vicenza ( 1.761); Verona ( 1.735); Bologna (1.633) e Parma (1.468). Forte la presenza di richieste anche in Toscana (3.916, delle quali 1.209 solo a Firenze). Poche invece le istanze presentate al Sud anche in zone di forte presenza di immigrati: 247 a Caserta e 134 a Foggia. Per questo ogni soluzione legislativa non potrà non tenere conto di umori e timori del Nord.

Droghe: anche in Italia arrivato tempo di cambiare le politiche

di Fabrizio Faggiano

 

www.lavoce.info, 4 gennaio 2010

 

L’Italia è ai primi posti in Europa per consumo di cannabis, cocaina ed eroina. Eppure le politiche sulla tossicodipendenza del nostro paese continuano a essere improntate al proibizionismo. Ma è un modo di affrontare il problema che a livello internazionale è stato abbandonato proprio perché non ha dato grandi risultati. Tanto che l’Osservatorio europeo sulle droghe auspica ora l’adozione di interventi rivolti alla prevenzione e alla riduzione del danno. Raccomandazioni che il nostro paese è ben lontano dall’ascoltare.

La Relazione annuale dell’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze, da poco pubblicata, delinea il radicale ripensamento delle politiche sulle droghe, dopo le scelte proibizionistiche degli ultimi quindici anni che hanno prodotto scarsi risultati. L’Italia ha ancora molto da lavorare per aderire a queste raccomandazioni.

 

L’Italia e il consumo di droghe

 

L’Italia è ai primi posti in Europa per consumo di cannabis, dopo Spagna, Repubblica Ceca e Francia: ne fanno uso l’11,5 per cento dei giovani (vedi tabella). I consumatori di cocaina sono invece l’1,2 per cento e gli eroinomani lo 0,6 per cento, ma anche per queste sostanze il nostro paese è fra quelli con i più alti consumi. Sempre più frequente, poi, il policonsumo e in particolare l’associazione di alcol e droghe: è un fenomeno rilevato da numerosi sistemi di sorveglianza che registrano un aumento, per l’alcol, del consumo a rischio fra i giovani, cioè fuori pasto e con episodi di ubriachezza.

Il consumo di cannabis nel nostro paese è non solo elevato, ma anche in aumento, in controtendenza rispetto all’Europa dove ormai da qualche anno si registra una riduzione. Le altre droghe mostrano un andamento stabile, analogamente a quanto osservato nel resto d’Europa. Stabile anche il consumo di cocaina, che invece spesso si ipotizza sia in crescita ed è presentato dai media come un fenomeno diffuso e socialmente non condannato.

 

Mortalità correlata alla droga

 

Il quadro degli effetti sulla salute è sorprendentemente meno grave che in altri paesi, e in particolare lo è quello della mortalità correlata alla droga, dovuta soprattutto a eroina e a cocaina. Il tasso annuale di decessi per droga è intorno a 15 per milione in Italia, mentre più della metà dei paesi europei registrano tassi superiori a 20 per milione e in tre paesi è persino sopra i 70 per milione.

Come spiegare la discrepanza fra prevalenza e rischio di morte? La risposta è che a determinare il rischio di morte per droga concorrono altri fattori oltre all’incidenza del consumo. Ha un ruolo rilevante il sistema dei servizi perché influisce sul grado di protezione della popolazione di utilizzatori, e l’Italia è considerata un paese con pieno accesso a tutte le principali strategie terapeutiche, quelle psicosociali e sostitutive in particolare. Ma va considerata anche la struttura del mercato illegale che determina la variabilità della purezza della sostanza al dettaglio, causa principale della overdose, e il mercato italiano viene considerato stabile. Infine, non si può escludere una scarsa accuratezza dei dati perché la qualità delle statistiche è decisamente migliorabile. In ogni caso, si tratta di un argomento che meriterebbe di essere approfondito.

 

Il cambiamento delle politiche

 

Intanto, le politiche sembrano avviarsi verso una nuova fase: il documento europeo prende atto del cambiamento in corso a livello internazionale sancito dalla valutazione negativa che lo United Nations Office on Drugs and Crime (Unodc) ha dato delle politiche fortemente proibizionistiche ereditate dagli anni Novanta, e auspica una nuova politica "in cui la riduzione della domanda acquisisca un’importanza maggiore" e in cui "la riduzione del danno sia inclusa a tutti gli effetti".

In Italia c’è molto da fare per aderire a queste raccomandazioni: la riduzione della domanda soffre di molti limiti. In particolare, la prevenzione è ancora considerata una specie di pratica taumaturgica, diffusa virtualmente in tutte le scuole, ma con interventi che sono in gran parte lezioni di una mattinata, meramente informativi sulle droghe e i relativi danni: cioè proprio quegli interventi che il documento europeo esplicitamente stigmatizza. Eppure, la comunità scientifica ha dimostrato l’efficacia di numerosi interventi, scolastici, famigliari e ambientali, a partire ad esempio da regolamenti scolastici che impegnano i docenti ad atteggiamenti ritenuti preventivi.

