Rassegna stampa 3 febbraio

 

Giustizia: il Governo propone di modificare le pene alternative

 

Apcom, 3 febbraio

 

Detenzione domiciliare per chi deve scontare solo un anno di pena, anche se parte residua di una pena maggiore, e sospensione del processo con messa alla prova delle persone imputabili per reati fino a tre anni che così potranno svolgere lavori di pubblica utilità: sono le due modifiche che il governo vuole inserire nel decreto sulle sedi disagiate che l’Aula della Camera inizierà ad esaminare dopo l’approvazione del legittimo impedimento.

L’intenzione è quella di presentare alcuni emendamenti che ricalcano il ddl previsto dal piano carceri, approvato in Consiglio dei ministri lo scorso 13 gennaio. Il relatore del decreto Alfonso Papa (Pdl) e il sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo hanno sondato i gruppi dell’opposizione sul tema: si tratta infatti di una materia estranea al merito del provvedimento sulle sedi disagiate e come tale è necessaria l’unanimità per apportare le modifiche volute dall’esecutivo per alleggerire il sistema carcerario italiano.

Giustizia: Idv; serve progetto legge organico, così non ci piace

 

Ansa, 3 febbraio 2010

 

"Se il governo ha intenzione di affrontare l’emergenza carceri mettendo a punto un provvedimento ad hoc, noi siamo pronti a discuterne. Ma evitiamo di fare uno spezzettamento di varie misure da inserire in testi di legge diversi". Il capogruppo dell’Idv in Commissione Giustizia della Camera Federico Palomba risponde così al sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo che nel pomeriggio aveva provato a sondare l’opposizione per sapere se fosse stata d’accordo nell’inserire delle norme carcerarie nel dl per le sedi disagiate.

"Noi ovviamente - spiega Palomba - visto che per consentire questa operazione servirebbe l’unanimità, ci siamo detti contrari. E anche il Pd non era convinto. Il piano carceri per affrontare un’emergenza così grave dovrebbe essere una cosa seria da realizzare con un progetto di legge organico ed esauriente. Non infilando norme da tutte le parti, così come ormai è solita fare la maggioranza".

"E poi - sottolinea - non si tratta di uno o due emendamenti, ma di un vero e proprio pacchetto di proposte, uno dei quali prevede la possibilità di scontare agli arresti domiciliari, l’ultimo anno di detenzione che resta. Ma non credo - conclude Palomba - che questa sia la strada giusta per affrontare il problema".

Le norme che il governo vorrebbe inserire sottoforma di emendamento al decreto legge sulle sedi disagiate riguardano misure per decongestionare il sovraffollamento carcerario. Si tratta, in particolare, della previsione di detenzione domiciliare nei confronti dei condannati ai quali resta un solo anno di carcere, e dell’introduzione della cosiddetta "messa alla prova" nei confronti di imputabili di reati fino a tre anni che potrebbero ottenere la sospensione del processo dietro la garanzia di compiere lavori di pubblica utilità.

Il governo - secondo quanto si è appreso - aveva già provato a inserire queste due norme, previste dal piano carceri, nel pacchetto di emendamenti al decreto legge sulle sedi disagiate presentato in Commissione Giustizia alla Camera. Tuttavia, vista la non omogeneità della materia, gli emendamenti non erano stati inseriti. Per ottenere il via libera in aula, sarebbe stato quindi necessario il consenso di tutti i gruppi parlamentari; consenso che, però, non c’è stato.

Giustizia: Ionta in Commissione di inchiesta sui suicidi in cella

 

Agi, 3 febbraio 2010

 

Il Capo del Dap Franco Ionta è stato sentito oggi in audizione dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sugli errori in campo sanitario. Su invito del presidente della Commissione Leoluca Orlando, il responsabile del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria accompagnato dal vice Santi Consolo, è stato sentito sul problema della sanità penitenziaria, in particolare sul problema dei suicidi in carcere. Il Capo del Dap, si legge in una nota del Dipartimento, ha illustrato i dati relativi ai suicidi in cella, evidenziando l’attività della Polizia Penitenziaria nella prevenzione degli atti di autolesionismo e negli interventi per scongiurare i tentativi di suicidio. Nel corso dell’audizione, inoltre, è stato illustrato il rapporto di collaborazione con le Regioni a statuto ordinario con le quali sono stati attivati tavoli tecnici per monitorare e applicare il passaggio della sanità penitenziaria alle Regioni. Per quanto riguarda le Regioni a statuto speciale, per le quali il passaggio non è ancora avvenuto, è stato sollecitato il confronto tra Regioni interessate e il ministero degli Affari Regionali.

In riferimento al problema del sovraffollamento negli istituti penitenziari, inoltre, Ionta ha evidenziato “l’impegno del Governo e del ministro della Giustizia sul fronte dell’ampliamento della capienza delle carceri e degli interventi stabiliti per fare fronte allo stato di emergenza carcere, tra cui l’assunzione di duemila unità di Polizia Penitenziaria”.

In relazione agli interventi a favore della popolazione detenuta, è stato poi illustrato il progetto “Luce e Libertà” finanziato in parte dalla Cassa delle ammende per 3.894.886 euro: il progetto, il cui obiettivo è quello di attivare percorsi concreti di occupabilità, sviluppo di coesione ed economia sociale fondata su avanzate tecnologie ambientali di produzione energetica, è rivolto a favorire l’inserimento lavorativo di 56 internati dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto. Il presidente Leoluca Orlando ha annunciato che, terminati gli incontri con i rappresentanti delle Regioni, farà visita al Dap.

 

Ionta: sette i suicidi dall’inizio dell’anno, sono stati 58 nel 2009

 

Sono già sette i detenuti che si sono suicidati nelle carceri italiani dall’inizio del 2010. Lo ha reso noto il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), Franco Ionta, presentando un dossier sul fenomeno nel corso di un’audizione presso la Commissione parlamentare d’inchiesta sugli errori in campo sanitario. Nel corso del 2009, secondo il documento, sono stati 58 i detenuti che si sono tolti la vita dietro le sbarre, pari a un tasso di 8,2 su 10mila, contro la media europea (dato del 2006, ultima rilevazione ufficiale) di 8,1 su 10mila. Nel 2008 erano stati 42 i carcerati suicidi (7,66 su 10mila), nel 2007 furono 45 (10,9) e 50 nel 2006 (9,9).

“Ogni suicidio in carcere - ha detto Ionta - è una sconfitta per lo Stato. I numeri sono in linea con l’Europa ma questo non mi consola. L’anno scorso abbiamo avuto 58 suicidi, una cifra grave che richiede il nostro intervento.

