Rassegna stampa 18 gennaio

 

Giustizia: contro il sovraffollamento, solo le misure alternative

di Cosimo Maria Ferri (Membro del Consiglio Superiore della Magistratura)

 

Il Tirreno, 18 gennaio 2010

 

La scorsa settimana si è consumato, nel carcere di Massa, il quinto suicidio, nel 2010, di un detenuto nei penitenziari italiani. L’uomo ha annodato un lenzuolo al tubo della doccia e si è impiccato. Un Paese come l’Italia non deve aver timore nell’affrontare il tema di una riforma carceraria. E, nel dare atto al ministro Alfano di aver affrontato il problema con serietà tanto che il Consiglio dei ministri ha dichiarato lo stato di emergenza, evidenzio che la vera soluzione è uscire dall’emergenza.

La questione del sovraffollamento è un problema complesso, non risolvibile in breve tempo, che nasce da una pluralità di fattori: disattenzione della politica; sostanziale blocco dell’edilizia carceraria; legislazione su "tolleranza zero" per recidivi e colpevoli di reati di particolare allarme sociale; doveroso rigore della magistratura di sorveglianza nella concessione dei benefici penitenziari.

È stata persa un’occasione formidabile rappresentata dallo svuotamento delle carceri dopo l’indulto del 2006, che avrebbe consentito interventi su strutture carcerarie fatiscenti e realizzazione di politiche penitenziarie più adeguate ai tempi. La tutela dei diritti dei detenuti, le loro condizioni di vita e le politiche necessarie a migliorarle devono costituire obbiettivi comuni e primari per tutte le istituzioni interessate e devono collaborare.

In prospettiva, è necessario che si concretizzi un piano di edilizia carceraria ed un incremento dei posti per rendere dignitose le condizioni dei detenuti in carcere. A breve sarebbe auspicabile agevolare il ricorso alle misure alternative come la detenzione domiciliare, la quale consente ai condannati per pene inferiori ai 2 anni - a parte alcune eccezioni - di scontare la pena presso il proprio domicilio; le preclusioni connesse a dette misure, introdotte dalla legge ex Cirielli, non appaiono sempre giustificate da un’effettiva pericolosità sociale del condannato.

L’effetto deterrente della detenzione domiciliare potrebbe essere potenziato facilitando il ricorso a forme di controllo a distanza, già previste dall’ordinamento penitenziario (anche mediante mezzi elettronici); o istituendo reparti speciali di polizia penitenziaria destinati al controllo dei condannati in esecuzione di misure alternative alla detenzione. Sarebbe anche importante potenziare lo strumento dell’espulsione applicabile agli stranieri, finora resa assai problematica da gravi problemi organizzativi.

Non può poi trascurarsi che l’eccessiva durata dei processi determina la presenza in carcere di moltissimi soggetti non sottoposti all’espiazione di una pena definitiva, ma a misure cautelari; al riguardo è necessaria un’accelerazione dei tempi processuali, da ottenersi non già con soluzioni-capestro come il processo breve, ma rivedendo le norme processuali, eliminando i troppi processi "inutili" per reati minori e aumentando le risorse per l’organizzazione e l’automazione della giustizia.

Un Paese come l’Italia, ne sono convinto, non può tollerare oltre l’emergenza carceraria. È una questione di diritto. Per arrivare ad una riforma però è necessaria una ripresa del dialogo con gli operatori chiamati ad applicare le norme, in un clima di collaborazione in via istituzionale con forme permanenti di consultazione allo scopo di recuperare finalmente alla politica, cui è demandata la responsabilità della sintesi legislativa, l’indispensabile apporto tecnico.

Giustizia: per carceri costituzionali, riformare il sistema penale

di Susanna Marietti (Associazione Antigone)

 

Terra, 18 gennaio 2010

 

Continua la desolante situazione di sovraffollamento carcerario. Siamo sempre più lontani dai valori espressi nella nostra Carta costituzionale che all’art. 27 precisa che "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato".

L’analisi complessiva del "pianeta carcere" è fortemente desolante: il sovraffollamento è tale da determinare condizioni di vita intollerabili per la riduzione degli spazi vitali, in un contesto già compromesso quanto a rispetto e tutela dell’integrità psico-fisica della persona detenuta. Un monito forte in questo senso è arrivato anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo che nell’agosto dell’anno scorso ha condannato l’Italia a risarcire un detenuto bosniaco per i danni morali subiti a causa del sovraffollamento della cella in cui è stato recluso per alcuni mesi nel carcere di Rebibbia tra il novembre del 2002 e l’aprile del 2003. Del resto, l’incidenza del numero dei suicidi sulla popolazione detenuta continua a mantenersi su livelli elevatissimi: muore un detenuto ogni 2 giorni e nel 2009 il numero dei sucidi in carcere è raddoppiato rispetto all’anno precedente.

Un’emergenza continua che ci allontana sempre di più dai valori espressi nella nostra Carta costituzionale che all’art. 27 precisa che "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato"; in sostanza, il carcere dovrebbe essere un luogo che produce sicurezza collettiva nel rispetto della dignità dei detenuti: quanto di più lontano dalla nostra attuale realtà!

Un dato che deve spingere a riflettere, e che impone di individuare con rapidità le modalità esecutive più idonee per far sì che il numero dei suicidi, ma anche degli episodi di autolesionismo decresca significativamente. Non credo che la vera soluzione del problema sia nella costruzione di nuove carceri, come prospettato dal ministro Alfano, all’indomani del via libera del Consiglio dei ministri al c.d. piano carceri.