Gli interventi di riduzione del danno, come la distribuzione di siringhe e preservativi, di Narcan per l’overdose da eroina, di metadone a bassa soglia, poi, sono svolti in modo sporadico da enti pubblici e privati su base quasi volontaristica, e a malapena sono stati fino ad ora tollerati dai ministeri competenti. Si tratta di interventi pragmatici, mirati alla salvaguardia della salute, e sono un obiettivo fissato dalla EU Drugs Strategy 2005 - 2012.

Gli interventi di prevenzione e di riduzione del danno sono tecnologie sanitarie in senso proprio: possono avere effetti positivi, ma anche effetti collaterali a volte inaccettabili (si pensi a un intervento di prevenzione che aumenta l’uso di sostanze). È dunque auspicabile che si intraprenda formalmente un percorso che permetta di identificare le pratiche che hanno dimostrato una maggiore efficacia, attraverso valutazioni scientifiche rigorose. Servono poi finanziamenti adeguati per diffondere quelle pratiche, e un’organizzazione che assicuri la qualità e l’omogeneità sul territorio nazionale degli interventi. Percorso che è ancora ben lungi dall’essere stato scelto dall’Italia.

Usa: se la polizia vi ferma… non dite niente senza un avvocato

 

Corriere della Sera, 4 gennaio 2010

 

Sono un ginecologo e lavoro nei due ospedali di Tallahassee, capitale della Florida. La sera del 28 dicembre sono andato a riportare dei Cd di musica classica alla libreria della Florida State University. Uno della polizia universitaria mi ha seguito e poi mi ha fermato, dicendo che ero passato con il rosso (non era vero).

Mi aveva prima redarguito per avere i fari spenti dentro il campus, e io li ho accesi, erano le 8 di sera. Poi mi ha messo le manette, dicendo che c’era un arrest warrant firmato da un giudice a mio nome, per violazioni della legge di immigrazione. Avevo lasciato la mia casa la mattina precedente, avevo avuto vari parti e operazioni e stavo per andare in ospedale per una paziente.

Non ha voluto sentire ragioni, non aveva nessun valore che fossi cittadino americano dal 2001, che tutti mi conoscono nei due ospedali, che dovevo chiamare l’infermiera. Non mi hanno permesso di comunicare con l’ospedale, ma hanno chiamato loro, dicendo che mi avevano arrestato e sarei rimasto in prigione.

Dopo 30 minuti passati al freddo, con altri 3 - 4 poliziotti e vari Suv intorno a me, un console Usa gli ha detto di liberarmi. Il poliziotto, tale Griffith, un tipo veramente simpatico, si è scusato "per la confusione". Hanno capito che quello del warrant non ero io. La mia reazione, più che la rabbia, è stata di incredulità, ma poi capisci perché hanno 3 milioni di detenuti. Uno studente nero, magari della Giamaica, non avrebbe avuto scampo.

Sono in America da molti anni, forse aprirò un’azione legale, ma devo prima vedere se il gioco vale la candela. Non ha senso spendere 20 mila dollari di spese legali per avere una lettera di scuse dalla polizia. Questo veramente ti apre la mente sulla vera realtà dell’America, altro che take it easy. Vorrei dire a voi tutti, se la polizia vi ferma, state sempre molto attenti, non dite niente senza un avvocato e massima cortesia. Poi avrete modo di rivalervi, forse.

 

Alfredo Nova

Spagna: Bilbao; manifestazione per diritti dei detenuti dell’Eta

 

Ansa, 4 gennaio 2010

 

Alla fine la controversa manifestazione per i detenuti dell’Eta si è svolta. Ieri a Bilbao in Spagna migliaia di persone sono scese in piazza per chiedere maggiori diritti per i circa 600 membri del gruppo separatista basco che si trovano rinchiusi nelle carceri spagnole. "Non c’è pace senza amnistia", "prigionieri baschi nelle prigioni basche". Tanti gli slogan e gli striscioni ma nessun incidente per le strade della città.

Il corteo ha suscitato non poche polemiche a partire dalle organizzazioni dei familiari delle vittime del terrorismo e dal governo di Madrid. La scorsa settimana, il ministro dell’interno Rubalcaba aveva lanciato un allarme: l’Eta tornerà a colpire per dimostrare di essere ancora forte nonostante i duri colpi subiti negli ultimi anni. E così in tutto il Paese, che dal primo gennaio ha assunto la presidenza di turno dell’Unione Europea, è stato innalzato il livello di allerta anti - terrorismo.

 

 

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