Voglio dire però - ha aggiunto - che la polizia penitenziaria svolge un ruolo molto importante di prevenzione, sventando molti suicidi”.

A proposito della differenza tra i dati del Dap e quelli pubblicati dalle associazioni che operano in carcere, come Antigone, secondo cui nel 2009 i suicidi dietro le sbarre sono stati 72, Ionta ha sottolineato di non sapersene spiegare il motivo. “I nostri numeri - ha detto - sono anche abbastanza larghi, nel senso che includono anche casi dubbi in cui non certo che si sia trattato di suicidi ma che potrebbero essere semplici incidenti”.

Nel 2009, si legge nel dossier, il 13,8% del totale dei suicidi è avvenuto a meno di 10 giorni dall’ingresso in carcere e il 12% a meno di 10 giorni da un trasferimento da un altro carcere. Due su tre, tra i detenuti che si tolgono la vita sono italiani. A uccidersi sono quasi sempre gli uomini che rappresentano il 91,4% del totale dei suicidi. Sono soprattutto i detenuti in attesa di un primo grado di giudizio che si tolgono la vita: rappresentano il 39,7% del totale, contro il 31% di chi ha già subito una condanna definitiva, il 13,8% di chi ha avanzato un appello o un ricorso e un altro 13,8% di chi è in “posizione giuridica mista”.

 

Osservatorio Permanente: con Dap altro sistema rilevazione morti

 

La differenza tra i 72 suicidi di detenuti, che sono stati registrati dall’Osservatorio permanente sulle morti in carcere nel corso del 2009, ed i 58 rilevati dal Dap è “la conseguenza del diverso sistema di rilevazione utilizzato”. Lo spiega in una nota l’Osservatorio permanente sulle morti in carcere, formato da Radicali Italiani, Il Detenuto Ignoto, Antigone, A Buon Diritto, Radiocarcere e Ristretti Orizzonti.

“Per il Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria, infatti, un detenuto che si impicca in cella, viene soccorso mentre è ancora in vita, ma poi muore durante il trasporto all’ospedale, o anche alcuni giorni dopo il ricovero senza riprendere conoscenza, non rientra nelle statistiche dei suicidi ma soltanto in quelle dei tentati suicidi, che non a caso fanno registrare numeri elevatissimi: oltre 800 nell’ultimo anno”.

“Per noi, invece, il detenuto che si è impiccato in cella e muore in autoambulanza o dopo il ricovero nel reparto di rianimazione è da considerarsi suicida in carcere a tutti gli effetti. Lo stesso discorso vale per le morti di detenuti provocate da “altre cause”: perfino il caso, ormai notissimo, di Stefano Cucchi non viene incluso tra le “morti in carcere”, in effetti Stefano è morto in ospedale, ma noi lo consideriamo tra i “morti di carcere” per il semplice fatto che era privato della libertà personale”.

 

Commissione errori sanitari: continueremo indagine

 

“La Commissione che presiedo proseguirà l’indagine sulla tutela della salute dei detenuti, che sarà seguita in particolare dai deputati Doris Lo Moro e Melania De Nichilo Rizzoli”. Così Leoluca Orlando, presidente della Commissione errori sanitari e disavanzi sanitari regionali, che oggi ha audito, nell’ambito dell’indagine sulla salute nelle carceri, il direttore del Dipartimento di amministrazione penitenziaria Franco Ionta.

L’audizione ha avuto per oggetto il tema dell’assistenza sanitaria dei detenuti e quello dell’errore sanitario in carcere, con particolare riferimento alle problematiche dei suicidi, della salute mentale, delle tossicodipendenze, dell’incidenza di patologie sanitarie dei detenuti rispetto alla popolazione normale.

I responsabili del Dap hanno illustrato i dati del Dipartimento relativi a suicidi e tentativi di suicidio nelle carceri, e quelli relativi alla diffusione di virus e all’incidenza delle malattie, illustrando poi l’impegno del governo, in collaborazione con lo stesso Dipartimento, ad interventi di edilizia carceraria e ad aumento del numero di unità di Polizia penitenziaria per alleviare la condizione dei detenuti e garantire migliore assistenza.

Nel corso dell’audizione è stato inoltre sollevato il problema delle Regioni a Statuto speciale che, come ha evidenziato il presidente Orlando, non hanno ancora trasferito la gestione della salute nei penitenziari dal ministero della Giustizia al Servizio Sanitario nazionale, con gravi conseguenze sui detenuti stessi. La tutela della salute dei detenuti, ha concluso Orlando, “ci interessa particolarmente, vista la condizione di maggiore vulnerabilità e sofferenza di questa parte della popolazione, sulla quale ogni carenza di assistenza così come ogni eventuale caso di errore sanitario può causare conseguenze ancora più tragiche di quelle, già drammatiche, cagionate alla popolazione normale”.

 

Orlando: Regioni autonome in ritardo su salute detenuti

 

Le Regioni a Statuto speciale sono in ritardo sull’assunzione della competenza della salute in carcere. Lo ha sottolineato il presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sugli errori in campo sanitario, Leoluca Orlando, al termine di una audizione del capo del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria (Dap), Franco Ionta. “C’è un ritardo molto grave - ha detto Orlando - da parte di tutte e cinque le Regioni a Statuto speciale nell’assumere la responsabilità della salute dei detenuti. Le Regioni a Statuto ordinario sono invece tutte ormai pienamente responsabili della materia. Quelle a Statuto speciale non hanno ancora adeguato le proprie strutture a questa nuova funzione”.

Giustizia: psicologi contro il Dap; annullate Circolare sui suicidi

 

Ristretti Orizzonti, 3 febbraio 2010

 

L’Ordine degli Psicologi contro il Dap: annullate la Circolare sui "Servizi di ascolto" per la prevenzione dei suicidi affidati alla polizia penitenziaria, o dovremo tutelarci, ricorrendo anche alla magistratura.

Il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi, con una lettera indirizzata al Capo del Dap Franco Ionta, ha chiesto al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di annullare "in autotutela", la Circolare n. 32296 del 25 gennaio 2010, che ha istituito un "servizio di ascolto" composto da poliziotti penitenziari per far fronte al rischio suicidi tra i detenuti.

Nella missiva, Giuseppe Luigi Palma, Presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi, premettendo che l’obiettivo di ridurre il numero dei suicidi in carcere "è auspicabile e del tutto condivisibile", rimarca che nella Circolare sono contenuti "alcuni importanti elementi di forte criticità".