Certo, il quadro degli interventi da realizzare si presenta decisamente problematico, anche in considerazione del fatto che non si è ancora provveduto ad una riforma organica del sistema penale nel suo complesso, sistema che in alcuni casi si presenta come inutilmente vessatorio e che contribuisce ad incrementare la popolazione carceraria tra le 500 e le 1.000 unità al mese. Ed è soprattutto in questa direzione che va ricercata la causa dell’aumento dei suicidi all’interno del sistema penitenziario.

Quali le possibili soluzioni? Bisognerebbe innanzitutto riflettere seriamente sull’impiego della custodia cautelare, considerando la detenzione in carcere solo come extrema ratio, da applicarsi esclusivamente nei casi in cui effettivamente ne ricorrano i presupposti. Basti riflettere sul dato che quasi la metà dei detenuti è infatti in attesa di giudizio.

Accanto a questo, potenziare il ricorso alle misure alternative alla detenzione - come stanno facendo anche gli Stati Uniti - sia nella fase terminale del trattamento, al fine di favorire il reinserimento del reo nella società, sia ab origine per i reati meno gravi, per evitare l’effetto desocializzante del carcere. Una adeguata valorizzazione della "politica del non ingresso" - già presente nella ratio della legge Gozzini prima e della Simeone-Saraceni dopo - consentirebbe infatti di evitare il carcere per quei soggetti per i quali l’esperienza carceraria sarebbe più criminogena che rieducativa. Su questa linea mi sembra quindi decisamente da apprezzare la scelta del governo di estendere l’istituto della "messa in prova" - già sperimentato nel processo minorile a tutti i reati con pena inferiore ai 3 anni, in modo da consentire la sospensione del processo se il condannato deciderà di svolgere lavori di pubblica utilità.

Questo innegabile indirizzo di favore per la "decarcerizzazione", che mi vede decisamente d’accordo, riflette infatti l’esigenza di massimo contenimento nell’uso della pena detentiva, anche e soprattutto in considerazione dell’attuale "paralisi" del sistema processuale e carcerario nel suo complesso. Vero e che una riforma seria dovrebbe intervenire anche a monte sulla selezione dei reati, riservando la sanzione penale ai soli comportamenti davvero meritevoli di tutela e selezionando con maggiore razionalità ciò che deve costituire illecito penale e ciò che invece può essere meglio perseguito attraverso sanzioni amministrative.

Giustizia: Cnvg; sul sesto detenuto suicida da inizio dell’anno

 

Ristretti Orizzonti, 18 gennaio 2010

 

L’ennesima morte in carcere dovrebbe richiamare l’attenzione e l’intervento di tutte le istituzioni coinvolte. Non siamo di fronte solo a raptus incontrollabili, a fattori individuali, ma soprattutto ai problemi esplosivi del sistema carcerario. Ci dovrebbe essere un grosso investimento in attenzione per invertire il corso di questa drammatica ascesa. Non è un obiettivo impossibile, ed è doveroso perseguirlo.

Sarebbe sicuramente indispensabile il potenziamento dei presidi psicologici e psichiatrici, affinché seguano le persone in modo non frammentario e carente, garantendo una presenza ed una continuità di ascolto; ma non solo. Si tratta di realizzare una operazione che si snodi su vari piani organizzativi, in cui agli specialisti si affianchino i medici, gli educatori, gli infermieri, i volontari, la polizia penitenziaria opportunamente formata, la salute mentale del territorio (spesso assente), ognuno con il proprio compito ma finalizzato all’unico obiettivo della tutela della vita delle persone recluse. La messa in gioco sinergica di tutte queste componenti può aiutare a cogliere maggiormente ed anticipatamente i segnali premonitori di possibili gesti indotti dalla sofferenza, e renderne partecipi tutti i soggetti coinvolti intorno a quella persona allo scopo di prevenire esiti drammatici.

Rilevare tempestivamente la "sindrome presuicidaria" non è semplice; vanno quindi aumentati gli strumenti di ascolto della sofferenza anche quando essa non emerge con clamore, anche quando il dolore è muto.

Le persone che arrivano al gesto estremo hanno spesso sopportato assenze, risposte mancate, sia di tipo sanitario che educativo e sociale, sia psichiatriche che assistenziali all’interno dell’istituto. Quindi, spesso, il gesto non è un problema di patologie: la sofferenza non è, di per sé, malattia, ma può nascere dall’assenza di risposte.

Nel carcere la sofferenza si esprime con mille comportamenti, con mille gesti che potrebbero invece essere rilevati, ma che purtroppo non raggiungono la soglia impenetrabile dell’organizzazione. Quando poi questa sofferenza si manifesta esplicitamente il richiamo è troppo disperato, i gesti sono troppo clamorosi, i comportamenti troppo incontenibili per essere prevenuti.

Quindi, aumentare i presìdi, non solo del personale specialistico, ma di persone che ascoltano, che stiano dentro le sezioni, le situazioni critiche. Nell’Ordinamento penitenziario è previsto che i volontari possano fare questo, in particolare nelle sezioni più disagiate, quelle a minor indice di risposte trattamentali.

Noi volontari ci siamo. Siamo disponibili ad incrementare energie e risorse per far fronte a questa emergenza. Ma la nostra disponibilità rischia di essere una risposta generosa quanto ingenua se contestualmente non si accompagna ad una attivazione di tutte le risposte istituzionali.

Le risorse vanno trovate. Per ora il piano carceri si preoccupa solo dell’edilizia. Pochissimi gli investimenti per il personale educativo e la sanità stenta. È necessario che si intervenga immediatamente per migliorare le condizioni di vita nei penitenziari senza aspettare il piano carceri, che richiederà comunque anni per essere attuato. Anche per le morti in carcere andrebbe dichiarato lo stato d’emergenza, con conseguenti rapidi provvedimenti e soluzioni.