"Gli elementi di criticità rispetto all’impianto voluto dalla circolare riguarda, innanzitutto la circostanza che soggetti estranei alla professione di psicologo possano svolgere le attività riservate dalla legge ai soli iscritti all’albo degli Psicologi", dichiara Palma.

Oltre a ciò "Gli psicologi in ruolo da poco transitati nel Sistema Sanitario sono appena 16", quindi "appare necessario e urgente procedere all’assunzione di un congruo numero di psicologi nel rispetto delle indicazioni previste dal Dpcm 1 aprile 2008".

Palma conclude con questa valutazione: "È evidente che, sebbene sia giusto l’obiettivo del DAP con la circolare in oggetto, non può in alcun modo essere condiviso lo strumento con cui si intende perseguirlo. Infatti, il conferimento ad altre figure professionali di compiti precipui della professione di psicologo, oltre ad essere ingiusta è anche illegittima".

Quindi invita il Dap "a voler annullare, in autotutela, la Circolare" e "In caso contrario, per dovere istituzionale dell’Amministrazione che rappresento sarò costretto a tutelare la professione di psicologo in ogni sede necessaria, anche quella giudiziaria".

Giustizia: contro l’ergastolo… per restituire umanità alla pena

di Benedetta Fallucchi

 

Left, 3 febbraio 2010

 

Mentre aumentano i suicidi in cella, il libro "Contro l’ergastolo" lancia una sfida e riapre un dibattito. A partire da alcuni scritti di Aldo Moro.

"La morte è un supplizio nella misura in cui non è semplice privazione del diritto di vivere ma occasione di calcolate sofferenze". Così si esprimeva Michel Foucault in Sorvegliare e punire a proposito della pena di morte. L’Italia è stata fortemente attiva nella campagna per la moratoria Onu delle esecuzioni capitali. Tuttavia nel nostro Paese è in vigore un’altra forma di pena che se pure non costituisce in sé una privazione del diritto di vivere, rappresenta comunque un’occasione di calcolate sofferenze. Parliamo dell’ergastolo.

Il dibattito per l’abolizione di questo istituto ha una storia piuttosto lunga e di tutto rispetto ma negli ultimi dieci anni si è andato progressivamente assopendo fin quasi a scomparire. Tenta di scardinare il silenzio intorno alla questione il volume Contro l’ergastolo (Stefano Anastasia e Franco Corleone - Ediesse edizioni, 2009).

Come spiega Stefano Anastasia, che è anche uno dei fondatori dell’associazione "Antigone" da sempre impegnata nel volontariato nelle carceri italiane, "siamo partiti, un po’ provocatoriamente, da alcune affermazioni pronunciate da Aldo Moro nel 1976 nel suo corso di Istituzioni di diritto e procedura penale che ci è sembrato interessante riproporre". Parole forti come queste: "L’ergastolo, privo com’è di qualsiasi speranza, di qualsiasi prospettiva, di qualsiasi sollecitazione al pentimento e al ritrovamento del soggetto, appare crudele e disumano non meno di quanto lo sia la pena di morte".

Un sasso lanciato nello stagno ormai immobile di questa discussione, un pretesto per "ricostruire una cultura smarrita", oltre che un altro modo di guardare alle preoccupanti condizioni dei detenuti italiani. Anche perché, spiega Anastasia, si è fatta strada nella società italiana la convinzione che l’ergastolo sia sostanzialmente non applicato nel nostro Paese ma se si guardano i dati emerge una realtà molto diversa: al 31 dicembre 2008, gli ergastolani presenti nelle carceri italiane ammontavano a 1.408, un dato ragguardevole se comparato con il 408 ergastolani del 1992 e tenuto conto del fatto che la popolazione detenuta è sì cresciuta nel corso di questi 16 anni ma non certo quadruplicata.

Secondo Anastasia, inoltre, l’ergastolo non è in grado di assolvere alla funzione educativa prevista dall’art. 27 della nostra Costituzione. E questo è tanto più vero quando si pensa alla crisi strutturale del nostro sistema penitenziario, privo com’è di risorse umane ed economiche, con carcerati che vivono in celle sovraffollate e spesso non dotate dei requisiti minimi di accettabilità, in cui molto spesso anche i programmi educativi che dovrebbero essere garantiti vengono disattesi o non realizzati.

Fino al 23 gennaio 2010, sono già 7 i detenuti suicidi in carcere, su 15 morti in totale. Se confrontiamo questo dato con quelli che si riferiscono al 2009 - 72 suicidi con una media di 6 al mese - vediamo che l’emergenza tende a crescere sempre di più. Anche il governo si è accorto della non sostenibilità della situazione: il 13 gennaio ha dichiarato lo stato d’emergenza e ha predisposto un piano per aumentare la capienza nelle carceri di 21 mila unità. Ma il clima generale è sempre più votato all’uso politico dell’insicurezza sociale e il ricorso alle pene dure è diventato la panacea di tutti i mali: quella per l’abolizione dell’ergastolo appare dunque una battaglia impossibile. Almeno a livello italiano.

Una speranza può essere però l’Europa. Questa l’ottica dell’associazione "Liberarsi" che aspetta nei prossimi mesi il pronunciamento della Corte europea dei Diritti dell’uomo di Strasburgo su un ricorso presentato da 750 detenuti italiani. Spiega Giuliano Capecchi, di "Liberarsi": "Si tratta di spostare il baricentro della discussione dall’Italia all’Europa, sulla scorta delle esperienze di Paesi abolizionisti come la Spagna o il Portogallo". Insomma "Fine pena: forse", ma solo se sarà l’Europa a imboccare questa strada.

Giustizia: caso Cucchi; indagini su cartelle cliniche manomesse

 

Apcom, 3 febbraio 2010

 

"Da più fonti affidabili abbiamo avuto conferma del fatto che la procura sta lavorando alla seguente ipotesi: la possibile contestazione dei reati di falso materiale e falso ideologico sulle cartelle cliniche del reparto detentivo del Pertini". Lo ha detto Luigi Manconi del Comitato per la verità su Stefano Cucchi, nel corso di una conferenza stampa presso il Senato. "Abbiamo conferma - ha precisato - dell’ipotesi accusatoria alla quale si sta lavorando, riguardante il fatto che le cartelle cliniche non sarebbero state integralmente rispettate nella loro stesura originale ma che avrebbero subito interventi tali da poter confermare falso ideologico e falso materiale".

 

La lettera scomparsa

 

Ci sarebbe una lettera scritta prima di morire e indirizzata alla comunità terapeutica Ceis che non è mai arrivata e ora è introvabile oltre a una possibile contestazione di falso nelle cartelle cliniche del Pertini: sono queste le ultime novità sul caso Cucchi il detenuto morto all’ospedale Pertini il 22 ottobre del 2009.

Quella lettera risulta tra gli oggetti personali redatti nel verbale del Dap del Pertini, ma non in quelli di un altro verbale del carcere di Regina Coeli. La stessa esistenza della lettera è testimoniata da una sopraintendente del Dap del Pertini. Lo ha riferito in una conferenza stampa al Senato, Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, il detenuto morto all’ospedale Pertini il 22 ottobre del 2009. "Dopo la morte di Stefano - ha spiegato Ilaria Cucchi - tutti i suoi oggetti personali furono riposti in una scatola trasportata al carcere di Regina Coeli.

Quando qualche giorno fa è avvenuto il ritiro da parte di noi familiari ci siamo accorti di una anomalia: riguardo ai due verbali redatti sul contenuto della scatola, c’è una differenza. Nel primo è citata la presenza di una lettera e nel secondo no". Per Ilaria Cucchi "l’esistenza della lettera trova riscontro in una dichiarazione di una vice-sopraintendente del Dap del Pertini, che consegnò a mio fratello una busta, un foglio e un francobollo per scrivere alla comunità terapeutica Ceis, dove non risulta essere arrivata la lettera".

"Abbiamo avuto notevoli difficoltà per ritirare la scatola - ha sottolineato Ilaria Cucchi - e a noi risulta solo il verbale degli oggetti ritirati a Regina Coeli, mentre al verbale del Dap del Pertini, dove risulta la lettera, non abbiamo avuto l’accesso. Ma sappiamo da fonti autorevoli dell’esatto contenuto dello stesso verbale".

 

"Lesioni non mortali": ma allora perché è morto?

 

Non sarebbero state mortali le lesioni riscontrate su Stefano Cucchi, il 31enne romano morto il 15 ottobre scorso nel reparto detentivo dell’ospedale Pertini a Roma, dopo essere stato vittima di un presunto pestaggio da parte di tre agenti carcerari, indagati per omicidio preterintenzionale insieme a sei medici del Pertini, indagati per omicidio colposo.

Il dato emerge da una nuova perizia, non ancora arrivata all’elaborato finale, che daterebbe la frattura della vertebra a una epoca precedente a quella del presunto pestaggio. Fu proprio quella frattura, anzi, a dare l’idea che fosse avvenuto un pestaggio ai danni di Stefano. "Saranno fatti altri esami radiologici specifici - spiega ad Apcom Diego Perugini, legale di Nicola Minichini, uno degli agenti della penitenziaria indagati nella vicenda - e altri accertamenti e si stanno valutando altri elementi, come le ecchimosi sul corpo". È chiaro, però, che se la perizia finale confermasse questi dati, si ridimensionerebbe molto la responsabilità degli agenti e cadrebbe l’accusa di omicidio preterintenzionale".

Se la perizia andasse in questa direzione, infatti, vorrebbe dire che Stefano Cucchi non è morto per le lesioni riportate nel presunto pestaggio cui sarebbe stato sottoposto in una delle celle del tribunale di Roma: "Si ridimensionerebbero le condizioni del ragazzo al momento dei fatti - prosegue Perugini - ma si aprirebbe ovviamente il problema causale: perché è morto Stefano Cucchi?".

Domani i familiari di Stefano, la sorella Ilaria, il legale Fabio Anselmi e diversi parlamentari, hanno indetto una conferenza stampa di presentazione di "alcune novità sulla morte di Stefano", ma Anselmi spiega ad Apcom che "anche se le lesioni subite da Stefano non fossero mortali, ma avessero poi provocato la morte del ragazzo perché mal curate, le accuse sarebbero comunque in linea con quelle di omicidio preterintenzionale. Nulla muterebbe".

 

Ionta: dovrebbe cadere accusa omicidio preterintenzionale

La consulenza tecnica richiesta dalla Procura di Roma, secondo la quale la morte di Stefano Cucchi non sarebbe stata causata dalle lesioni riportate in seguito al presunto pestaggio da parte delle guardie carcerarie, “dovrebbe far cadere, e questo sarebbe già un primo passo, l’accusa rivolta in questo momento solo alla polizia penitenziaria, di omicidio preterintenzionale”. Lo ha detto il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), Franco Ionta, parlando con i cronisti al termine di audizione presso la Commissione parlamentare d’inchiesta sugli errori in campo sanitario dedicata la tema della salute in carcere. “Tecnicamente - ha aggiunto Ionta - non può essere addebitato a chi eventualmente ha compiuto il pestaggio la morte determinata da un’altra causa”.

“Sul caso Cucchi - ha proseguito Ionta - c’è un’indagine in corso e spero che la magistratura possa fare chiarezza. Io ho fatto svolgere - ha ricordato - un’indagine amministrativa che, allo stato, non ha dimostrato responsabilità della polizia penitenziaria”. “Voglio dire a questo proposito - ha poi aggiunto il capo del Dap - che per un episodio che mi è stato riferito nel carcere di Teramo, ho sospeso il comandante dalle funzioni. L’ho fatto il giorno dopo aver appreso del caso, e non era lui quello che eventualmente aveva compiuto l’aggressione. L’amministrazione - ha concluso - è molto attenta su questo”.

Padova: "Ristretti", giornale dal carcere contro l’indifferenza

di Lorenzo Guadagnucci

 

Il Giorno, 3 febbraio 2010

 

La rivista del "Due Palazzi" di Padova è la più autorevole sul mondo penitenziario. In redazione anche la figlia di una vittima delle Br. "Ristretti Orizzonti": notizie oltre le sbarre, contro l’indifferenza.

"Ristretti Orizzonti" è una rivista molto particolare: la redazione - circa 30 persone - è composta da detenuti ed ex detenuti, ma nel gruppo come volontaria c’è anche Silvia Giralucci, figlia di Graziano, ucciso con Giuseppe Mazzola nel 1974 nella sede dell’Msi da un commando delle Brigate Rosse. La direttrice, Ornella Favero, è un’insegnante che ha conosciuto il carcere, come volontaria, quasi per caso: "Mia sorella insegnava lì, poi c’è stata anche l’amicizia con Adriano Sofri".