 

Elisabetta Laganà

Presidente Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia

Giustizia: Bernardini; ai direttori possibilità rifiutare i detenuti

 

Ansa, 18 gennaio 2010

 

Un intervento legislativo che dia la possibilità ai direttori delle carceri di poter rifiutare l’arrivo di altri detenuti quando gli istituti penitenziari che dirigono hanno raggiunto la loro massima capienza. Lo ha annunciato l’onorevole radicale Rita Bernardini al termine della sua visita al carcere di Sulmona, dove oggi un detenuto ha tentato di suicidarsi proprio mentre era in corso il sopralluogo della parlamentare.

Non è possibile che il direttore sia costretto ad accettare qualsiasi numero di detenuti nel suo carcere - ha affermato la Bernardini -, tra l’altro diventando il solo responsabile di tutto quello che avviene all’interno della struttura penitenziaria.

Oggi - ha proseguito - abbiamo potuto verificare di persona una situazione che vede lo Stato fuorilegge, uno Stato che definirei delinquente abituale, visto che da 60 giorni, da quando ho fatto la mia ultima denuncia al termine di una visita analoga alla struttura peligna, ha lasciato che i problemi di sovraffollamento e di carenza di organico restassero immutati, anzi peggiorassero fino alla situazione di oggi diventata, davvero insostenibile.

Per non parlare della situazione sanitaria che è disastrosa - ha concluso la parlamentare: ci sono centinaia di detenuti con problemi psichici che sono sofferenti e che dovrebbero essere sottoposti a trattamento medico ma che in realtà vengono abbandonati a se stessi.

Giustizia: presto in servizio, i 294 nuovi educatori penitenziari

di Daniele Biella

 

Vita, 18 gennaio 2010

 

Dal 22 gennaio 2010 le carceri italiane avranno 294 educatori in più. Alle dipendenze del Dap, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, i nuovi assunti sono stati selezionati tramite un concorso e sono distribuiti tra gli istituti di pena di 13 province, dove andranno ad affiancarsi al personale già presente.

Nello specifico, il numero più alto di inserimenti avverrà nelle carceri della Provincia di Milano, con 75 neoassunti (in particolare, 16 nel carcere di Opera e 13 a Bollate). Nei penitenziari bolognesi arriveranno invece 42 educatori, mentre a Torino e provincia saranno 32. Seguono le province di Padova e Catanzaro con 23, Firenze con 22, Palermo e Cagliari con 16, Genova con 11, Pescara e Ancona con nove, infine Napoli e Potenza con 8 nuove figure educative. La professione dell’educatore in carcere, resasi sempre più definita dall’approvazione della legge 354 del 1975 che sottolineava l’importanza del ruolo rieducativo della pena da scontare, è oggi sotto vari aspetti indispensabile nella vita quotidiana degli istituti penitenziari.

Emilia Romagna: proposta legge per chiusura Case di Lavoro

 

Dire, 18 gennaio 2010

 

L’Assemblea legislativa dell’Emilia Romagna sta per approvare una proposta di legge da presentare in Parlamento, con la quale verrà richiesta l’abolizione dell’istituto penale delle Case di lavoro. Istituite nel 1930 dal Codice Rocco, queste strutture sono adibite ad ospitare quei detenuti che, allo scadere della pena, siano ancora considerati socialmente pericolosi: per favorirne il reinserimento sociale, il giudice può disporre che vengano "internati" (questo il termine giuridico) in uno di questi centri, dove dovrebbero svolgere attività lavorative.

Primi firmatari della proposta sono stati i consiglieri regionali Matteo Richetti e Gianluca Borghi (entrambi Pd), che hanno di recente visitato gli oltre 90 detenuti della casa lavoro di Saliceta San Giuliano, in provincia di Modena. "I detenuti di Saliceta - spiega Borghi - non svolgono nessun tipo di attività, vivono in condizioni di sovraffollamento e non possono usufruire di permessi. Per quanto ci risulta, le condizioni detentive delle altre quattro Case lavoro presenti in Italia non sono diverse.

Questo contraddice le finalità stesse della struttura, che dovrebbe favorire il reinserimento sociale e lavorativo". La Casa di lavoro "è un’istituzione anacronistica, superata dai fatti e dai tempi- continua- e porta alla condizione paradossale di detenuti senza pena. Il periodo trascorso nell’istituto, che generalmente non ha una fine prestabilita, si protrae infatti fino alla nuova decisione del giudice, e arriva così ad essere un’autentica misura di sicurezza post detentiva".

La discussione della proposta di legge del Pd è fissata per la seduta dell’Assemblea legislativa del 3 febbraio. "La Costituzione italiana dà alle Regioni la possibilità di presentare proposte di legge al Parlamento- spiega Borghi- e noi vogliamo chiudere la legislatura regionale cercando di eliminare questa aberrazione dal codice penale italiano". Ed è proprio da un’obiezione di incostituzionalità che la proposta di legge si è sviluppata: la detenzione nelle Case lavoro è infatti, secondo Borghi e Richetti, in aperta contraddizione con l’articolo 27 della Costituzione, che afferma come "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato".

Il problema è quanto mai attuale, all’indomani dell’approvazione del Piano carceri in Consiglio dei ministri.

L’Emilia-Romagna è oggi la regione che presenta i più gravi problemi di sovraffollamento carcerario dell’intera penisola, con i detenuti in sovrannumero del 90% rispetto alla capienza regolamentare. Già lo scorso agosto, inoltre, ci furono disordini in un’altra Casa di lavoro a Castelfranco Emilia, quando i carcerati, nel mezzo di uno sciopero della fame, salirono sui tetti per denunciare le condizioni della loro detenzione.