Nata nel 1997, oggi "Ristretti Orizzonti", fra mensile, sito e newsletter, è la più completa e autorevole fonte d’informazione dal carcere e sul carcere. Il notiziario quotidiano, in particolare, è una fonte irrinunciabile sul mondo penitenziario: quando accade qualcosa, mettiamo, a Palermo, il tam tam entra immancabilmente in azione e la notizia arriva rapidamente alla redazione padovana - nel carcere Due Palazzi - e da lì diventa di dominio pubblico. Sono uscite così notizie molto scomode, ad esempio sui suicidi in cella.

"Ma ormai - osserva Favero con soddisfazione - anche i sindacati degli agenti penitenziari ci mandano i loro comunicati". È una credibilità guadagnata sul campo e grazie a un impegno che va in molte direzioni, con un’attenzione speciale al mondo delle scuole: "Lavoriamo sulla consapevolezza - spiega Favero - vogliamo che i giovani siano coscienti che il reato e il carcere non sono qualcosa di alieno, ma fanno parte della realtà che ci circonda". Ma per capire davvero che cos’è "Ristretti", bisogna partecipare al convegno annuale organizzato nel carcere padovano.

L’edizione del maggio scorso era dedicata alla prevenzione dei reati, con ospiti come Benedetta Tobagi, Paola Reggiani (sorella di Giovanna, uccisa a Roma nel 2007), Elena Valdini, autrice di un libro sulle vittime della strada, don Gino Rigoldi e poi criminologi, studiosi. Impressionante il pubblico: scolaresche, avvocati, magistrati, semplici cittadini, in tutto qualche centinaio di persone.

Si è discusso di prevenzione a partire dall’esperienza condotta da "Ristretti" nelle scuole e concentrata sul dialogo e l’ascolto delle vittime. Un detenuto albanese ha raccontato che la faida che l’aveva spinto all’omicidio è finita perché il padre della vittima lo ha perdonato: "Questo ha svuotato ogni senso di giustificazione che mi ero creato", ha detto commosso. "In momenti così - commenta Ornella Favero - capisci che è possibile smuovere qualcosa, che la relazione fra dentro e fuori non è inutile".

Silvia Giralucci, durante il convegno, ha espresso lo stesso concetto con altre parole: "Se proviamo a conoscere l’altro dall’interno - anche se l’altro in questione è o assomiglia al nostro nemico - non possiamo più essere indifferenti a lui, siamo costretti a riconoscerne il diritto all’esistenza, alla storia, alla sofferenza e alle speranze".

Bollate (Mi): direttrice premiata; carcere modello rieducazione

di Raffaella Oliva

 

Corriere della Sera, 3 febbraio 2010

 

"Mio figlio è dentro da più di un anno e dovrà restarci per almeno altri tre. Gli hanno insegnato a domare i cavalli, forse un giorno potrà lavorare all’ippodromo. Sconta la sua pena e intanto impara a fare qualcosa. Se no cosa combinerebbe una volta uscito di qui?". Siamo al carcere di Bollate, a parlare è la mamma di un detenuto: due volte alla settimana viene a trovare il suo primogenito, che "ora ha messo la testa a posto - dice -, perché questa più che una prigione è un collegio, i detenuti li educano, non li abbandonano a se stessi".

Da sempre, infatti, nella Casa Circondariale alle porte di Milano, fiore all’occhiello del sistema penitenziario italiano, si porta avanti un’importante politica di reinserimento sociale dei detenuti, coinvolti in corsi di formazione e impieghi di vario genere per aziende esterne e cooperative. Nell’ampia area delimitata da alte mura e filo spinato le celle dei 1040 abitanti dell’istituto (nel 2002 erano appena 80) convivono con aule studio e uffici, locali dove si lavorano il vetro e il cuoio, call center, orti, serre per la coltivazione di piante ornamentali, un maneggio, una falegnameria, una sartoria. E non solo.

L’ultima novità è un laboratorio di elettronica. "Un progetto che conferma la volontà di stimolare la crescita umana e professionale di chi sta in prigione", ha dichiarato il presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, durante l’inaugurazione tenutasi il 2 febbraio. "È giusto che chi ha commesso un reato paghi, ma è anche giusto che si punti al recupero della persona umana. E le statistiche parlano chiaro: dove i detenuti lavorano, come a Bollate, il rischio di recidiva diminuisce".

Proprio così. Se altrove quasi 7 detenuti su 10, dopo essere stati rilasciati, rientrano, a Bollate il dato si ribalta: qui 8 su 10, quando tornano al mondo "reale", si costruiscono una nuova vita. Il tutto grazie a un programma di "trattamento avanzato" basato in primis sul lavoro: la percentuale dei reclusi che hanno un’occupazione supera il 55 per cento ed è destinata ad aumentare; l’avvio del nuovo laboratorio per la riparazione di cellulari, apparati audio/video e computer non è che l’ennesimo passo in questa direzione.

A compierlo è stata la WSC, azienda che nel penitenziario fuori Milano ha già 180 dei suoi 600 dipendenti. "Ma non ci piace parlare di lavoro in carcere, parliamo di lavoro e basta", precisa l’ingegnere Natale Caccavo. "Riteniamo che nelle prigioni si possa migliorare la competitività delle aziende, la dedizione al lavoro da parte dei detenuti è elevatissima. Senza contare che spostare parte della produzione nelle carceri è un’ottima alternativa alla delocalizzazione all’estero. Ottima e socialmente utile: offriamo a chi sta scontando una condanna l’occasione di ritrovare il rispetto di sé".

"Il lavoro è il fondamento di un’esistenza dignitosa" anche secondo Lucia Castellano, responsabile del carcere di Bollate, appena premiata con "Il Campione", riconoscimento creato dai City Angels, rivolto a chi si rende protagonista di azioni solidali: "La sfida è di creare per chi vive dietro le sbarre una giornata il più possibile normale, con dei ritmi scanditi. Una routine, insomma, simile a quella di chi sta fuori. Abbiamo realizzato molti progetti anche grazie ai contributi regionali, ma vogliamo aprirci ancora di più all’esterno. Per questo dico agli imprenditori: utilizzateci come risorsa". Un appello condiviso dagli stessi detenuti. Come Remo Bianchi, impiegato nel nuovo laboratorio di elettronica: "Scommettendo su persone che in passato hanno fatto delle scelte sbagliate le aziende fanno una gran cosa: ci danno l’opportunità di vedere il futuro, ci regalano una speranza".