Milano: morte di Mohammed in carcere, proteste e polemiche

di Davide Carlucci

 

La Repubblica, 18 gennaio 2010

 

"Ennesimo suicidio in carcere". La denuncia del comitato antirazzista di Milano si riferisce alla morte di Mohammed El Abbouby, detenuto nordafricano vittima delle esalazioni di una bomboletta del gas da campeggio nella sua cella a San Vittore. Gli agenti lo hanno trovato in fin di vita e lo hanno accompagnato in ospedale, dove è morto.

Luigi Pagano, provveditore regionale alle carceri lombarde, ritiene però che non si sia trattato di suicidio: "Stava scontando una pena di sei mesi in regime aperto e tra un mese sarebbe uscito. E non aveva dato segni particolari di malessere, tanto che lo avevamo inserito tra i lavoranti". Pagano ha disposto comunque l’apertura di un’inchiesta interna e un fascicolo d’indagine è stato aperto anche dalla procura di Milano.

L’ipotesi alternativa al suicidio è che si sia trattato di un incidente: il ragazzo avrebbe inalato il gas, come fanno a volte i detenuti con problemi di tossicodipendenza, e avrebbe perso conoscenza. Mohammed El Abbouby, 25 anni, era stato arrestato il 15 agosto in occasione della rivolta del centro di identificazione in via Corelli, sempre a Milano, e condannato con l’accusa di danneggiamento, incendio e resistenza a pubblico ufficiale.

Il Comitato considera El Abbouby "l’ennesima vittima del razzismo di uno stato che semina morte in ogni dove, in nome della democrazia imperialista che rappresenta". "Speriamo almeno - è scritto in un comunicato - che la sua morte possa servire a riscaldare i cuori e gli animi di coloro che, forse divorati dall’assuefazione, ritengono ancora che la lotta contro i Cie assuma un senso poco più che simbolico, o che sia una battaglia specifica, proprietà politica di una qualche parrocchia in cerca di gloria o rappresentanza". Altri quattro immigrati saranno processati per un’altra rivolta avvenuta a novembre al Corelli. Se fosse confermata l’ipotesi del suicidio, sarebbe il sesto caso in Italia dall’inizio dell’anno.

Massa: detenuto suicida, sotto accusa gli agenti dell’infermeria

 

Il Tirreno, 18 gennaio 2010

 

Abellativ Sirage Eddine, il marocchino di 27 anni che si è tolto la vita impiccandosi nel carcere di Massa, poteva essere fermato in tempo dalle guardie carcerarie? In parole povere: gli agenti hanno commesso un errore nel sorvegliare il detenuto? Se lo domandano gli inquirenti che stanno lavorando sul suicidio nella casa circondariale di via Pellegrini.

Non sarà semplice accertarlo, anche perché l’autopsia eseguita dal medico legale Maurizio Ratti per ora ha accertato le cause del decesso ("asfissia meccanica acuta") ma non è riuscita a stabilire quanto tempo è rimasto impiccato il ragazzo magrebino. Il racconto delle guardie è però netto: un agente ha visto il marocchino penzoloni ed è entrato tirandolo giù.

E il detenuto era ancora vivo, cianotico ma vivo. Se fosse confermato questo aspetto ecco che la mancata sorveglianza sarebbe da escludere. Anzi, sarebbe la conferma della perfetta esecuzione del controllo. Gli agenti sono sicuri di non aver fatto errori. E anzi rivelano un particolare: la sera dell’ultimo dell’anno una guardia aveva sventato il suicidio di un altro carcerato, che voleva togliersi la vita perché messo al corrente di un grave problema familiare. Ma siccome non poteva essere fuori per dare una mano ai suoi cari, preso dallo sconforto aveva deciso di mettersi un sacchetto di plastica in testa e asfissiarsi con il gas di una bomboletta da campeggio che gli serviva per cucinare.

Era stato salvato in extremis, ma l’episodio conferma la difficoltà che esiste anche per le forze dell’ordine nel carcere di Massa. Tornando al gesto estremo di Sirage c’è un’altra cosa da chiarire: perché il ragazzo si trovava in infermeria? A quanto pare non era malato e non aveva necessità di cure.

A livello di si dice radio carcere fa trapelare che il magrebino si trovasse lì per tenerlo lontano dagli altri detenuti, che non gli perdonavano o il suo comportamento oppure qualche reato commesso precedentemente. Circostanza questa che avvalorerebbe il disagio del giovane, tanto da spingerlo a togliersi la vita, ma avvalorerebbe anche l’ipotesi che forse un controllo maggiore era indispensabile. Per ora il pm, Rossella Soffio, ha concesso il nulla osta per la sepoltura. In attesa degli esiti degli accertamenti tossicologici.

Sulmona: Uil; dall’inizio dell’anno un suicidio e tre tentati suicidi

 

Apcom, 18 gennaio 2010

 

Duplice tentativo di suicidio nel fine settimana nel carcere di Sulmona: il primo è avvenuto sabato, mentre era corso una visita di Rita Bernardini, con un detenuto che aveva tentato di impiccarsi e poi a darsi fuoco. Il secondo ieri: un detenuto ha tentato di suicidarsi impiccandosi con i lacci delle scarpe. Per entrambi il tempestivo e provvidenziale intervento della polizia penitenziaria ha scongiurato esiti drammatici. Due tentati suicidi, quindi, nel giro di 48 ore, in un carcere n cui dall’inizio dell’anno si sono già registrati tre tentati suicidi e un suicidio.

Il segretario generale della Uil Pa Penitenziari, Eugenio Sarno, ricorda che da tempo che la Uil sostiene che a Sulmona bisogna intervenire, tanto da aver organizzato una serie di manifestazioni di proteste. "È del tutto evidente - dice - che gli ambienti destinati a Casa di Lavoro non presentino le caratteristiche proprie per ospitare gli internati che, di fatto, scontano una impropria detenzione ordinaria. Per questo pensare ad una delocalizzazione in altra struttura della Casa di Lavoro ci pare inevitabile. Analogamente la struttura ricavata per i soggetti con gravi problemi psichici non garantisce le peculiarità che deve avere una struttura sanitaria".

A Sulmona sono presenti circa 200 unità a fronte delle 340 previste. Sulmona potrebbe ospitare al massimo 235 detenuti e 50 internati, invece oggi si contano 326 detenuti, circa 300 i tossicodipendenti e ben 170 internati di cui 150 con gravi patologie psichiche. "In questa situazione non bastano certo la buona volontà, la disponibilità e la professionalità del personale per gestire l’ordinaria emergenza. Bisogna fare - dice Sarno - molto e di più, senza perdere altro tempo perché la situazione è difficile in tutti gli istituti dell’Abruzzo. A Lanciano, per esempio,il personale da tre mesi non si reca in mensa per protestare anche contro l’intenzione di aprire una nuova sezione senza provvedere all’adeguamento dell’ organico della polizia penitenziaria".

Como: Sappe; detenuto si impicca in cella, salvato dagli agenti

 

Il Giorno, 18 gennaio 2010

 

Sono riusciti a salvarlo pochi minuti prima che perdesse conoscenza, sventando l’ennesimo tentativo di suicidio all’interno del carcere Bassone. È accaduto alcuni giorni fa in sezione, dove un detenuto italiano di mezza età era riuscito a realizzare artigianalmente una corda che si è legato stretta attorno al collo prima di farla passare tra le sbarre della finestra del bagno.

Ad intervenire, avvisando contemporaneamente il medico di turno in infermeria, sono stati un sovrintendente e un assistente capo di polizia penitenziaria, che erano in servizio nella sezione. Qualcosa ha attirato la loro attenzione, e li ha spinti a fare un controllo in cella dove hanno trovato l’uomo pochi attimi prima che mettesse in atto il suo intento. Il medico gli ha prestato le prime cure poi il detenuto è stato trasferito in infermeria sotto osservazione. Così, grazie a questo intervento tempestivo, è stato sventato un nuovo suicidio a Como, casa circondariale dove i gesti di autolesionismo hanno sempre rappresentano un problema.

Il Sappe, Sindacato Autonomo della polizia, denuncia il "sovraffollamento esasperato della popolazione detenuta, sempre in crescita, la forte carenza di organico di Polizia Penitenziaria, il carcere che richiede più interventi strutturali sul piano edilizia, fondi necessari che non arrivano mai". In particolare, in questa circostanza, il sindacato sottolinea la professionalità degli agenti di polizia penitenziaria "che ogni giorno mantengono sicurezza, ordine, e umanità per le persone recluse", chiedendo l’istituzione di un riconoscimento ufficiale.

Livorno: 700 in corteo, per chiedere verità sui morti in carcere

 

La Repubblica, 15 gennaio 2010

 

Madri, padri, amici, gente qualunque senza insegne di partito, senza bandiere. C’erano almeno settecento persone in corteo ieri mattina a Livorno per chiedere verità e giustizia per i giovani deceduti nelle carceri, nelle strutture psichiatriche o negli scontri con le forze dell’ordine: "Troppi ragazzi morti per mano dello Stato" hanno gridato gli organizzatori della marcia.

La manifestazione, prima del genere in Italia, è stata ideata da Maria Ciuffi la mamma di Marcello Lonzi, morto in cella alle Sughere nel 2003 in circostanze mai del tutto chiarite. Alcuni negozi del centro hanno tenuto abbassate le saracinesche per timore di incidenti, invece la marcia è stata pacifica. Hanno aderito i familiari di Federico Aldovrandi e la madre di Stefano Cucchi il giovane romano morto per un presunto pestaggio subito dalle forze dell’ordine.

Presente anche Heidi Giuliani, madre di Carlo il giovane morto durante il G8 di Genova, mentre Rita Cucchi - la madre di Stefano - che non è potuta essere presente e ha inviato una lettera: "Dobbiamo continuare a lottare - ha scritto Rita - per ridare dignità alla morte dei nostri figli e per continuare a chiedere verità e giustizia a quelle istituzioni nelle quali abbiamo ancora fiducia non solo come madri, ma come cittadine italiane".

La manifestazione è stata esplicitamente voluta dai promotori senza insegne e bandiere di partito, senza alcuna tensione e solo con qualche slogan contro la polizia e alcune scritte contro le forze dell’ordine vergate sui muri con bombolette spray che sono state già cancellate.

Roma: nuovo carcere in periferia, si cerca area nell’hinterland

di Gabriele Isman

 

La Repubblica, 15 gennaio 2010

 

Un nuovo carcere a Roma, da realizzare in periferia. Dopo la dichiarazione dello stato di emergenza da parte del governo e l’annuncio del Guardasigilli Angiolino Alfano di "nuove strutture da realizzare tra il 2011 e il 2012", il Dipartimento affari penitenziari ha cominciato in modo riservato a lavorare al piano carceri.

La Capitale è certamente nell’elenco delle localizzazioni per i nuovi istituti di pena che nel loro insieme, secondo il progetto Alfano, porteranno a 80 mila i posti disponibili: "Non è un caso - dice Sandro Medici, presidente del municipio X - che negli ultimi tempi gli imprenditori edili, anche importanti, che si rivolgono agli uffici dipartimentali del Comune, sentano parlare di questa possibilità. D’altra parte il piano regolatore approvato due anni fa, al termine della seconda consiliatura Veltroni, prevede le centralità urbane, poli di sviluppo in periferia, e almeno 4 o 5 di queste contengono una previsione urbanistica di funzioni pubbliche. Il carcere è considerata una funzione pubblica".