Pozzuoli (Na): nel carcere femminile apre la fabbrica del caffè

 

Corriere del Mezzogiorno, 3 febbraio 2010

 

Il caffè, suggeriva il poeta, pure in carcere ‘o sann fà. De Andrè però stavolta sgranerebbe gli occhi: non di semplici tazzine fumanti di moka, né di espresso si parla, ma di caffè prodotto in carcere e raccolto in pacchetti da 250 grammi, griffate da cotanto marchio: "Caffè Lazzarelle". Realizzato dalla a alla zeta dalle detenute della casa circondariale femminile di Pozzuoli, ottenuto con tostatura rigorosamente artigianale da una miscela di chicchi provenienti da Brasile, Costa Rica, Colombia, India e Uganda.

Il "Lazzarelle" nasce grazie al lavoro di dieci donne campane, formate nell’ambito di un progetto regionale per seguire il delicato processo di torrefazione dell’oro nero, che avviene nell’ex mensa della struttura detentiva flegrea. Da settembre scorso, le signore del caffè lavorano dal lunedì al venerdì per 6 ore e 40 al giorno. Ovviamente nessuno nasce "imparato". Hanno seguito un corso di formazione e poi un seminario pratico. I sacchi di juta con i chicchi sono arrivati a gennaio. Ogni giorno si provvede prima alla miscela e poi alla torrefazione.

Dopo la macinazione, il tutto viene lasciato all’aria per 24 ore. Non solo: il compito delle lavoratrici si estende all’impacchettatura, alla gestione dei magazzini, alla pulizia e alla manutenzione ordinaria dei locali e delle macchine. Persino il packaging, e il bel logo - un Orient express che ha per sfondo, stilizzati, il golfo e il Vesuvio - è stato completamente curato dalle detenute. Che nella fondamentale fase di "marketing" si sono cimentate con la scelta dei colori e soprattutto, nella ricerca del nome (ironico e azzeccatissimo): caffè Lazzarelle. I pacchetti sono bianchi e rosa, da 250 grammi ciascuno.

La produzione, ricorda la coordinatrice del progetto Paola Misto, si aggira sui cento chili di caffè al giorno. Non sono souvenir: saranno immessi sul mercato e venduti nel circuito dei prodotti artigianali. Il prezzo? Medio alto, "perché la qualità del caffè è pregiata" evidenzia la coordinatrice. E aggiunge: "Non parliamo di un passatempo ma di un impegno serio che permette l’acquisizione di conoscenze perfettamente spendibili per un futuro reinserimento delle lavoratrici detenute una volta libere". Il progetto è stato finanziato dalla Regione (assessorato alle politiche sociali) con decreto del 2007. Le lavoratrici sono affiancate in questo percorso da professioniste della Federazione Città sociale, che comprende le associazioni "Il pioppo" e "Giancarlo Siani" e la cooperativa Officine.ecs.

Firenze: 2 Consiglieri regionali del Pd, in visita all’Ipm "Meucci"

 

Adnkronos, 3 febbraio 2010

 

I consiglieri regionali toscani del Pd Enzo Brogi e Severino Saccardi domani, giovedì 4 febbraio, tornano a visitare l’istituto penale minorile "G.P. Meucci" di Firenze (si tratta delle seconda visita dopo quella con il cantante Piero Pelù). "Fu una visita particolarmente intensa e toccante - ricorda Enzo Brogi - con Piero Pelù che cantò alcuni brani con i ragazzi e che, con noi, si interessò a lungo delle loro condizioni, dialogando e scherzando con alcuni di loro".

Anche all’istituto "Meucci" si può, ormai, parlare di "problemi di sovraffollamento", come sottolinea Severino Saccardi, che rileva anche "la carenza di personale, un problema diffuso in gran parte degli istituti penali italiani e toscani, che rende problematico il lavoro di recupero che con professionalità ed impegno viene portato avanti". "Il tema del carcere è davvero sottovalutato ed evidentemente trascurato - continua Brogi - mentre dovrebbe occupare un posto importante in un’agenda politica attenta ai problemi dell’esclusione e della marginalità. Un’analisi attenta porterebbe a notare con immediatezza come il carcere sia divenuto, per tanti aspetti, soprattutto un contenitore della marginalità sociale".

La visita di Brogi e Saccardi al "Meucci" si inserisce nel lungo percorso di visite negli istituti circondariali e penali toscani che i due consiglieri hanno portato avanti fin dall’inizio della legislatura. "Tornare a visitare un istituto carcerario in chiusura di legislatura - sottolinea Saccardi - è un atto che vuole avere anche un significato politico-simbolico. Avevamo iniziato la nostra esperienza istituzionale con l’impegno per il carcere e ci pare significativo concludere così questa legislatura. Per ribadire che le istituzioni, anche in Toscana, devono riservare attenzione ad una realtà che vive ed esprime disagio e sofferenza.

Mi auguro che il garante regionale dei diritti dei detenuti, una figura recentemente istituita dal Consiglio Regionale, possa portare ad un utile e proficuo lavoro che contribuisca al reinserimento di chi ha sbagliato. La certezza della pena - conclude Saccardi - è un principio indiscutibile, ma ci vuole anche un atteggiamento aperto verso le particolari solitudini del nostro tempo, che dal carcere e da quello minorile in modo del tutto particolare, ci chiedono risposte".

Sassari: Sappe; 3 detenuti per cella e solo 1 agente per 4 bracci

 

Ansa, 3 febbraio 2010

 

Gli agenti della polizia penitenziaria, tramite il Sappe, hanno chiesto che venga assegnato subito un nuovo vicecommissario per il braccio maschile del carcere di San Sebastiano, e rafforzato il personale.

"Il reparto è privo di un adeguato riferimento gestionale - ha spiegato il segretario provinciale del Sappe, Antonio Cannas - le funzioni vengono svolte da un ispettore superiore che sino a poco tempo fa comandava una motovedetta a Porto Torres, non ha mai lavorato all’interno di un penitenziario, tant’è che attualmente non indossa neppure la stessa uniforme del personale che comanda".

Ma l’elenco dei mali di San Sebastiano non è finito con personale ridotto e con un unico agente che deve fare il lavoro di quattro persone. "L’unico poliziotto in servizio deve vigilare su quattro bracci disposti a stella. Quando si trova nella parte finale di uno di questi - ha aggiunto Cannas - non può sentire quello che accade negli altri".

Straordinari per compilare le relazioni di servizio: "Se durante il turno accade qualcosa - ha spiegato il segretario del Sappe - il poliziotto deve relazionare per iscritto fuori dall’orario di lavoro e solo dopo aver lasciato il reparto". Al centro del documento inviato alle massime cariche dell’Amministrazione carceraria vi è anche la questione del sovraffollamento.