Medici non parla a caso: nel suo territorio ci sono due delle diciotto centralità previste nel Prg: sono Romanina e Torrespaccata, tra le più grandi. Altre localizzazioni possibili sono Acilia e Pietralata. "Anche noi, in via ufficiosa - conferma il minisindaco di Cinecittà - abbiamo saputo di questa ipotesi che naturalmente vediamo con grande preoccupazione. Le periferie hanno bisogno di attività, dinamismo, occasioni di sviluppo, pubbliche e private. Soltanto così possono emanciparsi dalla loro storica arretratezza, dalla loro marginalità urbana. Il carcere sarebbe al contrario un peso urbanistico passivo, parassitario, di sole esigenze di servizio, oltre all’abbassamento di qualità delle nostre zone". Di certo proporre un’abitazione nuova a potenziali acquirenti vicino a un istituto di pena non risulterebbe così appetibile.

La questione del nuovo carcere nella Capitale non arriva a caso. A Roma da anni si parla di svuotare Regina Coeli, ipotizzando un riutilizzo di una struttura sicuramente di prestigio, di grandissimo valore da vari punti di vista a partire da quello economico, ma ormai inadatta a ospitare un carcere. "Non vorrei - dice ancora Medici - che svuotare il centro del peso di Regina Coeli fosse un ulteriore squilibrio che andrebbe a cadere in periferia. Altri sarebbero i trasferimenti necessari verso i nostri territori: per esempio da tempo proponiamo la nuova città giudiziaria in una delle nostre centralità, ma riceviamo la ferra opposizione delle grandi corporazioni del settore".

Medici conferma il progetto del carcere a Roma, e aggiunge: "Sono contrario a nuovi istituti di detenzione chiusi e blindati. Meglio forme di pene alternative. Tuttavia anche laddove si ritenesse necessario, la città di Roma è inadatta ad accogliere un nuovo penitenziario che difficilmente si inserirebbe nel tessuto urbano della città e andrebbe anzi a creare ulteriori problemi". Dal minisindaco di Cinecittà arriva infine una proposta: "Il comprensorio romano arriva ormai a Pomezia, Lariano e Guidonia: perché non realizzare il carcere nella fascia esterna alla Capitale e abbandonare l’idea, che pure circola in questi giorni, di realizzarlo dentro la città?".

 

Marroni: Regina Coeli va chiuso, è uno scandalo

 

"Chiudere Regina Coeli? Ne parlai dieci anni fa, e le reazioni che ebbi all’epoca furono negativissime". A dirlo è Angiolo Marroni, garante dei detenuti del Lazio. "A reagire negativamente - ricorda - furono dagli avvocati che avrebbero perso una comodità territoriale, ai commercianti della zona, agli stessi lavoratori del carcere. Proposi di farne un nuovo Beaubourg con parcheggi sotterranei e istituzioni culturali. Avrebbe dato anche un volto nuovo a Trastevere".

 

Secondo la sua proposta, dove sarebbero dovuti finire i detenuti di Regina Coeli?

"A Rebibbia, dove esistono già quattro istituti, e se ne può aggiungere un quinto: è già una città penitenziaria dentro Roma, come è giusto che sia. Ma le reazioni furono negative anche sue questo. Io resto dell’idea che Regina Coeli sia da chiudere".

 

Perché?

"Innanzitutto non consente, come prevede invece la Costituzione, la pena utile ai fini del reinserimento. Non vi sono spazi verdi e aree per la socialità interna. Poi è tutto umido, in strutture vecchie e obsolete. È un carcere dall’Ottocento e anche gli uffici amministrativi sono sacrificati".

 

Quante persone sono ospitate a Regina Coeli?

"Attualmente 1.100 circa, anche se la sua capienza è di 700: è un carcere giudiziario con un movimento costante di detenuti, ma il loro numero aumenta sempre. Si dice che non vi siano detenuti con lunghe detenzioni, ma è una menzogna. Vi è anche un centro clinico con problemi agli ascensori e difficoltà su come collocare queste celle con 5-6 malati. Regina Coeli è assolutamente da chiudere, non solo per i legni che chiudono la visuale ai detenuti. È l’unico carcere nel Lazio che ancora ha questo tipo di finestre".

 

Come vede le proposte del ministro Alfano?

"Non con ostilità se il piano carceri serve a sostituire strutture fatiscenti. Se invece mira a incrementare la popolazione carceraria, non va bene. Soprattutto servono misure di pena alternative".

Roma: a Rebibbia il recupero dei detenuti comincia dalle cucine

di Giovanni Ruggiero

 

Avvenire, 15 gennaio 2010

 

Dentro, dietro le sbarre, ci sono i lavoranti: lo "spesino", "lo scopino", lo "scrivano", ma in realtà nessuno fa un vero lavoro. Il lavoro che nobilita, a usare una frase fatta, o che riabilita, come nel caso di persone detenute per espiare una pena: i carcerati. Alle persone detenute nella Casa circondariale di Rebibbia (Nuovo complesso) dal 2003 è stata data questa occasione: un lavoro vero, come quello svolto "fuori", preceduto dalla formazione, regolarizzato con un contratto e retribuito con un minimo sindacale.

L’idea di offrire un lavoro vero è di Men at Work e di e-Team, due intraprendenti cooperative (la seconda con sede dentro il carcere), con il necessario appoggio del Dap (il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) e della direzione della Casa circondariale. L’idea ha preso corpo con il servizio di cucina dentro le mura di Rebibbia. Con il Progetto ristorazione sono i detenuti a preparare i pasti per tutti gli internati che sono 1630, qualche centinaio più di quanti la struttura ne potrebbe ospitare.

Li abbiamo visti: sono 24 particolari chef che, divisi in due turni, preparano ogni giorno la colazione, il pranzo e la cena. La cuffia bianca, i guanti, qualcuno con la mascherina, intenti ai fornelli o a fare il primo razionamento del cibo che poi, in singoli vassoi, arriverà in tutte le celle di tutte le sezioni.

Un ristorante con 1.630 coperti non è uno scherzo. È necessario un preciso e puntuale razionamento. Alle undici e trenta arrivano nelle celle la frutta e il pane, poi i primi, quindi i secondi e i contorni. Vediamo prendere la via delle celle badilate di penne con funghi e salsiccia. Seguiranno un migliaio di cotolette, senza considerare i pasti di chi, per ragioni mediche, segue diete particolari.

Luciano Pantarotto è a capo della cooperativa Men at Work: "Questo lavoro - dice - non è una finzione. Perché il progetto rieducativo, che è poi quello previsto dalla Costituzione, possa funzionare è necessario assoggettare i lavoratori, benché particolari, a tutte le regole, come avverrebbe se fossero liberi cittadini". Il che significa: domanda di impiego e colloqui per essere assunti, poi corso di formazione professionale (perché non ci si può improvvisare cuochi) e conoscenza di tutte le norme Haccp (sull’igiene e la tracciabilità del cibo) che sono poi le stesse che deve osservare un qualsiasi ristorante che apre i battenti in una qualsiasi città italiana. Che non sia una lavoro per finzione lo dimostra infine la paga: in tre anni, il detenuto che lavora al progetto percepisce il cento per cento del minimo sindacale che tocca i mille euro. Gli verranno depositati su un conto personale. Può utilizzare solo una parte, e il resto, se vuole, trasferirlo alla famiglia.

"Di più - aggiunge don Sandro Spriano, il cappellano di Rebibbia e anima di e-Team - questa iniziativa insieme ad altre, come ad esempio il call center per Telecom rappresentano una educazione al lavoro che è premessa per il futuro, quando per il detenuto le porte del carcere si apriranno definitivamente, scontata la pena. E che sia un metodo efficace di recupero sociale - aggiunge - lo dimostrano i dati sulla recidiva: per chi si è impegnato in una attività lavorativa è del 10 per cento. Negli altri casi è del 68 per cento".

Il progetto intende adesso aprirsi al mercato e farsi dunque competitivo, perché un conto è cucinare per chi non può protestare se il cibo lascia a desiderare, e un conto è preparare, con un vero e proprio servizio di catering, pasti per l’esterno. Nascerà - è questo il progetto nuovo - "Centro Cottura" che potrà assumere almeno altri 20 chef detenuti.

Tra i cuochi, Carmelo Sabatelli, pugliese, condannato a 16 anni, ma da alcuni mesi in regime di semi libertà. È un esempio concreto di reinserimento riuscito: Carmelo ha cominciato a cucinare pasti all’interno di Rebibbia e oggi lavora a tutti gli effetti con Men at Work. Il recupero passa dai fornelli e da altre cose: l’aiuto degli altri. "Un grazie agli educatori e un grazie ai volontari: - dice - devo a loro questi miei passi verso il reinserimento nella società". Carmelo non ha difficoltà a ricordare la brutta storia che lo ha portato in galera, ma aggiunge: "Si ricomincia se c’è qualcuno che crede in te. Qualcuno ha creduto in me, ma prima mi ha fatto comprendere la gravità del mio errore. Non puoi iniziare di nuovo -aggiunge - se sei ancora convinto che quanto hai commesso era giusto. Io non ho fatto una cosa giusta".

Claudio Chigarelli, un altro cuoco di Rebibbia, uscirà fra 4 anni e sei mesi e conta i giorni con i pranzi e con le cene. Lo incontriamo nel parlatorio di Rebibbia. Ha appena finito di cucinare e parla con noi, mentre i carrelli dei maccheroni si avviano verso i reparti: "Ho letto l’avviso - ha ricordato - e ho fatto subito domanda. Ero sicuro che mi prendevano. Dopotutto, a casa cucinavo io". Prima di finire a Rebibbia faceva il muratore: "L’edilizia è fatta così: un giorno ti porti a casa un botto. Poi per mesi non fai un euro".

Adesso prende 700 euro al mese, fissi, e preferisce cambiare discorso descrivendo il giorno in cui spera di aprire un localino o qualcosa del genere. "Noi qui facevamo anche la pizza", ci informa seguendo chissà quale pensiero. Forse pensa ad aprire una pizzeria, e l’assistente capo, che controlla austero al nostro incontro, pare voglia confermare: "Ed era pure bona"

Grosseto: carcere ad alto rischio, "trappola" in caso di incendi

 

Il Tirreno, 15 gennaio 2010

 

Tanto è antico, quanto è inadeguato alla sua funzione. Il penitenziario di via Saffi, uno degli edifici storici più belli di Grosseto, è privo degli standard di sicurezza necessari. Lo si dice da anni, ora l’allarme diventa sos: dipendenti e detenuti, qui, sono a rischio. Soprattutto in caso di incendi, questo carcere potrebbe trasformarsi in una trappola micidiale.

Lo dice senza giri di parole Rocco Curzio, rappresentante dei lavoratori della casa circondariale. Il quale sciorina l’elenco dei pericoli e delle mancanze, e denuncia il silenzio delle autorità preposte, che sembrano ignorare segnalazioni e appelli in arrivo da Grosseto. Compresi quelli - spiega Curzio - lanciati dalla stessa direttrice del penitenziario di via Saffi, Maria Cristina Morrone, "che ha sempre inoltrato agli uffici superiori quanto da me segnalato in qualità di rappresentante dei lavoratori".

"Da anni - denuncia Curzio - l’impianto di rilevazione fumi e incendio non è funzionante, il che non dà la possibilità di intervenire tempestivamente allo scoppio di un incendio. Non esiste poi un impianto di evacuazione di fumo e calore", sottolinea, ricordando come le conseguenze di questa carenza i dipendenti le abbiano "provate sulla loro pelle" il 24 novembre scorso, quando un detenuto scatenò un incendio nella sua cella: "Il fumo velenoso - dice Curzio - ristagna nei reparti detentivi.