"Il reparto è saturo - ha scritto Cannas - nelle camere a posto singolo vi sono almeno tre detenuti disposti in letti a castello, l’ultimo sta a 40 centimetri dalla volta. A causa del sovraffollamento fuoriescono esalazioni malsane che il poliziotto in servizio è costretto a respirare. Per questo si richiede l’immediata assegnazione di un nuovo comandante appartenente al ruolo direttivo e urgenti interventi per migliorare le problematiche del vecchio carcere".

Imperia: detenuto non può vedere figlio, ass. sociale indagato

di Natalino Famà

 

Secolo XIX, 3 febbraio 2010

 

Proprio nei giorni scorsi i carabinieri del nucleo di polizia giudiziaria hanno sentito l’operatore, il quale è assistito dall’avvocato Carlo Fossati. Altre indagini per stabilire le eventuali responsabilità saranno eseguite dalla procura della Repubblica nei prossimi giorni.

Aveva segnalato lo scorso mese di dicembre al Secolo XIX il comportamento scorretto degli assistenti sociali del Comune, i quali, a suo dire arbitrariamente, non gli concedevano da circa tre anni di vedere il figlio, nemmeno il giorno di Natale. E, affinché fossero riconosciuti i suoi diritti di padre, peraltro sanciti dal tribunale dei minori di Genova, aveva minacciato di ricorrere alla magistratura.

Ora il suo caso è realmente approdato negli uffici al terzo piano del palazzo di giustizia di Imperia. Il procuratore capo Bernardo di Mattei ha aperto un fascicolo per presunto abuso d’ufficio nei confronti di un addetto al servizio di assistenza sociale comunale.

Proprio nei giorni scorsi i carabinieri del nucleo di polizia giudiziaria hanno sentito l’operatore, il quale è assistito dall’avvocato Carlo Fossati. Altre indagini per stabilire le eventuali responsabilità saranno eseguite dalla procura della Repubblica nei prossimi giorni.

Intanto Avio Celestini, il padre sessantenne, delle cui sorti si occupa l’avvocato Sandro Lombardi, ha ribadito i suoi diritti. "Neanche ad un detenuto, a un camorrista può essere proibito il diritto di incontrare i propri figli se questo stesso diritto è riconosciuto da un giudice del tribunale dei minori" ha rimarcato.

"Se verrà ancora negato questo diritto - ha fatto invece presente l’avvocato Lombardi - non escludo il ricorso all’ufficiale giudiziario per obbligare gli assistenti sociali a rispettare la disposizione".

"Il divieto - aggiunge - è stato sancito attraverso telegramma dai servizi sociali del Comune. Ma è in contrasto con quanto disposto con sentenza dal Tribunale dei minori di Genova, che invece ha concesso al mio cliente la possibilità di incontrarsi con il figlio la domenica. A quanto pare il giorno festivo, visto che gli incontri devono comunque svolgersi alla presenza di un assistente, non sono contemplati dal servizio. Ma questo non è un problema che può riflettersi negativamente compromettendo i diritti del genitore".

Lo scontro di competenze e la contraddittorietà burocratica insomma stanno inficiando questa vicenda. Il divieto di incontri sancito dai servizi sociali che si stanno occupando della tutela del minore a quanto pare sarebbe giustificato dal fatto che il papà e il figlio per un certo periodo - a causa anche dei violenti litigi in tribunale tra Avio Celestini e l’ex convivente - sono stati lontani.

Il tempo di lontananza trascorso, secondo gli assistenti sociali, sarebbe troppo e, stando alle procedure anche consigliate dalle più recenti tesi psicologiche dell’ età infantile potrebbe non essere opportuno che l’uomo torni ad incontrarsi con il bambino che sta attraversando una fase delicata della crescita.

"Ma questa è una teoria. Nella pratica solo il tribunale dei minori può decidere. Tutto il resto è frutto di un’arbitraria decisione. Sarebbe a dire che non potrò mai più rivedere mio figlio? Nemmeno il giorno di Natale per consegnargli di persona un regalino, come è accaduto quest’anno per la terza volta?" ha fatto presente Celestini. "Sono costretto, violando le disposizioni dei servizi sociali, a vedere di nascosto mio figlio all’uscita o all’ingresso della scuola" ha aggiunto il papà. Ebbene, questa sua dichiarazione ha a suo tempo fatto scattare l’attenzione e le segnalazioni degli assistenti sociali che alla polizia giudiziaria avrebbero fatto rimarcare il fatto che l’uomo facesse visita non autorizzata al bambino.

Immigrazione: il permesso di soggiorno per "meriti di giustizia"

 

Ansa, 3 febbraio 2010

 

Il giovane senegalese che ha aiutato le forze dell’ordine a catturare i rapinatori della "Incoop" di Santarcangelo di Romagna (Rimini), ha ottenuto il permesso di soggiorno per meriti di giustizia. A chiederlo per lui è stato il pm Irene Lilliu.

Su impulso del questore di Rimini Oreste Capocasa, il dirigente dell’ufficio immigrazione della questura Massimiliano Olivieri, ha firmato il permesso per il senegalese che aveva visto uno dei due banditi e memorizzato la targa dell’auto usata per la rapina. Per il suo contributo alle indagini è stato così premiato e non sarà espulso, come avrebbe dovuto, essendo entrato in Italia clandestinamente. Come ha riferito la direttrice del supermercato riminese, più volte il giovane aveva trovato, fuori dal market, i portafogli persi da clienti e li aveva sempre restituiti.

Il rapinatore da lui indicato come esecutore del colpo è un pregiudicato condannato per omicidio. Si chiama Giuseppe D’Ascillo, napoletano di 32 anni, e nel 2001 partecipò all’uccisione di un diciassettenne, Stefano Ciaramella, assassinato a coltellate a Casoria (Napoli) per essersi opposto al tentativo di rapina dello scooter della fidanzata. Nonostante la condanna a 30 anni in primo grado e a 15 in appello, D’Ascillo da un anno era in regime di semi-libertà e stava scontando la pena a Bellaria, sempre nel Riminese, con l’affidamento in prova. L’arresto per la rapina di Santarcangelo è stato confermato e quindi l’uomo è tornato in carcere.

Immigrazione: Maroni; rapporto Msf? con pregiudizi ideologici

 

Ansa, 3 febbraio 2010

 

Un "rapporto basato su pregiudizi ideologici che non descrive la realtà". Il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, punta il dito sul rapporto dell’associazione Medici Senza frontiere relativo alla condizione degli immigrati clandestini detenuti nei centri di identificazione ed espulsione italiani.