E deriva spesso dai materassi che, se pur ignifughi, con il forte calore si sciolgono producendo acido cianidrico, monossido di carbonio e quant’altro". Ma la lista nera non finisce qui: "Le zone detentive sono sprovviste di luci di emergenza, niente coperte antifiamma, non vi sono installate, all’infuori di un solo locale, porte tagliafuoco a chiusura automatica nei punti chiave a rischio incendio, l’impianto degli idranti è collegato alla rete idrica generale e non ad apposita rete, come da normativa; il che significa che se l’acqua viene chiusa alla città per un guasto o per un qualunque motivo, non si ha la possibilità di usare gli idranti in caso di incendio.

Lo stesso impianto elettrico delle zone detentive è pericoloso e non a norma, ad esempio fili di sezione sottodimensionati e non ignifughi. A tutt’oggi - conclude Curzio - non vi è un Documento di valutazione dei rischi e un Documento prevenzione incendi in linea con quello che stabilisce invece la normativa vigente". Insomma, in caso di incendi il carcere di via Saffi potrebbe trasformarsi in un inferno.

Ipotesi remota? Tutt’altro. E i fatti dello scorso novembre lo dimostrano. In quell’occasione - assicura Curzio, "solo per pura fortuna e grande sprezzo del pericolo da parte dello scrivente e dei due colleghi in servizio, si è evitata una tragedia. Ma non ci si può affidare sempre alla fortuna,sopratutto quando c’è di mezzo la vita umana".

Eppure "gli estintori serviti per spegnere quell’incendio sono ancora da circa due mesi riposti vuoti in attesa di essere ripristinati e riempiti con polvere". E nel reparto ora manca persino questo sistema manuale di pronto intervento. Anche questo fatto - come tutte le altre carenze - è stato segnalato al Provveditorato regionale di Firenze. Il quale, ribadisce Curzio, continua a non intervenire. Nonostante le leggi e nonostante gli annunci di questi giorni che il governo lancia sulla volontà di rendere più sicure le carceri italiane.

Bollate: Riccardo Muti si esibisce in un concerto per i detenuti

 

La Repubblica, 15 gennaio 2010

 

Da cinque anni manca da un palco milanese. Per spezzare questa lontananza, ha scelto un luogo - e un pubblico - d’eccezione. Il maestro Riccardo Muti sarà lunedì pomeriggio al carcere di Bollate, dove trascorrerà due ore con le detenute, i detenuti e il personale, suonando alcuni brani e chiacchierando con tutti. Un incontro informale, all’insegna della musica, soprattutto, ma anche un modo per collegare mondi spesso distanti.

Un’occasione straordinaria per Bollate, nata nel modo più semplice. Qualche tempo fa un detenuto del gruppo teatrale ha scritto al maestro per invitarlo a suonare in carcere e Muti ha accettato con entusiasmo. "Siamo onorati di avere il maestro con noi, anche per la semplicità con la quale ha accettato l’invito: e sarà un momento prezioso per tutti, detenuti, agenti penitenziari, personale, anche per me. Non capita tutti i giorni, certo", racconta la direttrice del carcere Lucia Castellano.

L’appuntamento è nel teatro della casa di reclusione che è il fiore all’occhiello degli istituti lombardi, tra progetti di reinserimento sociale e attività all’interno della struttura: qui c’è già un pianoforte a coda che verrà accordato in tempo per l’esibizione di Muti.

Nessuna indicazione sui brani che suonerà: ma qualsiasi scelta, assicura la direttrice, farà contenti gli ospiti di Bollate, tutti orgogliosi di essere il primo pubblico milanese che Muti - oggi, trai tanti incarichi, direttore artistico della Chicago Symphony Orchestra - rivede dopo il burrascoso congedo dalla direzione della Scala, nel 2005. Da allora l’unica volta che Muti è tornato in Lombardia è stato nel giugno scorso, quando ha diretto l’orchestra Cherubini nel Duomo di Monza. Questa volta, invece, sarà solo sul palco con il pianoforte. Tra gli ospiti ci sarà anche il detenuto che ha invitato il maestro: rientrerà in carcere per un solo giorno, dopo aver finito di scontare la pena.

Volterra: la Compagnia della Fortezza è di esempio nel mondo

 

Il Tirreno, 15 gennaio 2010

 

La professionalità dei detenuti-attori proietta Volterra in Europa e non solo. Le metodologie di Carte Blanche e l’esperienza della Compagnia della Fortezza fanno il giro del mondo. E il regista Armando Punzo rimane sempre l’uomo chiave. Con tanto di "stati generali" delle diverse esperienze nel settore (Francia, Svezia, Germania, Inghilterra, Spagna), workshop, summit tra i maggiori registi e operatori internazionali e la presentazione al pubblico di alcuni lavori.

"In Europa - spiega Armando Punzo - non esiste un’attività simile alla nostra. Ci sono alcune sperimentazioni che le assomigliano magari sotto gli aspetti terapeutici ma mai così strutturate". Senza contare le tournèe su è giù per la penisola. "Il Laboratorio Teatrale nel Carcere - ripercorre le tappe principali Punzo - nasce nel 1988. Da allora la Compagnia ha prodotto un nuovo spettacolo ogni anno e dal 1993 gli spettacoli sono stati rappresentati fuori dal Maschio e invitati nei principali teatri e festival anche internazionali". Da "La gatta Cenerentola" a "Marat Sade", dall’"Amleto" all’"Orlando Furioso", fino all’ultima rappresentazione, del 2009 "Alice nel paese delle meraviglie".

 

 

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