Per il ministro, che oggi ha firmato a Monza un patto per la sicurezza insieme alle autorità locali il report Msf "non corrisponde al vero quando si dice che non sono garantiti i diritti, che non c’è assistenza sanitaria e che i clandestini sono trattati male. Se poi qualcuno dice che chi sta nei Cie è triste perché sa di essere espulso, questo è ovvio. Non pretendo - ha sottolineato Maroni - che in attesa di essere rimpatriato sia felice, ma questo non ha nulla a che vedere con il trattamento ed il rispetto delle persone".

Insomma, Maroni si dice "d’accordo al 100 per 100 con il giudizio espresso ieri dal prefetto Morcone e ha ribadito l’efficacia dei Cie: "Sono strutture che servono per aumentare le espulsioni". E per migliorare le condizioni dei clandestini detenuti nei Cie, ha concluso Maroni, "stiamo definendo un protocollo di intesa con la Croce Rossa perché vogliamo che in Cie siano gestiti in modo coordinato e unitario".

Iran: nove persone impiccate dopo le proteste antigovernative

 

Adnkronos, 3 febbraio 2010

 

Il vice capo della magistratura iraniana, Seyyed Ebrahim Raeisi, citato dall’agenzia d’informazione Fars, ha annunciato che saranno impiccati nei prossimi giorni nove dimostranti arrestati durante le proteste antigovernative scoppiate in Iran.

"Altre nove persone saranno presto giustiziate per aver partecipato ai recenti scontri avvenuti nel Paese - ha affermato Raeisi in visita a Qom, città non distante da Teheran -. Sono tutti legati a movimenti anti-rivoluzionari che avevano l’obiettivo di mettere a repentaglio la sicurezza dell’Iran", ha sostenuto il vice capo della magistratura.

Lo scorso 28 gennaio nella Repubblica Islamica sono state eseguite le condanne a morte di Mohammad Reza Ali Zamani e Arash Rahmanpur, due giovani accusati di far parte di un gruppo filo-monarchico e riconosciuti colpevoli del reato di Moharebeh (essere nemico di Dio). E nel giorno dell’annuncio di queste condanne a morte arriva un attacco durissimo all’establishment politico-religioso della Repubblica Islamica da parte del leader riformista Mir-Hossein Mousavi, che ieri ha rilasciato un’intervista al sito www.kaleme.org. Gli obiettivi della rivoluzione islamica del 1979, secondo Mousavi, non sarebbero stati realizzati poiché sarebbero ancora intatte "Le radici della tirannia e della dittatura" che avevano contraddistinto l’epoca dello Shah Reza Pahlevi.

Le dichiarazioni di Mousavi assumono un significato ancora più profondo perché sono diffuse durante le celebrazioni del Fajr (alba), i 10 giorni che precedono l’anniversario della rivoluzione che verrà celebrato nella Repubblica Islamica l’11 febbraio.

"La rivoluzione - ha affermato Mousavi - non ha rimosso tutte quelle strutture che avevano portato al totalitarismo e alla dittatura. Oggi - ha aggiunto - sussistono contemporaneamente elementi che portano il Paese verso la dittatura e altri che lottano (contro questa forma di governo, ndr)". Mousavi, uscito ufficialmente sconfitto alle elezioni presidenziali dello scorso 12 giugno, ha quindi severamente criticato la repressione con cui le forze di sicurezza hanno contrastato in questi mesi le proteste antigovernative. "Soffocare i media, riempire le carceri e uccidere brutalmente la gente che manifesta pacificamente per i suoi diritti - ha concluso Mousavi - sono segnali che indicano che le radici della dittatura e della tirannia (dell’epoca dello Shah, ndr) sono rimaste intatte".

Rep. Ceka: primo detenuto ai domiciliari dopo riforma codice

 

Ansa, 3 febbraio 2010

 

Primo caso di arresti domiciliari nella Repubblica ceca dopo l’introduzione del nuovo codice penale. Il primo a beneficiarne è un cittadino ceco condannato a un anno di reclusione, da scontare a casa. L’uomo ha iniziato ieri sera a espiare la pena fra le quattro mura domestiche. Come riferisce il sito di informazione www.novinky.cz., Stefan Rolnik, 46 anni, condannato per aver aggredito ubriaco il nuovo amico della sua ex compagna, dovrà trascorrere un anno nel suo domicilio a Loucovice, presso Cesky Krumlov (sud). Per controlli dovrà essere reperibile a casa tutti i giorni fra le 20.00 e le 05.00, e dovrà evitare l’alcool. Se non rispetta le condizioni, rischia fino a otto mesi di reclusione in un penitenziario.

L’istituto degli arresti domiciliari è stato introdotto nel Paese dal nuovo codice penale entrato in vigore il mese scorso. I controlli personali saranno sostituiti l’anno prossimo dal monitoraggio a distanza tramite braccialetti elettronici. Il ministero della giustizia stima che ad espiare la pena a casa potrebbero essere ogni anno circa 1.500 persone. I risparmi per lo Stato sarebbero di 750 milioni di corone (circa 30 milioni di euro).

"Per me è importante stare con i miei figli, cosa che non potrei fare se fossi in carcere", ha detto il detenuto Rolnik alla tv ceca. Il primo controllo è arrivato nella sua fatiscente casa di legno, senz’acqua né elettricità, già la notte scorsa.

Usa: "Prison valley"... un film documentario sulle carceri private

 

Asca, 3 febbraio 2010

 

C’è un’industria negli Stati Uniti d’America che non ha risentito in nessun modo della crisi globale dell’economia: è quella dei penitenziari privati. All’interno di queste prigioni super tecnologiche, controllare i detenuti costa molto poco e le spese di gestione sono praticamente irrisorie grazie a un numero minimo personale di vigilanza a fronte di un massimo numero di reclusi. L’esasperazione del sistema panottico al servizio del business. A Denver, nel Colorado, ci sono detenuti lavoranti che guadagnano due dollari l’ora, rendendo altamente competitivi i prodotti per il bassissimo costo della mano d’opera.

Due giornalisti francesi, David Dufresne e Philippe Brault, dopo aver visitato 14 penitenziari dello stato del Colorado (tra i quali il famoso Supermax dove sono rinchiusi più di cinquecento detenuti) hanno realizzato il film documentario Prison Valley con il quale raccontano i meccanismi di funzionamento e la quotidianità di chi vive al di là delle mura carcerarie. Prison Valley è, per l’esattezza, un web documentary, prodotto da Upian, casa che ha finanziato alcuni fra i più significativi esperimenti multimediali, come Gaza/Sderot e Thanatorama.com, e sarà trasmesso su internet a partire dal prossimo mese di aprile.

 

 

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